
Si incontrano una sera di ottobre, davanti a un teatro. Lui, rientrato da Londra, insegna recitazione a un gruppo di anziani. Lei lavora in un'agenzia di viaggi. Dal fascino indecifrabile di Teresa, Nino è confuso e turbato. Starle accanto lo costringe a pensare, a farsi e a fare domande, che via via acquisiscono altezza e spessore. Al di là dell'attrazione fisica, coglie in lei un enorme mistero, portato con semplicità e scioltezza. L'uno guarda l'altra come in uno specchio, che di entrambi riflette e scompone le scelte, le ambizioni, le inquietudini. Tanto Nino è figlio del suo tempo (molte passioni spente, nessuna tensione ideologica), tanto Teresa, con il suo segreto, sembra andare oltre. Ostaggi di un mondo invecchiato, si lanciano insieme verso un sentimento nuovo, come si trattasse di un patto, di una scommessa. Accade sotto lo sguardo lungo e partecipe di Grazia, zia di Teresa e insegnante di teatro di Nino, attor giovane allo sbando. Proprio mentre crescono l'attesa e il desiderio, Grazia esce di scena, creando una sorta di "dopo" che rilegge l'intera vicenda di Nino e Teresa, il loro cercarsi là dove sono più profondamente diversi. Paolo Di Paolo entra nel teatro della contemporaneità cogliendo i segni di un bene inaspettato, di una luce che si accende dove smettiamo di esigere garanzie, dove viene voglia di mettersi alla prova. E di capire se siamo in grado di vivere.
Sasa Belov e Kevin Joyce. Due ragazzi all'inseguimento di un sogno: vincere la medaglia d'oro del basket alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Uno si è allenato all'ombra della colossale statua della Grande Madre Russia a Stalingrado, l'altro sui campetti di cemento tra i grattacieli di New York. Due squadre. Due mondi contrapposti. Due culture. Quando arrivano allo scontro conclusivo, Usa-Urss non sarà solo una partita memorabile, sarà per sempre legata ai tre secondi più leggendari, contraddittori e ingarbugliati della storia dello sport. Ma Monaco '72 è anche la scena di una strage spaventosa: undici atleti israeliani cadono sotto l'attacco terroristico di Settembre Nero. Un lutto che dev'essere riassorbito in fretta, proprio per fare spazio alla sfida tra le due superpotenze. Molti anni dopo, inchiodato davanti alla replica notturna di quei quaranta minuti, inghiottito dal rivoltarsi continuo dei vinti in vincitori e dei vincitori in vinti, il narratore viene sbalzato in un mondo che non esiste più, riportato alle estati della sua infanzia nel campetto di pallacanestro di Cisternino, quando sognava di salire un giorno sul podio olimpico. Insieme a lui, stiamo con Kevin Joyce e Sasa Belov in una partita che incolla alla pagina fino a quei controversi tre secondi finali.
Valtellina. Novembre 1994. Il settantenne Ulisse Bonfanti attende Mario Ferrari davanti al bar e lo ammazza a picconate. E, alla gente che accorre, dice di chiamare i carabinieri, che vengano a prenderlo, lui ha fatto quello che doveva. Erano quarantotto anni che Ulisse mancava da quei monti. Dopo avere lavorato tutta la vita con la madre Giuditta in una fabbrica tessile della Valsusa, è tornato e si è rifugiato nella vecchia baita di famiglia, o almeno in quel che ne è rimasto dopo un incendio appiccato nel 1944. Non un fiato, non un filo di fumo, non una presenza tutto intorno. In questo abbandono, tormentato da deliri e allucinazioni, Ulisse trascorre l'ultima notte di libertà: riposa davanti al camino, cammina nei boschi, rivive la tragedia che ha marchiato la sua esistenza. Dimenticato da tutti, si rinchiude come un animale morente in quella malga dove nessuno si è avventurato da decenni. I ricordi della povertà contadina, della guerra, della fabbrica, delle tragedie familiari, si alternano in una tormentata desolazione. Una desolazione che nasce dal trovarsi nel paese dove, nel 1946, è morta la sorella Nerina. È la stessa Nerina a narrare quanto accaduto. Uno di fronte all'altra, la neve sullo sfondo, Ulisse e la giovane sorella si raccontano le verità di sangue che rendono entrambi due fantasmi sospesi sul vuoto della Storia.
Esiste un momento nella vita di ognuno di noi dopo il quale niente sarà più come prima: quel momento è adesso. Arriva quando ci innamoriamo, come si innamorano Lidia e Pietro. Sempre in cerca di emozioni forti lei, introverso e prigioniero del passato lui: si incontrano. Rinunciando a ogni certezza, si fermano, anche se affidarsi alla vita ha già tradito entrambi, ma chissà, forse proprio per questo, finalmente, adesso... E allora Lidia che ne farà della sua ansia di fuga? E di Lorenzo, il suo "amoreterno", a cui la lega ancora qualcosa di ostinato? Pietro come potrà accedere allo stupore, se non affronterà un trauma che, anno dopo anno, si è abituato a dimenticare? Chiara Gamberale stavolta raccoglie la scommessa più alta: raccontare l'innamoramento dall'interno. Cercare parole per l'attrazione, per il sesso, per la battaglia continua tra le nostre ferite e le nostre speranze, fino a interrogarsi sul mistero a cui tutto questo ci chiama. Grazie a una voce a tratti sognante e a tratti chirurgica, ci troviamo a tu per tu con gli slanci, le resistenze, gli errori di Lidia e Pietro e con i nostri, per poi calarci in quel punto "sotto le costole, all'altezza della pancia" dove è possibile accada quello a cui tutti aspiriamo ma che tutti spaventa: cambiare. Mentre attorno ai due protagonisti una giostra di personaggi tragicomici mette in scena l'affanno di chi invece, anziché fermarsi, continua a rincorrere gli altri per fuggire da se stesso...
Gli occhi grandi e profondi a forma di mandorla, il volto dai tratti regolari, i folti capelli castani: la bellezza di Maria è di quelle che gettano una malìa su chi vi posi lo sguardo, proprio come accade a Pietro Sala - che se ne innamora a prima vista e chiede la sua mano senza curarsi della dote - e, in maniera meno evidente, all'amico Giosuè, che è stato cresciuto dal padre di lei e che Maria considera una sorta di fratello maggiore. Maria ha solo quindici anni, Pietro trentaquattro; lui è un facoltoso bonvivant che ama i viaggi, il gioco d'azzardo e le donne; lei proviene da una famiglia socialista di grandi ideali ma di mezzi limitati. Eppure, il matrimonio con Pietro si rivela una scelta felice: fuori dalle mura familiari, Maria scopre un senso più ampio dell'esistenza, una libertà di vivere che coincide con una profonda percezione del diritto al piacere e a piacere. Attraverso l'eros, a cui Pietro la inizia con sapida naturalezza, arriva per lei la conoscenza di sé e dei propri desideri, nonché l'apertura al bello e a un personalissimo sentimento della giustizia. Durante una vacanza a Tripoli, complice il deserto, Maria scopre anche di cosa è fatto il rapporto che, fino ad allora oscuramente, l'ha legata a Giosuè. Comincia una rovente storia d'amore che copre più di vent'anni di incontri, di separazioni, di convegni clandestini in attesa di una nuova pace.
Continua il dialogo tra Miriàm e Iosèf. Continua con il loro esilio in Egitto, il bambino carico di doni e di pericoli. Oro, incenso, mirra e scannatori di Erode, il Nilo e il Giordano, la falegnameria e la croce: la famiglia più raffigurata del mondo affronta lo sbaraglio prestabilito. In ogni nuova creatura si cercano somiglianze per vedere in lei un precedente conosciuto. Invece è meravigliosamente nuova e sconosciuta. Ogni nuova creatura ha la faccia delle nuvole.
Questa è la storia di Aldo, figlio di Palmiro Togliatti, il Migliore. Una storia di solitudine, timidezza e gentile follia. La storia di un uomo che non ha lasciato memoria in un mondo pieno di memoria. Lo chiamano Aldino, anche quando è un uomo adulto. Dal 1926 al 1944 ha vissuto in Russia e ha frequentato la scuola di Ivanovo (destinata ai figli dei dirigenti di tutti i partiti comunisti del mondo). Dopo i funerali del padre, Aldo scompare. Sappiamo che ha già avuto problemi di salute mentale e che vive con la madre, a Torino. Tra lui e la madre, Rita Montagnana, immaginiamo una stretta vicinanza, come in tante vicende di vite che non riescono a distendersi e si aggrovigliano intorno a un genitore. Una volta lo trovano a Civitavecchia, sul molo. Sembra un barbone, vuole salire su una nave, partire. Più tardi succede ancora, a Le Havre. Aldo sembra spiare, in fondo all'orizzonte, un'altra parte del mondo. Per la seconda volta viene riportato a casa. Più tardi lo ritroviamo in una casa di cura privata, villa Igea, a Modena, dove resta per 31 anni, fino alla morte nel 2011 a 86 anni. In clinica, per via di quel cognome pesante, è menzionato solo come "il signor Aldo". È un paziente mite: legge romanzi in francese e in russo, compila la "Settimana Enigmistica" che gli porta un militante del Pci, Onelio Pini, insieme alle sigarette Stop. Nell'89 è quest'ultimo a dovergli dire che l'Unione Sovietica non c'è più. E Aldo dice: "Non ci credo".
Parigi. È qui che la passione per la danza ha condotto Alice, acrobata di un'esistenza precaria come la maggior parte dei suoi coetanei: la generazione senza futuro, quella immersa in un eterno presente che si sente derubata da chi l'ha preceduta. Il suo vivere fuori squadra e senza radici è in parte anche una sfida alla madre - insigne grecista, docente universitaria, alle spalle brucianti passioni politiche e un presente di dolenti disillusioni -, da sempre convinta che l'unico antidoto al caos e alle brutture del mondo è la bellezza; che ci si può considerare vivi fino a quando ci si lascia sopraffare dalla nuda poesia dell'esistenza. Dopo uno scontro feroce, la accompagna alla stazione e, mentre un giovane pianista "di strada" sta suonando con mani incerte una semplice melodia, la madre si accascia. A Napoli, dove la riportano in coma, quel corpo diventa per Alice uno scrigno di memoria e un enigma, a ogni nuova scoperta - sorprendenti segreti e impensate fragilità una figura sempre più mutevole e cangiante. Il ritorno a Napoli coincide per lei con il ritorno nella casa della sua infanzia, dove è costretta a una difficile convivenza con il padre, chiuso in una scontrosa solitudine. Iaia Caputo scava nel cuore di una figlia per arrivare al grande cuore di sua madre, per ripercorrere la catena dei giorni e dell'accadere, perché capita che infine sia il dolore che insegna l'arte di vivere.
Aprire un cassetto, una scatolina rossa, una bella cassapanca coi piedi di leone, un'angoliera - tutti oggetti che stavano nella vecchia casa di famiglia - e trovarci dentro "un richiamo come all'indietro". Un richiamo a un passato ricevuto in eredità ma di cui il cinquantenne Ugo ha solo pochi ricordi: la casa di Guzzano, un tempo piena di vita ma già vuota dopo la sua nascita, già solamente casa di vacanze, e poi la zia Bruna, la zia Maria, la zia Fila, il nonno, lo zio Renato, lo zio Arrigo... Di fronte a questo vuoto, a questo buco impossibile da riempire ma che è ormai necessario attraversare, Ugo non può che inventarsi il proprio modo per creare "un piccolo centro d'ordine in mezzo alle forze del caos". E il modo che si inventa è raccontare. Allora ecco che dal passato sorgono frammenti, piccole avventure, le corse in macchina con il nonno, l'aia di notte, il favo dei calabroni nel sottotetto, l'amore alla falsa diga del Limentra, visi in penombra, frasi che ritornano, che non si è mai finito, sembra ieri, forza e coraggio. Ma soprattutto emozioni, piccole angosce, malinconie, un po' di sollievo. Sennonché chi racconta ha l'abitudine di evitare, di scantonare, di "slaterare", perciò alle emozioni sigillate dentro a quei cassetti antichi arriva piano e slaterando, appunto, parlando di chi ha conosciuto appena per arrivare infine alla perdita dei genitori: allo smantellamento degli affetti più cari.
Un uomo di molti mestieri è incaricato di un delicato restauro. La statua del crocifisso contiene segreti che si rivelano solo al tatto. Bisogna risalire a diverse nudità per eseguire. C'entra una città di mare e un villaggio di confine, un amore d'azzardo e una volontà di imitazione.
Sono trascorsi quarant'anni, ma la Luisona è ancora lì, a guardarci benevola e indigeribile dalla bacheca del Bar Sport. Come sono ancora lì, invecchiati di nemmeno un giorno e identici a se stessi, il tennico, appoggiato con un gomito al fondo del bancone, proprio accanto all'uomo con cappello, il professore dal bell'accento partenopeo, il ragioniere innamorato della cassiera prosperosa e il playboy sparaballe, e poi il nonno in giacca e cravatta, con l'occhio fisso sullo schermo del televisore spento, e il bimbo del gelato. Fuori, l'insegna del Bar Sport campeggia intermittente - anch'essa, una sicurezza. Quest'edizione speciale vuole rendere omaggio a un classico del comico che mantiene intatta la sua capacità di parlare di noi, dei nostri vizi, dei nostri tic e delle nostre debolezze, attraverso la lente deformante di Stefano Benni.
È una sera stellata di ottobre. Massimo Galbiati, un professore di chimica di una tranquilla università di provincia, e Virginio de Raitner, suo inossidabile ex collega ultracentenario, corrono verso la Svizzera a bordo di una Jaguar coupé, sulle sponde selvagge del lago Maggiore, in compagnia di un bassotto fonofobico e mordace. Non è che si conoscano molto. De Raitner mantiene uno studio in Dipartimento nonostante sia da trent'anni in pensione, ha pure un suo laboratorio, Il Laboratorio Chiuso, in cui nessuno osa mettere il naso, e i docenti e i tecnici si prostrano ai suoi piedi. Massimo invece è solitario, orgoglioso, non lecca i piedi a nessuno, tantomeno al vecchio professore, ed è stato uno dei migliori scienziati italiani nel campo della chimica che era d'avanguardia fino a dieci anni fa. Ma de Raitner lo ha convocato a sorpresa per farsi accompagnare a Locarno, verso un convegno avvolto nella discrezione e nel riserbo più assoluto: e tu vuoi non andare? Vuoi non suscitare l'invidia feroce di tutto il Dipartimento, che brama anche solo di far da autista al vecchio professore sulla sua magnifica E-Type? Poi, quando arrivano a Locarno e il congresso inizia davvero, Massimo scopre che è strapieno di premi Nobel e che gli speaker sono gli scienziati di grido di quella sua stessa amata chimica ormai non più d'avanguardia.