
La vicenda che Giampaolo Rugarli racconta in questo "II buio di notte" offre un grottesco spaccato della società italiana all'inizio del secolo nuovo, quando tutti i valori che hanno regolato le relazioni tra gli uomini sono stati irrisi e travolti dall'ansia della trasgressione, dal desiderio di una libertà sfrenata, della ricerca di un benessere e di un piacere egoisti e immediati. Nonostante tutto, nonostante, cioè, che istituzioni laiche e devote, che ministri di Chiesa e di Stato abbiamo completamente perso qualsiasi senso della misura e forse persine il ben dell'intelletto, la speranza che un Dio misericordioso alla fin fine dia un senso alle cose prova a resistere a ogni assalto, persine di chi dovrebbe esserne il testimone in terra. La tentazione di cedere rassegnati, riconoscendo che il caos l'ha avuta vinta e non c'è più niente da fare, serpeggia insinuante, ma basta la scelta di mettersi a raccontare per dover riordinare gli accadimenti e le memorie, le versioni e le fonti. Così il disastro della deriva in cui siamo sì trasforma in un vero e proprio romanzo giallo, con tanto di morto e assassino, perché una responsabilità e un colpevole devono pur esserci e si tratta soltanto di individuarli.
E questo lo scenario in cui compaiono tormentose storie d'amore, inconfessabili segreti di fanciulle, burrascose vicende marinare, prepotenze e punizioni d'una ciurma allo sbando. E soavi momenti di quiete degli undici superstiti, accuditi per cento giorni dalle disinibite donne dell'isola norvegese. Piero Quirino è il nobiluomo veneziano capitano della nave partita da Creta nel 1431 e scomparsa all'imbocco della Manica. A Venezia lo si crede morto annegato, ma sorprendentemente diciannove mesi dopo la sua partenza ritorna in patria con i pochi compagni d'avventura rimasti, dopo un lungo percorso a piedi attraverso la Svezia e la Germania. Scrive delle sue peripezie in un dettagliato, minuzioso resoconto, oggi conservato nella Biblioteca apostolica vaticana. Rispettati gli avvenimenti e la cronologia del viaggio, Giliberto e Piovan costruiscono Alla larga da Venezia addomesticando il linguaggio di seicento anni fa, innovando e ampliando vari sviluppi narrativi di quell'antico testo.
Mentre in molte capitali europee soffiava il vento innovatore dell'Illuminismo, la Roma papalina di Pio VI Braschi sonnecchiava torpidamente sotto la polvere dei secoli. Era la Roma di Meo Patacca e di Pasquino, di Canova e di Pinelli, tappa obbligata dei "viaggi in Italia" dell'intellighenzia cosmopolita, da De Brosses a Goethe. Fu in questa Roma che, in riva al Tevere, nacque Lucina. Sua madre - che esercitava il puttanesimo al Porto di Ripetta, nei miserabili quartieri dove Illirici, Greci, Lombardi, Borgognoni e Portoghesi vivevano arroccati intorno alle rispettive chiese - la lascia orfana che è ancora bambina. Affidata alle suore, Lucina rivela una voce meravigliosa cantando le lodi del Signore nel coro delle Orfanelle: una voce di "musico sopranista", o di "castrato", come più comunemente si diceva; una voce da far invidia alle cantanti di maggior fama internazionale. Sennonché, nello Stato Pontificio, la carriera di cantante non era permessa alle donne. Ma Lucina, pur di cantare, si travestì da maschio e, fingendosi castrato, riuscì a diventare un musico famoso, di nome Leonardo. Fino a quando, molti anni dopo, con l'avvento della Repubblica Romana, potè tornare a chiamarsi Lucina. Queste, e mille altre vicende, si svolgono nello scenario turbinoso degli anni che vanno dalla Rivoluzione Francese agli albori del Risorgimento.
Adelaide è oramai sulla soglia della prima maturità. Le fantasie della giovinezza, le indefinite speranze, il vago desiderio di evadere dai pensieri, dai gesti e dalle parole consunte di tutti i giorni si sono a poco a poco logorati in un grigiore anonimo. Un'inquietudine di cui non riesce a definire il profilo ma di cui pure non arriva a liberarsi. Il marito Errico? La figlioletta Cristina? Non le dicono più niente: ammesso che le abbiano mai detto qualcosa. Come ritrovare - o riuscire finalmente a trovare - la semplicità dell'innocenza, la concretezza dell'amore? Le cose che hanno peso e senso? La vita stessa insomma, nella sua verità più autentica? Forse, al di là di solitudini e incertezze: al di là dello stesso maligno serpente che le ha deposto un perfido uovo nel petto. Un impasto linguistico tessuto in una policromia di voci e di forme scivola pagina dopo pagina verso il fondo remoto della lingua. O dell'anima. La vita, l'amore, la malattia, la morte: gli snodi che fissano i passaggi decisivi del nostro essere gettati nel mondo sono ancora una volta trattati con grazia e profondità da Corrado Ruggiero.
La raccolta degli scritti autobiografici di Fulvio Tomizza, che ora si pubblica, è l'ultima costruita dall'autore scegliendo tra le molte pagine d'occasione che era venuto accumulando negli anni mentre tornava insistentemente a riflettere sui grandi nodi che avevano segnato la sua esperienza di uomo, di cittadino e di scrittore, alla ricerca di un'interiore coerenza che ogni volta sembrava sfuggirgli e di nuovo inseguiva caparbio. Tomizza è rimasto fedele a se stesso, alla sua origine contadina e terragna, in sintonia con la quale ha ricostruito le drammatiche vicende del cambiamento rivoluzionario all'indomani della guerra e al tempo stesso dell'esodo di massa in Italia, lasciando case e cose, se non addirittura la vita. Dieci anni fa, il 21 maggio 1999, Tomizza se n'è andato: per un verso sembra ieri e nei pensieri è facile riprendere il colloquio con l'uomo che cercava e donava amicizia e solidarietà per poi improvvisamente chiudersi in una cupa solitudine e in un disperato pessimismo; per l'altro è passato un secolo e si è voltato pagina, cosicché certe sue ansie ideali e morali appaiono terribilmente distanti, quasi più non ci appartenessero. Rileggere le sue pagine, quelle più definitive e solenni e queste più divaganti e quotidiane, serve a capire cos'è accaduto, a riflettere su quanto il mondo è diverso oramai. (Introduzione di Cesare De Michelis)
In un mondo in cui esiste solo l'informazione, che si avvita su se stessa, parla di se stessa, megafono del nulla, quel poco di realtà che c'è ancora è ignorata dai media e quindi non esiste, perché come dice lo slogan di Teleworld "fatto è la notizia e la notizia è il fatto". Il distacco tra virtuale e reale è ormai completo. Insospettito da alcuni segnali il protagonista, Matteo, in tre giorni di ricerca angosciosa durante i quali assiste a episodi di inaudita e gratuita violenza, di cui nessuno dà conto, scoprirà questa verità di cui gli altri, paghi e storditi dall'incessante rumore di fondo dei media, non sembrano preoccuparsi o avere coscienza. Matteo è un uomo in grigio, ingenuo e mite. Né eroe né rivoluzionario, la sua ribellione sarà la morte. Mentre il mondo dell'informazione, a causa di un blackout, imploderà su se stesso e scomparirà insieme ai suoi aiutanti. Il finale del libro, che a suo modo è anche un giallo, è a sorpresa.
Vincenzo Lauria torna in Italia in occasione della morte del padre. Da molti anni vive a New York dove fa il giornalista. Resterà ad Aquilana, piccolo paese dell'entroterra lucano che ha abbandonato da ragazzo, solo il tempo necessario a sbrigare le pratiche della successione. I giorni trascorsi nella casa della sua infanzia e quei luoghi così carichi di bellezza e di mistero riaprono antiche ferite e svelano inquietudini lontane. La drammatica scomparsa del fratello maggiore, il rapporto difficile con un padre assente, il ricordo struggente della madre. Mentre attende l'apertura del testamento, tutto intorno a Vincenzo sembra avvolto nell'aura misteriosa di una realtà parallela in cui si intrecciano i suoni e gli odori di un'altra vita. E così riaffiorano i ricordi di una terra arcana, matrigna, le pratiche magiche, le paure e i segreti inconfessabili. Quasi un'eco minacciosa, che risuona nel paesaggio desolato della valle. Finché, la notte prima della partenza, un evento sconcertante costringerà Vincenzo alla resa dei conti con il suo passato...
Una giovane donna, che da bambina sognava di cambiare il mondo, e che poco più che adolescente ha finito per restare impigliata nella rete della mafia, oggi rischia consapevolmente la vita per dare un contributo alla lotta contro Cosa Nostra. Con le sue deposizioni ha consentito ai magistrati di Palermo di ricostruire gli affari criminali di una cosca che faceva capo a Bernardo Provenzano facendo i nomi di mandanti ed esecutori. Carmela Rosalia Iuculano, che ora vive sotto copertura, ha intrapreso questo difficile percorso inizialmente per amore dei figli, voleva dare loro un destino diverso dal suo, nella legalità; poi ha cominciato a pensare che in Sicilia fosse possibile un cambiamento e a credere nell'utilità di quello che stava facendo. Piano piano le è nata la speranza di diventare un esempio per le mogli di altri mafiosi, per i figli nati in queste famiglie sbagliate. Ha cominciato a credere che anche altre persone possano ribellarsi e denunciare chi lede la loro dignità. Pensa che solo seguendo senza tentennamenti questa linea la Sicilia potrà liberarsi della mafia, quella mala pianta che non la fa respirare. Il coraggio esemplare di una donna, magistralmente raccontato da Carla Cerati in un libro che è assieme la cronaca di un pezzo di Storia della Sicilia e la lucida testimonianza dell'amore di una madre
Una lunga passeggiata dentro Roma secondo il percorso immaginato nel romanzo che Lucio Grimaldi aveva pensato tanti anni prima: di questa storia, progettata ma mai portata a compimento, il protagonista ritrova casualmente un suo vecchio taccuino. Ha inizio così una flânerie trasognata nel cuore di Roma, alla riscoperta dei luoghi e dei personaggi della propria giovinezza in un intreccio di memorie del passato e folgoranti agnizioni di un presente forse reale o forse solo immaginario. Un romanzo emotivamente coinvolgente, ricco di sorprese e di surreale ironia, di umori beffardi, di atmosfere e di poesia.
«Il viaggio più lungo / è il viaggio verso l'interno», scriveva Dag Hammarskjöld; all'interno di noi poiché «la radice di ciò che ci desta meraviglia è nei nostri cuori» (Francis Ponge). Questo libro percorre, in 52 stazioni di sosta e di lettura (una per ogni settimana dell'anno), la memoria sapienziale delle Lettere e delle Scritture, in una cornice di piccole parabole e meditazioni, ritratti ed elogi, paradossi e luoghi dell'anima; libri e Maestri che hanno formato il Novecento e l'autore sono evocati nella luce dell'affetto, che fa crescere e illumina. Uno spazio di pensiero e di raccoglimenti, da Vittore Branca a Max Milner, da Archangelos a Cingoli, da Sainte-Marie de la Tourette alla Sagrada Familia, che fanno dell'Europa un lascito ricco di futuro. Così il simbolo in cui converge tutto il cammino è il «germoglio»: una promessa, un inizio, uno stelo di speranza - nell'incompiuto, nell'Aperto.
Questo libro propone tre fiabe da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, una delle principali raccolte di storie del Seicento italiano. Nella nuova traduzione proposta dallo scrittore napoletano Gennaro Matino si possono leggere «Pinto Smalto», «Sole, Luna e Talia» e «Le tre cetra». Si tratta di fiabe incentrate sul rapporto tra sentimenti e cucina. Nella prima, Betta decide di prepararsi un marito con le proprie mani impastando zucchero, mandorle, muschio e acqua di rose; nella terza è un uomo, Ciommetiello, che si taglia un dito su una ricotta e fantastica di una donna di carnagione bianca e rossa; nella seconda la cucina tocca in sorte a due figli che rischiano nientemeno di essere messi in pentola.
Sommario
Introduzione. Lo spettacolo delle parole di Enzo Decaro. 1. Pinto Smauto. Trattenemiento terzo de la iornata quinta / Pinto Smalto. Trattenimento terzo della quinta giornata. 2. Sole, Luna e Talia. Trattenemiento quinto de la iornata quinta / Sole, Luna e Talia. Trattenimento quinto della quinta giornata. 3. Le tre cetra. Trattenemiento nono de la iornata quinta / I tre cedri. Trattenimento nono della quinta giornata
Note sull'autore
Giambattista Basile (1566-1632) è autore de Lo cunto de li cunti, la prima raccolta europea di fiabe popolari. Molte delle sue fiabe, tutte scritte in napoletano, ebbero imitatori: confluendo nelle celebri Cenerentola e Il gatto con gli stivali di Perrault o il Corvo e l’Amore delle tre melarance di Gozzi. Una traduzione delle fiabe in italiano è stata realizzata da Benedetto Croce nel 1925.
Gennaro Matino, parroco napoletano e scrittore, è editorialista di Avvenire, Il Mattino e la Repubblica. Con Erri De Luca ha pubblicato: Mestieri all’aria aperta: pastori e pescatori nell'Antico e nel Nuovo Testamento (Feltrinelli 2004), Almeno 5 (Feltrinelli 2008) e Sottosopra: alture dell’Antico e del Nuovo Testamento (Mondadori 2008).
Enzo Decaro, attore e sceneggiatore, è esponente della nuova comicità napoletana, portata alla ribalta dal gruppo teatrale La Smorfia nella seconda metà degli anni Settanta, assieme a Massimo Troisi e Lello Arena.
Arriva nelle sale cinematografiche il film "La legge degli spazi bianchi" di Mauro Caputo, presentato alla Mostra di Venezia e ispirato al primo dei cinque racconti di questo libro. In una fredda mattina d'inverno, il dottor Fleischmann è costretto ad affrontare l'inizio di una progressiva perdita di memoria. Medico e uomo di scienza, si ritrova suo malgrado in un universo dominato dai misteriosi rapporti tra il destino e i meccanismi che regolano la vita. E giunge alla conclusione che dà il tono alla raccolta: «Tutto è scritto negli spazi bianchi. Tra una lettera e l'altra. Il resto non conta».