
Notte del 18 luglio 1936. Barcellona brucia. Inizia la guerra civile che porterà al potere Franco. La famiglia italiana Moncalvi, titolare di una delle più rinomate gastronomie della città, è al bivio: cercare di sopravvivere nei tumulti o tentare la fuga verso l'Italia. Decideranno di partire, ma sarà uno strappo doloroso. A raccontare l'epopea della famiglia Moncalvi è Augusto, "Gutin", il più piccolo dei fratelli. Dopo un viaggio sospeso tra il sollievo di essere scampati alla violenza, la disperazione per aver lasciato la propria casa e la speranza in un nuovo avvenire, gli occhi sognanti del ragazzo vedranno le meraviglie di Genova, la villa sulle colline di Gavi dove ripareranno, l'incanto della vita nei boschi. Ed è qui che Gutin rimane affascinato da uno zio avventuriero, grande conoscitore di quelle storie di mare di cui la fantasia del ragazzo si nutre. Ma Augusto resta affascinato anche da una ragazza dai riccioli neri, Laura, con la quale inizia a trascorrere le sue giornate. Quello che gli manca, però, è il coraggio di dichiararle il suo amore. Qualche anno dopo questo piccolo Eden viene spazzato via dai venti della Seconda guerra mondiale. L'adorato zio sceglie di salire sui monti con i partigiani, Laura fugge insieme alla sua famiglia: la vita dei Moncalvi non è più la stessa. Giulia, la sorella maggiore, è costretta a occuparsi della casa e dei suoi fratelli, confidando a un diario i suoi sogni di ragazza. Finché un giorno i tedeschi prendono possesso di villa Moncalvi e Augusto, attraverso il confronto con un medico dell'esercito invasore e quello sempre più stretto con sua sorella, impara a distinguere il confine tra il bene e il male e a rimettere insieme i tasselli della sua storia famigliare. Quando la guerra volge al termine, Gutin prova a rintracciare suo zio e quella ragazza dai riccioli neri che non vede da mesi, sperando che nel frattempo non si sia dimenticata di lui. Con Il mio nome nel vento Alessandro Rivali dà vita, con la sua scrittura poetica e limpida, a una grande epopea famigliare, un viaggio frutto di una ricostruzione basata su documenti della sua famiglia, a cui si ispira da vicino quella immaginaria dei Moncalvi, e sui fatti di un periodo di Storia cruento e cruciale.
Maria Oliverio, detta Ciccilla, nasce in Calabria, da famiglia poverissima. Combatte al fianco di Pietro, brigante e ribelle, diventando presto la prima e unica donna a guidare una banda contro l'esercito regio. Si conquista così un futuro come donna, come rivoluzionaria, come italiana di una nazione che ancora non esiste ma che forse sta nascendo con lei.
Un grande romanzo corale che unisce scorrevolezza e profondità, commozione e divertimento, empatia e gusto intellettuale.
La strada del mare, l'ultimo, epico, intenso romanzo scritto da Antonio Pennacchi, torna a raccontare la saga della famiglia Peruzzi, gli anni Cinquanta dell'Agro Pontino, del "mondo del Canale Mussolini" e delle donne e degli uomini che lo abitano. La "piccola" storia delle famiglie originarie del Veneto scese nel basso Lazio alla fine degli anni Venti del Novecento per colonizzare le terre bonificate dal regime fascista, e che lì erano diventate una comunità, si intreccia e si mescola con la "grande" Storia italiana e internazionale del dopoguerra. Otello, Manrico, Accio, e tutti i figli e le figlie di Santapace Peruzzi e di "zio Benassi", crescono negli anni del boom economico, mentre Littoria diventa Latina, e si spinge fino al Tirreno, grazie a quella "Strada del mare" per costruire la quale Otello si spezzerà la schiena e che sarà poi percorsa, oltre che dagli abitanti delle paludi pontine, dai grandi nomi della storia italiana e internazionale di quegli anni. E così, tra realtà e finzione, sogno e cronaca, seguendo e raccontando lo scorrere degli avvenimenti, Antonio Pennacchi traccia i percorsi dell'anima dei suoi personaggi, e costruisce un grande romanzo corale che unisce scorrevolezza e profondità, commozione e divertimento, empatia e gusto intellettuale.
Questo libro è il racconto di un cammino, quello che Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi, ha percorso dal giorno dell'omicidio del marito, cinquant'anni fa. Una strada tortuosa che, partendo dall'umano desiderio di vendetta di una ragazza di 25 anni con due bambini piccoli e un terzo in arrivo, l'ha condotta, non senza fatica, al crescere i suoi figli lontani da ogni tentazione di rancore e rabbia e all'abbracciare, nel tempo e con sempre più determinazione, l'idea del perdono. Un racconto che, partendo dalla vita di una giovane coppia che viene sconvolta dalla strage di Piazza Fontana, attraversa mezzo secolo, ricucendo i momenti intimi e privati con le vicende pubbliche della società italiana. Un'intensa e sincera testimonianza sul senso della giustizia e della memoria. Una storia di amore e pace.
"Quando torni io non ci sarò già più." Sono le ultime parole di S. a Matteo, pronunciate al telefono in un giorno d'autunno del 1998. Sembra una comunicazione di servizio, invece è un addio. S. sta finendo di portare via le sue cose dall'appartamento di Matteo dopo la fine della loro storia d'amore. Quel giorno Matteo torna a casa, la casa in cui hanno vissuto insieme per sette anni, e scopre che S. si è tolto la vita. Mentre chiama inutilmente aiuto, capisce che sta vivendo gli istanti più dolorosi della sua intera esistenza. Da quegli istanti sono passati quasi venticinque anni, durante i quali Matteo B. Bianchi non ha mai smesso di plasmare nella sua testa queste pagine di lancinante bellezza. Nei mesi che seguono la morte di S., Matteo scopre che quelli come lui, parenti o compagni di suicidi, vengono definiti sopravvissuti. Ed è così che si sente: protagonista di un evento raro, di un dolore perversamente speciale. Rabbia, rimpianto, senso di colpa, smarrimento: il suo dolore è un labirinto, una ricerca continua di risposte - perché l'ha fatto? -, di un ordine, o anche solo di un'ora di tregua. Per placarsi tenta di tutto: incontra psichiatri, pranoterapeuti, persino una sensitiva. E intanto, come fa da quando è bambino, cerca conforto nei libri e nella musica. Ma non c'è niente che parli di lui, nessuno che possa comprenderlo. Lentamente, inizia a ripercorrere la sua storia con S. - un amore nato quasi per sfida, tra due uomini diversi in tutto -, a fermare sulla pagina ricordi e sentimenti, senza pudore. Ecco perché oggi pubblica questo libro, perché allora avrebbe avuto bisogno di leggere un libro così, sulla vita di chi resta. Ma c'è anche un altro motivo: "In me convivono due anime" scrive, "la persona e lo scrittore". La persona vuole salvarsi, lo scrittore vuole guardare dentro l'abisso. Per vent'anni lo scrittore che c'è in Matteo ha cercato la giusta distanza per raccontare quell'abisso. E quando si è trovato nel punto di equilibrio, da lì, da quella posizione miracolosa, ha scritto queste parole, che, seppur lucidissime, sgorgano con la forza e la naturalezza dell'urgenza. Ciò che stiamo consegnando nelle mani di chi legge è un dono, sì, ma un dono di straordinaria gravità. Eppure, ognuna di queste pagine contiene un germe di futuro, la testimonianza di come, persino nelle pieghe di un dolore indicibile, la scrittura possa ancora salvare.
Tutti lo sanno: Antoine de Saint-Exupéry ha scritto "Il piccolo principe", uno dei romanzi più popolari del mondo. Quello che tutti non sanno è che Antoine, famigliarmente Tonio, è un personaggio che vale da solo una grande storia. Ed è la storia che Romana Petri ha scritto con la febbre e la furia di chi si lascia catturare da un carattere e lo fa suo, anzi lo ruba, tanto che il documento prende più che spesso la forma dell'immaginazione. Orfano di padre, Tonio vive un'infanzia felice nel castello di Saint-Maurice-de-Rémens, amato, celebrato, avviluppato al mostruoso quasi ossessivo amore per la madre; un'infanzia che gli resta incollata all'anima per tutta la vita, fin da quando, straziato, vede morire il fratello più giovane. L'infanzia lo tallona come un destino quando, esaltato, comincia a volare, pilota civile e pilota militare, quando si innamora tanto e tante volte, quando si trasferisce in America, quando scrive, persino quando si schiera e sceglie di combattere per un'idea di Francia che forse è sua e solo sua. Dove sia andato Tonio, non sappiamo, nei cieli in fiamme del 1944. Sappiamo che ci ha lasciato le stelle della notte, il sogno di una meraviglia che non si è mai consumata, il bambino che lui ci invita a riconoscere eterno dentro di noi. Romana Petri costruisce e decostruisce, sgretola le regole della biografia, evoca e racconta amori, amicizie e sgomenti come dettagli di un appetito d'avventura mai sazio, si muove fra le date e dentro la Storia alla sola ricerca del principe che ha sconfitto la notte ed è entrato volando nell'infinito.
Dalla Caduta del Muro alla crisi ucraina: Il mago del Cremlino è il grande romanzo della Russia contemporanea e una sublime, sulfurea meditazione sul potere.
Il mago del Cremlino è un romanzo al tempo stesso gelido e caldo. Il suo autore ci immerge nella psiche genialmente tortuosa di Vadim Baranov, l'alter ego romanzesco di Vladislav Sourkov, quello che è stato lo spin doctor di Vladimir Putin fino al 2021. Nel corso di una notte, Baranov, l'uomo conosciuto come il "mago del Cremlino", racconta come abbia contribuito a costruire l'immagine dello "zar" nel 2001, quando quest'ultimo era solo il pallido e sconosciuto ennesimo primo ministro dell'era di Boris Eltsin. Baranov, proveniente dall'avanguardia artistica e dai reality TV, è un uomo colto ma è anche e soprattutto un ideologo fascisteggiante, capace di far leva sul risentimento di Putin, e di legittimare il suo brutale autoritarismo, correggendone il lessico grossolano. Baranov, insomma, contribuisce a fornire alla dittatura una maschera da democrazia e in breve diventa lo spregiudicato artefice della disinformazione esacerbando e incanalando la rabbia del popolo sui social e altrove. Questo romanzo si legge con paura, come una tragedia romana: le persone che hanno portato Putin al potere vengono eliminate o messe in carcere mentre, con l'aiuto di dollari, manipolazioni, attacchi informatici, e il sostegno a movimenti estremisti di ogni tipo, viene creato il mito di una Russia onnipotente capace di controllare le trame più nascoste. L'obiettivo non è quello di prendere il potere ma di creare il caos. Ma al di là della radiografia implacabile del sistema Putin con i suoi cortigiani servili, i suoi oligarchi, i suoi esuli braccati, le sue escort, i suoi killer implacabili, Il mago del Cremlino ci fa sentire il soffio gelido del potere russo. Un impero capace di intrecciare tutti i fili narrativi del grande romanzo russo: da Ivan il Terribile alle "fabbriche di troll" fino alla creazione di uno spaventoso, illusorio affresco che illustra "la storia gloriosa di un popolo mai sconfitto". Un impero per cui la guerra, come l'attualità ci ricorda tragicamente, costituisce l'unico orizzonte di sopravvivenza possibile. Sorretto da una bruciante attualità, questo libro moderno e visionario ha la grazia senza tempo di un classico. L'erudizione, lo stile e l'arte di raccontare di Giuliano da Empoli conferiscono a questo storia cruda e brutale un livello di purezza quasi metafisica. È Il Principe di Machiavelli attraversato dalle nebbie di John le Carré, narrato con le cadenze della grande letteratura russa.
Daniele ha vent'anni e questa è un'estate che non dimenticherà. Uno stanzone d'ospedale, con sei letti, è il luogo dove si ritrova quando si sveglia. Non ha idea di come ci sia arrivato, finché gli viene comunicato che è stato disposto per lui un TSO: trattamento sanitario obbligatorio, dopo che è stato colto da una crisi di rabbia molto violenta. Dovrà trascorrere sette giorni in osservazione, parlare con gli psichiatri, cercare di spiegare perché il mondo gli fa così male. In realtà Daniele è un ragazzo come tanti, dotato però di una sensibilità estrema, le sue esperienze sono un susseguirsi di picchi e abissi: possibile che nessuno si accorga di quanto siamo fragili ed esposti ai capricci del destino? Di quanto la vita sia una recita che ci allontana da come siamo davvero? Al suo fianco, i compagni di stanza del reparto psichiatria: personaggi inquietanti e teneri, sconclusionati eppure saggi, travolti dalla vita esattamente come lui. Come lui incapaci di non soffrire, e di non amare a dismisura. Dagli occhi senza pace di Madonnina alla foto in bianco e nero della madre di Giorgio, dalla gioia feroce di Gianluca all'uccellino resuscitato di Mario. Sino al nulla assoluto di Alessandro. Accomunati dal ricovero e dal caldo asfissiante, interrogati da medici indifferenti, maneggiati da infermieri spaventati, Daniele e gli altri sentono nascere giorno dopo giorno un senso di fratellanza e un bisogno di sostegno reciproco mai provati. "Sono i cinque pazzi con cui ho condiviso la stanza e questa settimana della mia vita. Con loro non ho avuto possibilità di mentire, di recitare la parte del perfetto, mi hanno accolto per quello che sono, per la mia natura così simile alla loro." In questo straordinario romanzo, vincitore nel 2020 del premio Strega Giovani, Daniele Mencarelli mette in scena la disperata, rabbiosa, ricerca di senso di un ragazzo che implora salvezza.
È il giugno del 1850, e Napoli è bella come non mai sulla spiaggia di Chiaia, con i pescatori stesi al sole insieme alle loro reti e le ragazze che ridono nell'acqua bassa. Elvira ha ventidue anni e potrebbe essere una di loro, e invece deve andare in sposa a Giuseppe Morelli, che conosce appena e sicuramente non ama. Ma la sua famiglia è caduta in disgrazia, e il matrimonio, per la società in cui vive, c'entra ben poco con l'amore e molto col sacrificio. Il primo giorno della nuova vita è però segnato da una scoperta nerissima, che sconvolge la bella villa fin nelle stanze della servitù - lo specchio e la lente di ingrandimento delle vite dei signori. Elvira si convince che una maledizione sia scesa sulla casa, e anno dopo anno ne vede ovunque la conferma: nelle scelte indigeste a cui il suo ruolo la consegna, nella solitudine grigia che pian piano la avviluppa, nel vicolo cieco dell'unica possibilità di un futuro diverso, suo e soltanto suo. E come una staffetta, la maledizione pare trasmettersi alla figlia Angela, bellissima ma altrettanto fragile, e a Giuseppina, adottata proprio nel tentativo di ripianare i debiti con il destino. Tre donne costrette a vivere per gli altri, a immolare i propri sogni, la propria libertà, la propria felicità "per il bene della famiglia", alla cui ombra si nascondono le più scure prepotenze. E mentre i Morelli cercano di farsi un nome nel mercato dei tessuti e della moda, il mondo intorno si trasforma, con Garibaldi e quella strana unità del Paese che pochi capiscono, il fiorire di nuovi quartieri e una nuova moneta, le grandi epidemie che non fanno differenza tra ricchi e poveri, e le ancora più terribili malattie che si accaniscono sulla villa dei Morelli. Fino a quando, proprio dove meno ce lo si aspetta, brillerà la scintilla dell'emancipazione, la forza di strappare il diritto a vivere non la vita che ci è stata data in sorte, ma quella che la nostra anima si merita.
S'innamorano di una sagoma di cartone o di un pretoriano in miniatura, odiano i bambini pur portandoseli in grembo, lasciano una donna ma ne restano imprigionati, vomitano amore e rabbia, si tagliano, tradiscono, si ammalano. Sono alcuni dei personaggi del nuovo libro di Michela Murgia, un romanzo fatto di storie che si incastrano e in cui i protagonisti stanno attraversando un cambiamento radicale che costringe ciascuno di loro a forme inedite di sopravvivenza emotiva. "Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita." A volte a stravolgerla è un lutto, una ferita, un licenziamento, una malattia, la perdita di una certezza o di un amore, ma è sempre un mutamento d'orizzonte delle tue speranze che non lascia scampo. Attraversare quella linea di crisi mostra che spesso la migliore risposta a un disastro che non controlli è un disastro che controlli, perché sei stato tu a generarlo. In stato di grazia, Murgia scrive per tutti noi un libro estremamente originale che rimanda a una costellazione di altri grandi libri: Il crollo di Fitzgerald, Lo zen e il tiro con l'arco di Herrigel e L'anno del pensiero magico di Didion.
Leo è un sedicenne come tanti: ama le chiacchiere con gli amici, il calcetto, le scorribande in motorino e vive in perfetta simbiosi con il suo iPod. Le ore passate a scuola sono uno strazio, i professori "una specie protetta che speri si estingua definitivamente". Così, quando arriva un nuovo supplente di storia e filosofia, lui si prepara ad accoglierlo con cinismo e palline inzuppate di saliva. Ma questo giovane insegnante è diverso: una luce gli brilla negli occhi quando spiega, quando sprona gli studenti a vivere intensamente, a cercare il proprio sogno.
Leo sente in sé la forza di un leone, ma c'è un nemico che lo atterrisce: il bianco. Il bianco è l'assenza, tutto ciò che nella sua vita riguarda la privazione e la perdita è bianco. Il rosso invece è il colore dell'amore, della passione, del sangue; rosso è il colore dei capelli di Beatrice. Perché un sogno Leo ce l'ha e si chiama Beatrice, anche se lei ancora non lo sa. Leo ha anche una realtà, più vicina, e, come tutte le presenze vicine, più difficile da vedere: Silvia è la sua realtà affidabile e serena. Quando scopre che Beatrice è ammalata e che la malattia ha a che fare con quel bianco che tanto lo spaventa, Leo dovrà scavare a fondo dentro di sé, sanguinare e rinascere, per capire che i sogni non possono morire e trovare il coraggio di credere in qualcosa di più grande.
Bianca come il latte, rossa come il sangue non è solo un romanzo di formazione, non è solo il racconto di un anno di scuola, è un testo coraggioso che, attraverso il monologo di Leo - ora scanzonato e brillante, ora più intimo e tormentato -, racconta cosa succede nel momento in cui nella vita di un adolescente fanno irruzione la sofferenza e lo sgomento, e il mondo degli adulti sembra non aver nulla da dire.
Contando su un recupero moderno e vitale della grande tradizione classica, il D'Avenia romanziere esordiente si allea con il giovane professore di liceo, questa la professione dell'autore, per offrire con energia al lettore più e meno giovane qualche risposta che, come ogni risposta vera, non aspira a essere definitiva, ma neppure esitante e rassegnata.
Dario Vergassola racconta una stona divertente e malinconica ambientata nella provincia italiana a lui tanto cara. Le vicende hanno luogo nella periferia di La Spezia al bar Pavone, i cui frequentatori "nulla hanno da invidiare al bar di Guerre Stellari" e creano un microcosmo dove si riflettono tutti i pregi e i difetti dell'umanità. Popola il racconto una giostra di personaggi strani, buffi, a volte ridicoli ma anche molto realistici, pieni di paure, piccole e grandi manie, problemi quotidiani ed esistenziali. Come Lucio e Albe, due cassaintegrati che giocano la stessa partita a biliardo da anni senza mai arrivare a una fine, barando di continuo sul punteggio per far durare la partita in eterno; Giulianone che racconta di essere stato rapito dagli Ufo; Gigi il barista, detto anche Gigipidia perché sa non quasi tutto ma proprio tutto; l'ipocondriaco Ansia, detto anche Malattie Imbarazzanti; i tre fratelli Chiappa, orchi buoni che sfruttano i loro muscoli facendo i traslocatori sulle colline dietro le Cinque Terre. E infine Gino, impiegato statale con moglie e figli, protagonista di un avventuroso viaggio che lo porta da La Spezia fino in America, mentre gli amici dal bar seguono e commentano in diretta le sue rocambolesche avventure.