
"Il mio nome è Fabro e di mio padre so solamente che era maniscalco e che non aveva un filo di fantasia." Così si apre l'epopea di Fabro, uomo semplice e forte, capace di rialzarsi e ricominciare nonostante i colpi che la vita non risparmia. Fabro nasce in una stalla ai piedi delle montagne un mattino di novembre del 1925 scaldato dal fieno e dal respiro di quattro mucche, perché "ci sono cose che, se sei povero, non cambiano mai". La sua infanzia trascorre serena tra i boschi e i picchi delle Dolomiti e alla scuola elementare incontra Rina, una bambina timida con un sorriso che solo lui sa accendere, un sorriso capace di scaldare gli inverni più freddi. La vita va avanti, dà e toglie, generosa e spietata, finché Fabro scopre la musica. Se ne stava nascosta in un vecchio armonium, nella chiesa di Tai di Cadore. La melodia che esce vibrando dallo strumento è il respiro del bosco, il vento che accarezza rami, e lo pervade d'incanto. Poi arriva la guerra e Fabro deve lasciare casa per andare in bottega a Cibiana, il mitfico paese delle chiavi. Qui viene iniziato a segreti di un mestiere antico e affascinante. La musica però non smette di aspettarlo. C'è un organo nella chiesa del paese che il parroco suona durante la messa. Una sera Fabro si siede sullo sgabello, guarda fuori dalla finestra e inizia a suonare, sono le sue montagne a suggerirgli la melodia, lui solamente le ascolta e le copia...
Anche Luciano De Crescenzo, come tutti i comuni mortali, un giorno decide di imbiancare casa, con quel che ne consegue: sgombrare, riordinare, eliminare, inscatolare, in breve mettere ordine nel caos accumulato negli anni. "A darmi una mano" racconta "è stata mia figlia Paola. A un certo punto, tra le tante scatole ne ho ritrovata una che avevo messo da parte un po' di tempo fa, e in cui avevo conservato vecchie fotografie. 'Paola, vieni a vedere come sono belle queste foto! Ma chi l'ha fatte?' E lei: 'Chi può averle fatte se non tu!' 'Ora che mi ci fai pensare, forse fanno parte di quella serie di foto su Napoli che ho scattato negli anni Sessanta... Lo vedi com'era bella la nostra città? Paole', sient' a me , ogni luogo del mondo avrebbe bisogno di un po' di Napoli, perché Napoli non è una semplice città, ma uno stato d'animo!' La scrittura non è stata la mia prima passione... Prima di ricorrere alle parole, la Napoli dei quartieri, quella dei panni stesi al sole, dei numeri al Lotto, dei misteri, l'ho raccontata con la macchina fotografica. Il primo problema che mi ritrovai ad affrontare era come fotografare le persone senza bisticciare. Di solito fingevo di essere uno straniero, e per la precisione un tedesco. I napoletani sono da sempre gentili con i turisti, infatti mi lasciavano fare, senza opporre resistenza. Anzi, a volte si mettevano anche in posa. Alcuni scatti però, preferivo rubarli. Per farlo ricorrevo a due cascetelle di mia invenzione. Ora, per chi non è pratico della lingua napoletana, la cascetella altro non è che una piccola scatola. Le mie erano nere e di diverse dimensioni: una un po' più grande, simile a una valigetta quarantott'ore, e una un po' più piccola, quasi delle dimensioni di un borsello. Entrambe erano munite di una tracolla e di un foro per l'obiettivo. Mimetizzavo al loro interno la macchina fotografica, e grazie a un piccolo cavo che nascondevo nella manica della giacca potevo attivare lo scatto. Così passeggiavo per le strade della città e al momento giusto, quando una scenetta attirava la mia attenzione, spostavo la mano che copriva il foro dell'obiettivo e... click ! L'immagine era rubata. Un po' per nostalgia, un po' per il piacere di far conoscere anche ai più giovani la mia Napoli, ho deciso di raccogliere in questo libro una selezione delle foto ritrovate e inedite, e di accompagnarle con alcuni dei racconti che hanno contribuito alla mia carriera di scrittore. Volutamente ho deciso di non indicare i luoghi dove sono state scattate le foto, in parte perché a una certa età si fa fatica a ricordare, in parte perché mi auguro che, nel tentativo di riconoscere i luoghi, si presti più attenzione ai dettagli, scovando quei particolari che mi hanno fatto innamorare di una Napoli che secondo alcuni non c'è più. Che poi, come dico sempre, io di questa cosa non sono del tutto convinto".
Pubblicato nel 1961 e premio Strega nello stesso anno, il romanzo ruota intorno alla figura del giovane napoletano Massimo De Luca, per molti aspetti trasparente alter ego dell'autore, ed ha come palcoscenico Napoli, la città "che ti ferisce a morte o t'addormenta", che si identifica con l'amore perduto d'una donna e coi miti d'una giovinezza troppo presto conclusa.
Iniziato durante i primi anni settanta, durante le crisi petrolifera mondiale, e portato avanti fino alla morte, nel novembre 1975, «Petrolio» è un gigantesco frammento di quello che avrebbe dovuto essere un romanzo-monstruum di circa duemila pagine. Una enciclopedia del racconto, che comprende tutti i registri, bassi e alti, della scrittura. Appunti, annotazioni, una lettera a Alberto Moravia, schizzi e specchietti che compongono un libro «nero», pubblicato, con fedeltà all'autografo, solo nel 1992. Risulta da questi frammenti una disperata archeologia umana, un'esplorazione dei misetri della sessualità e insieme uno spaccato dell'Italia del boom tra oscuri complotti di potere e stragi di stato rimaste impunite. Con nota filologica di Aurelio Roncaglia.
La terza «sublimis cantica» - come il suo autore, con profonda consapevolezza e bellezza, la definì - contiene in sé qualcosa di unico, che la rende diversa da ogni altra composizione della letteratura. Essa appare nuova anche rispetto alle prime due parti del poema, già così rivoluzionarie nell'invenzione e nel linguaggio. Perché la poesia del Paradiso non racconta vicende di uomini, non descrive paesaggi. Essa si sostanzia di cose che non si vedono e che, soltanto, per fede, si sperano. E tuttavia anche e soprattutto qui il genio di Dante riesce a esprimersi con versi di grande potenza, che si imprimono per sempre nella mente del lettore con immagini di straordinaria forza suggestiva.
Il secondo regno dantesco, «dove l'umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno», è, dei tre, quello che porta nella sua struttura, sia fisica sia morale, la maggiore novità d'invenzione: si potrebbe addirittura dire che è un mondo, nel suo aspetto e nel suo spirito, soltanto dantesco. Circola per tutto il «Purgatorio» un'atmosfera difficilmente definibile, come di raccolto incanto, che avvolge il lettore fin dall'inizio e l'accompagna alle soglie del Paradiso: cogliere lo spirito di quella delicatissima aura che tutto avvolge è la via per intendere il «Purgatorio» dantesco nella profonda bellezza che lo distingue.
Iniziato con ogni probabilità nel 1306-07, l'Inferno è la prima delle tre cantiche che compongono la Commedia dantesca. In questi trentaquattro canti il poeta racconta l'inizio del suo viaggio ultraterreno, a partire dallo smarrimento nella "selva oscura", dove incontra il poeta latino Virgilio che sarà sua guida, giù giù per i diversi gironi, fino all'orrenda visione di Lucifero e quindi alla faticosa risalita "a riveder le stelle". Un itinerario nell'animo umano lungo il quale Dante incontra decine di indimenticabili personaggi, alle cui tristi vicende egli sa guardare con fermo giudizio ma anche con una suprema pietas che è forse il maggior segno del suo profondo atteggiamento di estrema modernità.
"Ho immaginato una donna che capisce di non doversi più vergognare del suo lato buio, l'ansia".
Un pomeriggio di tre anni fa, mentre stavo sul divano a leggere, un'idea mi ha trapassata come un raggio dall'astronave dei marziani. Vorrei raccontare così l'ispirazione di questo romanzo, ma penso fosse un'idea che avevo da tutta la vita. "Sappiamo già tutto di noi, fin da bambini, anche se facciamo finta di niente" dice Lea, la protagonista della storia.
Ho immaginato una donna che capisce di non doversi più vergognare del suo lato buio, l'ansia. Lea odia l'ansia perché sua madre ne era devastata, ma crescendo si rende conto di non poter sfuggire allo stesso destino: è preda di pensieri ossessivi su tutto quello che non va nella sua vita, che, a dire il vero, funzionerebbe abbastanza. Ha tre figli, un lavoro stimolante e Shlomo, il marito israeliano di cui è innamorata. Ma la loro relazione è conflittuale, infelice.
"Shlomo sostiene che innamorarci sia stata una disgrazia. Credo di soffrire più di lui per quest'amore disgraziato, ma Shlomo non parla delle sue sofferenze. Shlomo non parla di sentimenti, sesso, salute. La sua freddezza mi fa male in un punto preciso del corpo." Perché certe persone si innamorano proprio di chi le fa soffrire? E fino a che punto il corpo può sopportare l'infelicità in amore?
Nella vita di Lea improvvisamente irrompono una malattia e nuovi incontri, che lei accoglie con curiosità, quasi con allegria: nessuno è più di buon umore di un ansioso, di un depresso o di uno scrittore, quando gli succede qualcosa di grosso.
Daria Bignardi
Ivano è un uomo come tanti. Per tutta la vita ha cercato di costruire la sua felicità e ha sempre creduto di esserci riuscito. Il lavoro di ingegnere, una bella famiglia: un piccolo capolavoro di stabilità, proprio come le dighe che ha progettato in ogni parte del mondo. Finché Sofia, sua moglie, viene a mancare e lui si trova improvvisamente libero e solo, incapace di capire se esista ancora un Ivano senza Sofia. Decide allora di partire per Santo Domingo, dove il fratello si è ritirato dopo anni di lavoro nella finanza. Lì incontra Liliana, una donna spontanea e fragile come una bambina, e se ne sente attratto. Sull'isola, però, Ivano intuisce che qualcosa non va: il fratello, con il quale ha sempre avuto un rapporto di grande complicità, si comporta in modo strano, sembra un altro. Riconsiderandoli a distanza, molti fatti e persone della sua vita gli appaiono diversi da quello che ha sempre creduto. Prima tra tutti sua moglie, un enigma affascinante e indisponente, nonostante quarant'anni di vita insieme. E poi la figlia Anna, rimasta a Milano: reticente, ostile, asserragliata in una vita che il padre non ha mai compreso. Quello che Ivano scoprirà riguardo al passato finirà per rompere gli argini in cui la sua esistenza è sempre scorsa tranquilla. Eppure, quando tutto è sul punto di crollare, si prospetta una seconda occasione, la possibilità di un nuovo inizio. Con una lingua duttile, devota all'incanto semplice e maestoso della realtà, una scrittura mobile in cui ci si immerge come nell'acqua - limpida, avvolgente, misteriosa -, Gaia Manzini racconta le illusioni intorno alle quali creiamo la nostra felicità e dà voce a una generazione che negli anni del Boom si è costruita un'idea luminosa di futuro a costo di rifiutare le proprie radici, lasciando dei conti in sospeso. Ma Ultima la luce è anche la storia di un tempo di mezzo, dell'attesa di un nuovo ordine delle cose: una famiglia si è disgregata, una nuova famiglia sta per nascere. Il passato è alle spalle, davanti c'è solo la luce.
Nel fitto di un bosco di uno dei monti dell'Italia settentrionale un uomo ritrova una baita appartenuta ai suoi antenati. Decide di ristrutturarla, per andarci a vivere e sfuggire così alla crudeltà del mondo che lo circonda. Ma, mentre lavora, un colpo di piccone bene assestato cambia per sempre la sua vita. Dietro la calce, in un'intercapedine del muro, trova i corpi mummificati di tre donne. E si accorge che sulla loro carne sono stati incisi dei segni, quasi lettere dell'alfabeto di una lingua misteriosa e sconosciuta. Qual è la storia delle tre donne? Chi le ha nascoste lì? Qual è il terribile messaggio che quelle lettere vogliono comunicare? Ed è possibile che la cerva dagli occhi buoni che sbuca ogni sera dal bosco voglia davvero proteggere l'uomo e rivelargli qualcosa? Mentre le tre mummie cominciano a infestare i suoi pensieri e i suoi sogni, trasformandoli in incubi e allucinazioni, l'uomo si mette alla ricerca della verità, una ricerca che può portarlo alla perdizione definitiva o alla salvezza. O forse a entrambe. Mauro Corona, dopo anni in cui si era dedicato a forme più brevi, torna al romanzo vero e proprio. E lo fa con un libro che racconta la maestosità della natura e la cattiveria degli uomini, denso di immagini - per esempio quella del pivason, l'uccello-vampiro, e del suo spaventoso verso, presagio di morte - e di momenti di lirismo, come la scena in cui il protagonista scende in una foiba e dentro una pozza d'acqua scopre un piccolo essere di cui si sente improvvisamente e inaspettatamente fratello. Con "Nel muro", Corona torna a raccontare i boschi, gli animali e gli uomini della sua terra.
"I libri sono strumenti di piacere, come la droga, l'alcol, il sesso, non il fine ultimo della vita." Questo l'assunto da cui muove "Il manifesto del libero lettore". Un grido di gioia, un'invocazione al capriccio, alla voluttà, ma anche all'indolenza e all'insubordinazione: perché leggere è un vizio, mica una virtù; diritto, intima necessità, non certo un obbligo istituzionale. Ecco chi è il libero lettore: un individuo un po' strambo, allo stesso tempo credulone e diffidente, squisito e volgare, sentimentale e cinico, devoto e apostata; un rompiscatole che diffida della gente ma ha un debole per i personaggi, che alle fauste bellezze della natura preferisce le gioie segrete della fantasia, convinto com'è che non c'è verità senza eleganza, né arte senza rigore. È così che Alessandro Piperno ripercorre la storia di un precoce amore mai venuto meno, quello per i romanzi, lungo le rotte tracciate da otto giganti della narrativa universale: Austen, Dickens, Stendhal, Flaubert, Tolstoj, Proust, Svevo, Nabokov. Affrontandoli "con amore, certo, ma senza alcun ossequio, con il piglio del guastafeste ansioso di svelare i segreti del prestigiatore". Del resto, il genio letterario è un mago spregiudicato e immaginifico. Jane Austen ha creato dal nulla un genere tutto suo, tra fiaba e romanzo, che non smette di incantarci; l'arte di Tolstoj di introdurre i personaggi non ha precedenti né epigoni all'altezza; l'ossessione di Proust per i tempi verbali illustra come nient'altro la dedizione a un passato irrecuperabile. "Il manifesto del libero lettore" è un'opera che esprime l'entusiasmo di chi, non dimenticando le ragioni per cui, appena adolescente, contrasse il vizio di leggere, ritiene che i grandi romanzi, per essere assaporati, pretendano il piglio, l'ironia e il disincanto della maturità.
Due personaggi femminili legati da una singolare relazione che somiglia a una seduta psicoanalitica bruciante e senza filtri, che dà slancio alla costruzione dell'identità e diventa una spietata cartina di tornasole per la coscienza. A dire "Io" è una voce narrante del tutto inedita, la Sclerosi Multipla, capace di terrorizzare soltanto col suono del proprio nome, un "gorgoglio di consonanti scivolose". Egocentrica come una primadonna, dotata di un'ironia corrosiva, politicamente scorretta, determinata, ingombrante, irriverente, sguaiata, irascibile, maltratta tutto e tutti, a cominciare dai lettori, "uditorio miserrimo" al quale si confida. La sua vittima prediletta, però, è la "lei" del titolo, quella Miagentileospite, amatissima e disprezzata in ugual misura dall'inquietante narratrice: "Sono dentro di lei. Capite? Sono dentro di lei più di qualsiasi altro. E lei non dovrebbe dimenticarlo mai". Tutto in loro è simbiotico e opposto: gusti, passioni, inclinazioni, tendenze, idiosincrasie, consapevolezze, visioni del mondo e dell'amore, in particolare quello per Occhiazzurrogrigionebbia, altro personaggio del romanzo. Le due linee narrative, la malefica progressione della malattia e la storia d'amore, corrono parallele fino a incontrarsi nel sorprendente coup de théâtre finale. Cos'è, dunque, questo libro unico e potentissimo? Un memoir graffiante ed emozionante? Una feroce invettiva? Un implacabile flusso di emozioni? O piuttosto uno sconvolgente romanzo d'amore? Sarà il lettore stesso a deciderlo scoprendo, a ogni modo, che questa eccentrica autobiografia profuma assai più di vita che di malattia, nonostante tutto. Fiamma Satta sceglie un punto di vista spiazzante e anticonformista che le consente di raccontare vicende emotive con autenticità ed energia rare. L'adesione vitale agli accadimenti e la capacità di afferrarli e far loro dire la verità in questo libro procedono insieme, in pagine che turbano, divertono, commuovono e fanno riflettere sulla vita e sul suo significato.