
Nadia è in carcere e sta scontando la pena per una rapina, un crimine che ha commesso forse per disperazione, per solitudine, o forse per riappropriarsi di una parte di sé. Più forte del carcere in senso stretto è l'oscura gabbia interiore in cui è vissuta come figlia, come moglie, come allieva di una madre maestra di odio per l'altro sesso. Sdoppiata, cerca ora una nuova, faticosa strada per trovare se stessa e conoscere gli uomini, che in realtà ha sempre evitato. Lo fa anche con l'aiuto dello psicologo al quale è stata affidata. Un rapporto duro, il loro, che ha bisogno di tempo e di pazienza perché lui le si rivela come "il primo uomo che vuole conoscerla".
Maurizio Maggiani ha una predilezione per l'oralità, gli piace sentire e far sentire come il racconto nasca dalla voce, dall'ascolto, dal rapporto che si crea tra la logica dei fatti e l'eco profonda della parola che li restituisce. E questo un segno decisivo dei suoi romanzi e degli incontri con il pubblico dei lettori. Ebbene, qui Maggiani fa un passo avanti e imbocca con rabbia e ardore la via dell'invettiva, un'oralità che sale di volume e di passione oratoria, perché, senza meno, deve ottenere un risultato: andare a segno. L'attenzione si sposta dalla leggenda delle cose accadute allo scacco delle promesse non mantenute. Le promesse fatte dalla sua generazione. Non poteva ben considerarsi beata la gioventù di un dopoguerra che si apriva provvido di speranze, di ideali, di futuro, e di un'alimentazione equilibrata? E allora? Che cosa succede ai figli del privilegio? Che cosa dissipano mentre disegnano un mondo nuovo? Oltre il confine della battaglia combattuta si apre il cedere del sogno, la traduzione dei ribelli in mediocri esecutori, manager, reggicoda di molti poteri. Maggiani amministra colpi con generosità, li chiama maledizioni. E tali sono, maledizioni. Perché i destinatari dell'invettiva e quelli che, pur fuori dal tiro generazionale, si riconoscono, sappiano almeno fare i conti con la vergogna del fallimento.
Corso Bramard è stato il commissario più giovane d'Italia. Meditabondo, insondabile, introverso, capace di intuizioni prossime alla chiaroveggenza. Fino a quando un serial killer di cui seguiva le tracce ha rapito e ucciso la moglie Michelle e la piccola Martina. Da allora sono passati vent'anni. Corso vive in una vecchia casa dimessa tra le colline, insegna in una scuola superiore di provincia e passa gran parte del tempo arrampicando da solo in montagna, spesso di notte e senza sicurezze, nell'evidente speranza di ammazzarsi. Perché, come suole ripetere, "non c'è nessuna vita adesso". Eppure qualcosa è rimasto vivo in lui: l'ossessione, coltivata con quieta fermezza, di trovare il suo nemico. Il killer che ha piegato la sua esistenza e che continua a inviargli i versi di una canzone di Léonard Cohen. Diciassette lettere in vent'anni, scritte a macchina con una Olivetti del '72. Un invito? Una sfida? Ora, quell'avversario che non ha mai commesso errori sembra essere incappato in una distrazione. Un indizio fondamentale. Quanto basta a Corso Bramard per riprendere la caccia, illuminando una scena popolata da personaggi ambigui e potenti, un dedalo di silenzi che conducono là dove Corso ha sempre cercato il suo appuntamento, e il suo destino.
Alberto Kauffman scrive "Virginia ti amo" sul muro della scuola. Virginia non lo ama, ma lui diventa popolarissimo perché, per scrivere su quel muro, cade, finisce al pronto soccorso e viene punito dal preside. La punizione è aiutare Emilio, un compagno malato di tumore al cervello, con uno scarso profitto scolastico. Emilio, ribattezzato Bronson, è in realtà una vera risorsa, una miracolosa fontana di vitalità, un compagno di strada irrinunciabile. La forzata alleanza diventa amicizia. Insieme si imbucano al vernissage di una mostra d'arte, insieme passano una mitica giornata a Stoccolma, insieme fanno progetti per tutta la vita che resta. E infatti dopo il liceo, e dopo che Virginia ha finalmente ceduto alla corte di Alberto, il legame si fa sempre più profondo. Alberto non ha mai smesso di trascrivere sul suo fedele taccuino tutte le avventure vissute. Forse un giorno quegli appunti diventeranno l'opera indimenticabile di una vita indimenticabile. Bronson intanto lo aiuta a trovare lavoro in una piccola e sgangherata casa editrice, ne raccoglie le confidenze, i sogni, le ambizioni, e veglia, protettivo, anche sulla sua storia con Virginia. Sembrano gli anni di una giovinezza che non finisce. Eppure, di punto in bianco, Bronson parte per la Nuova Zelanda. Sparisce e qualcosa fatalmente si spezza: cosa sarà di Virginia e Alberto? Del bambino che aspettano? Del lavoro entrato nella fase più critica? E cosa sarà dell'amico a cui la vita è legata con un filo sempre più sottile?
A quasi settant'anni dalla morte, Anna Alrutz, che in vita è stata una braune Schwester, una delle infermiere specializzate volute da Hitler, non è che un fantasma, una voce senza corpo che vive e rivive brandelli della sua breve esistenza. Primogenita di una ricca famiglia borghese, il padre medico, la madre elegante e colta ma di salute cagionevole, Anna ha trascorso un'infanzia serena. Per via della malattia polmonare cronica della madre e della sorella, tutte le estati della famiglia Alrutz si sono svolte nella stessa amena località termale, Bad Salzgitter. Lì Anna ha conosciuto Helene, l'amica di tutta la vita, e il pastore Rudinski, il suo primo amore impossibile. Ma Bad Salzgitter è anche il luogo dove si è formato il suo carattere, insolitamente forte, ossessionato dall'ordine e dalla disciplina. Nel 1927, dopo la morte della sorella, contravvenendo al volere della famiglia, Anna lascia Medicina per iscriversi alla nuova scuola per infermiere e diventa una braune Schwester. Richiamata a Gottinga dal suo ex professore, il ginecologo Hartmann, diventa la sua assistente personale e svolge con lui un compito molto particolare, voluto per decreto da Hitler: sterilizzare il più alto numero di donne, per "purificare" la futura razza ariana. Anna crede nell'ordine e nel benessere sociale che ne consegue ma quando nella clinica viene ricoverata l'amica Helene, apre gli occhi e quel che vede è, improvvisamente, l'orrore.
Un giro del disco durava più di un secondo: dal boccaporto del grammofono usciva la melodia, il canto. Restavo a guardare la puntina capace di leggere il solco e pure la polvere. C'entrava l'elettricità e la finestra chiusa per tenere fuori l'ammuina. E dentro la stanza avveniva lo spazio e il silenzio per farla suonare. Le canzoni come gli odori, e più della vista, affilano i ricordi. Dai solchi dei dischi comincia l'ascolto assorbente che non permette altra mossa. Niente riuscivo e riesco a fare in sua presenza. Non l'ho potuta usare a sottofondo, la musica provata.
Una casa di famiglia, sull'Appennino bolognese. Una vecchia casa. Gli animali sono una presenza nota. Non si tratta sempre di animali domestici, o quantomeno la loro domesticità è lontana dalla nozione tradizionale. Se nell'annus mirabilis 1992 quella di topi, arvicole e ratti era stata una vera e propria invasione, il dibattito si riapre quando arrivano i piccioni con il vaiolo: la sorella del narratore, dolce animalista, si fa in quattro per curarli, e nondimeno cura, almeno idealmente, i topi, anzi i ratti che turbano la quiete della magione. Uno in particolare, piuttosto abitudinario, compare sempre sullo stesso ripiano della libreria, dal che sorge spontaneo il sospetto che il topo sia un osservatore consapevole delle cose umane. Ugo Cornia parte da qui per una scorribanda dentro tutte le convivenze che hanno a che fare con figure animali. Alle derattizzazioni e alle stragi di volatili innocenti fan seguito storie di gatti (il cacciatore di prede Cito, l'avventuroso Cionci, la depressa Pinzia), e di cani (il setter cieco Billo e Tobi, il cane pazzo della sorella). Attraverso gli animali Cornia ricostruisce la storia di famiglia, dove con le bestie si parla, si confligge, si fanno patti, si stabiliscono confini, dove attraverso le bestie si dispiegano il labirinto emotivo degli affetti, le stagioni di un'esistenza, lo spazio delle assenze e la sequenza delle morti.
Un giallo-verità che l'autore racconta vent'anni dopo esserne venuto a conoscenza: questo è "Il caso Piegari", coda imprevista di un vecchio libro che a suo tempo sollevò scandalo e indignazione, "Mistero napoletano". Un omissis finalmente svelato? Proprio così, lungo soltanto sei brevi capitoli ma non meno drammatici e incalzanti di quelli relativi alla storia del suicidio di Francesca Spada. Raccontano la follia che colse il geniale fondatore del Gruppo Gramsci dopo la sua espulsione dal Partito comunista (1954) per volontà di Giorgio Amendola, accusato da Guido Piegari di essere l'ispiratore di un meridionalismo "perverso". Una storia che sembra appartenere soltanto al passato e che in effetti si svolge in gran parte in un'Italia che non esiste più. Ma il presente, lo sappiamo, ha un cuore antico. Soprattutto in una città come Napoli dove il Gruppo Gramsci continua a sopravvivere, sia pure in forma traslata, attraverso l'Istituto italiano per gli studi filosofici fondato da Gerardo Marotta che fu, all'alba degli anni cinquanta, il braccio destro di Guido Piegari e 'magna pars' del Gruppo stesso.
Sulla caviglia dello stivale Italia, là dove sta l'osso pezzillo, nasce il nostro eroe, Isidoro Sifflotin. Nella casetta di Mattinella, che sta su da trecento anni e "non crollerà mai", il prodigioso guagliunciello Isidoro affina una dote miracolosa, ricevuta non si sa come da Quirino, il padre strabico, poetico e comunista, e da Stella, la mamma pastaia. Qual è questa dote? La più semplice: Isidoro sa fischiare, e fischia in modo prodigioso. Con il suo inseparabile merlo indiano Alì dagli sbaffi gialli, e l'aiuto di una combriccola stralunata, crea una lingua nuova, con tanto di Fischiabolario, e un messaggio rivoluzionario comincia magicamente a diffondersi. Proprio quando il progetto di un'umanità felice e libera dal bisogno sta per prendere forma, succede qualcosa che mette sottosopra l'esistenza di Isidoro. "Tutto quello che cresce si separa": con addosso questo insegnamento di mamma Stella, Isidoro, ormai ragazzo, scopre Napoli e si imbatte, senza neanche rendersene davvero conto, in un altro linguaggio prodigioso e muto: quello dell'amore.
Salvatore è nato quando in pochi conoscevano il nome della sua isola: un luogo di frontiera posto alla fine del mondo, con il mare blu e la terra arsa dal sole. È cresciuto sulle barche, vicino alle cassette di alici, con lo sguardo nell'azzurro, sopra e intorno a lui. Forse è lì che tutto è cominciato, tra ghirigori nell'acqua e soffi nel vento. Di sicuro è lì che ha conosciuto Giulia, anche se lei vive a Milano con i genitori emigrati per inseguire lavoro e successo. Da sempre Giulia e Salvatore aspettano l'estate per rivedersi: mani che si intrecciano e non vogliono lasciarsi, sussurri e promesse. Poi, d'inverno, tante lettere in una busta rosa per non sentirsi soli. Finché, una mattina, nell'estate in cui tutto cambierà, Giulia e Salvatore scoprono il corpo di un ragazzino che rotola sul bagnasciuga come una marionetta e tanti altri cadaveri nell'acqua, affogati per scappare dalla fame, dalla violenza, dalla guerra. Gli sbarchi dei migranti cominciano e non smettono più. L'isola muta volto, i turisti se ne vanno, gli abitanti aiutano come possono. Quando Giulia torna a Milano, il filo che la lega a Salvatore si allenta. La vita non è più solo attesa dell'estate e amore sincero, corse in spiaggia e lanterne di carta lanciate nel vento. La vita è anche uno schiaffo, un risveglio, la presa di coscienza che al mondo esistono dolore e differenze. Una scoperta che travolge i due ragazzi e che darà valore a tutte le loro scelte, alla loro distanza e alla loro vicinanza.
"Da dove venite? A chi appartenete? Cosa andate cercando?" Così si chiede al viandante-narratore nelle terre dei padri. Il viandante procede con il passo dell'iniziato, lo sguardo affilato, la memoria popolata di storie. E le storie gli vengono incontro nelle vesti di figure, ciascuna portatrice di destino, che hanno il compito di ispirati accompagnatori. Luoghi e personaggi suonano, con i loro "stortinomi", immobili e mitici, immersi in un paesaggio umano e geografico che mescola il noto e l'ignoto. Scatozza "domatore di camion", Mandarino "pascitore di uomini", la Totara, Cazzariegghio, Pacchi Pacchi, Testadiuccello, Camoia, la Marescialla: ciascuno ragguaglia il viandante, ciascuno lo mette in guardia, ciascuno sembra custode di una verità che tanto più ci riguarda, quanto più è fuori dalla Storia. Il viandante deve misurarsi, insieme al lettore, con un patrimonio di saggezza che sembra aver abbandonato tutti quanti si muovono per sentieri e strade, sotto la luna, nella luce del meriggio, accompagnati dall'abbaiare dei cani. E poi ci sono la musica e i musicanti. La musica da sposalizio, da canto a sonetto, la musica per uccidere il porco, la musica da ballo per cadere "sponzati come baccalà", la musica da serenata, il lamento funebre, la musica rurale, da resa dei conti.
Siamo all'inizio del secolo scorso. La promessa sposa è giovane, arriva da lontano, e la famiglia la accoglie, quasi distrattamente, nella elegante residenza fuori città. Il figlio non c'è, è lontano, a curare gli affari della prospera azienda tessile. Manda doni ingombranti. E la sposa lo attende dentro le intatte e rituali abitudini della casa, soprattutto le ricche colazioni senza fine. C'è in queste ore diurne un'eccitazione, una gioia, un brio direttamente proporzionale all'ansia, allo spasimo delle ore notturne, che, così vuole la leggenda, sono quelle in cui, nel corso di più generazioni, uomini e donne della famiglia hanno continuato a morire. Il maggiordomo Modesto si aggira, esatto, a garantire i ritmi della comunità. Lo zio agisce e delibera dietro il velo di un sonno che non lo abbandona neppure durante le partite di tennis. Il padre, mite e fermo, scende in città tutti i giovedì. La figlia combatte contro l'incubo della notte. La madre vive nell'aura della sua bellezza mitologica. Tutto sembra convergere intorno all'attesa del figlio. E in quell'attesa tutti i personaggi cercano di salvarsi.