
Il villaggio dei solenni Meo, nel Laos, pervaso dall'odore potente e «di immensa stravaganza » dell'oppio, dove tutto sembra sospeso; il lampo d'oro, destinato a durare per l'eternità, che gli occhi e i capelli di Ignazio, l'amico adolescente, mandano un giorno su un campo da tennis; la tigre avvolta dalla nebbia e come «distesa su piume o aria » che appare d'improvviso, alla luce dei fari, su una strada della Malesia; il pavillon fuori moda dove - fra spumeggianti bicchieri di Itala Pilsen, giovani donne fasciate di seta o rayon e ufficiali tedeschi col monocolo - pochi minuti di oscuramento e il fischio degli Stuka possono condensare la guerra; l'«arruffio di gesti tutti precisamente sintonici», facili e silenziosi, che nel ricordo si rivelerà essere l'amore; lo sguardo appannato, «come una pellicola selvatica poggiata sulla cornea», di una delle più famose spie, Kim Philby, colto in un albergo di Mosca. Sono gli inattesi lampi di verità, gli improvvisi scatti della memoria, le irripetibili manifestazioni dell'arte della vita offerti ai lettori del «Corriere della Sera» fra l'aprile del 1982 e il marzo del 1983: e non è un caso che, quasi a radunare idealmente questi brevi testi di massima densità in un terzo e più malinconico 'sillabario', Parise avesse scelto la rubrica Lontano. Perché quello che si impara - sembra dirci Parise - lo si impara di colpo, da un momento all'altro, ma per lo più nel ricordo, quando ormai è troppo tardi. E il mistero lo si può forse risolvere, ma una sola volta e per qualche secondo - e come «azzeccarlo, nella instancabile roulette»?
A Stoccolma Malaparte incontra il principe Eugenio, fratello del re di Svezia. E nella villa di Waldemarsudden non può trattenersi dal raccontare ciò che ha visto nella foresta di Oranienbaum: prigionieri russi conficcati nella neve fino al ventre, uccisi con un colpo alla tempia e lasciati congelare. È solo la prima di una fosca suite di storie che, come un novellatore itinerante, Malaparte racconterà ad altri spettri di un'Europa morente: ad Hans Frank, Generalgouverneur di Polonia, a diplomatici come Westmann e de Foxà, a Louise, nipote del kaiser Guglielmo II. Storie che si annidano nella memoria per non lasciarla mai più: il Ladoga, simile a "un'immensa lastra di marmo bianco", dove sono posate centinaia e centinaia di teste di cavallo, recise da una mannaia; il console d'Italia a Jassy, sepolto dal freddo peso dei centosettantanove cadaveri di ebrei che sembrano precipitarsi fuori dal treno che li deportava a Podul Iloaiei, in Romania; le mute di cani muniti di cariche esplosive che, in Ucraina, i russi addestrano ad andare a cercare il cibo sotto il ventre dei panzer tedeschi. Storie, anche, malinconiche e gentili: quella dei bambini napoletani convinti dai genitori che gli aviatori inglesi sorvolano la città per gettar loro bambole, cavallucci di legno e dolci; o, ancora, quella delle ragazze ebree destinate al bordello militare di Soroca. Storie che trascinano in un viaggio lungo e crudele, al termine del quale si vedrà l'Europa ridotta a un mucchio di rottami.
Solo il Filosofo Ignoto, in arte Guido Ceronetti, poteva fondare "Insetti senza frontiere", un'"associazione senza fini di lucro" in difesa della "libertà di pungere" e per la tutela degli insetti, se necessario a scapito del sopravvalutato, e in ogni caso sovrabbondante, genere umano. In questo singolarissimo libro, che ne costituisce il manifesto e il programma, Ceronetti riprende il suo instancabile pellegrinaggio verso i luoghi che esplora da sempre - il corpo, la morte, il crimine, ma anche le fotografie, i versi di poeti lontanissimi, i dipinti, e ancora i giornali, le città, le librerie, unendo alle aspre certezze dell'aforista ("Alla luce del Tragico il mondo non è inesplicabile") i trucchi di un venditore di almanacchi, che intende girare "fiere, supermercati e suk" e proporre una nuova forma di intrattenimento, o di terapia, popolare: l'ascolto personalizzato di "ronzii d'alveare, cori delle cicale, cantare dei grilli".
Il mondo eccessivo, feroce e comico dei modi di dire barbaricini.
"Forse il modo migliore per leggere quello che insieme a "Il ragazzo morto e le comete", a "Il padrone" e a "L'odore del sangue" è tra i vertici dell'opera di Parise, è fare come se di Parise non conoscessimo nulla, e questo libro uscisse per la prima volta oggi. Che immagine ci faremmo dell'autore dei "Sillabari"? I suoi racconti sembrano prossimi alla Mitteleuropa di Peter Altenberg: nel sentimento che non scade nel sentimentalismo, nell'asciutta creaturalità, nella musica fintamente trasandata; ma può anche essere un seguace del Robert Walser dei racconti in forma di temi di scuola: meno follemente didascalico, più narrativo, più "carnale"; o può somigliare a uno scrittore americano alla Truman Capote: per lo sguardo acuto e quasi tattile che cala nel mondo dell'adolescenza, per la capacità di dare parole ai trasalimenti privi di parole del corpo". (Giuseppe Montesano)
Giovanni ha smesso con la coca, e ha anche smesso di vendere prodotti finanziari ad alto rischio. Per disintossicarsi si occupa a titolo gratuito di creature misteriose e non troppo tranquillizzanti che si chiamano tutte Ruggero e Isabella, e appartengono a una razza pregiata di suini neri. Mary ha smesso anche lei con la sua vita precedente, ed è arrivata in Italia dagli Stati Uniti alla ricerca di certi parenti adottivi che vivono nello stesso paese dove lavora Giovanni, e che si chiamano anche loro Ruggero e Isabella. La prima curiosità che questo libro suscita è come possano incontrarsi due personaggi così, uno in fuga da e l'altro alla ricerca di un paradiso in terra - tanto più in un posto troppo fangoso e dimenticato da dio anche solo per ricordarlo, il paradiso. Ma la sorpresa è che invece sì, incontrarsi possono, se affrontano un viaggio in treno a Milano per conquistare insieme un congresso di allevatori, una farsesca e commovente lotteria suina nel basso Lazio, e una strana notte - italiana - del 4 di luglio; e se queste premesse riportano tutti e due per vie diverse in America, a Miami, dove la commedia recitata fin qui diventa, senza quasi che il lettore abbia avuto il tempo di accorgersene, un thriller hitchcockiano.
Un pomeriggio di agosto, verso la metà degli anni Novanta. Nel silenzio immobile della controra, una voce chiede aiuto. Una volta, due volte, dieci volte il grido risuona nell'androne ombroso di una elegante palazzina di Posillipo. Poi il silenzio, di nuovo, avvolge la strada. Nessuna porta si è aperta, nessuno degli inquilini ha risposto all'appello della ragazza. In quell'androne la troverà, morta, un giovane poliziotto, uno che viene da un quartiere che sembra appartenere a un altro mondo, nella periferia orientale della città. È la prima volta che vede un cadavere - e quella ragazza potrebbe avere la sua età. Nel vuoto sospeso di una Napoli dove chi può permetterselo è partito per le vacanze, e chi non può aspetta Ferragosto per andare a passare una giornata a Ischia o a Procida, il giovane poliziotto si intestardisce a chiedersi chi era quella sua coetanea che sembrava così normale, chi ha potuto ammazzarla, e perché. Interrogherà i vicini, rintraccerà gli uomini che l'hanno amata. Scoprire la verità (tanto imprevedibile quanto inquietante) lo indurrà a guardare con meno candore, e a giudicare con meno benevolenza, quella parte della città i cui abitanti, pur non essendo né camorristi né spacciatori né tossici - ma liberi professionisti, intellettuali, "gente perbene", insomma -, hanno anch'essi i loro ignobili segreti, le loro viltà nascoste.
Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco, si trova a Palermo nel dicembre 1782 per via di una tempesta che ha fatto naufragare la sua nave sulle coste siciliane. È questo il caso che fa nascere, nella mente dell'abate Vella, maltese e incaricato di mostrare all'ambasciatore le bellezze di Palermo, un disegno audacissimo: far passare il manoscritto arabo di una qualsiasi vita del profeta, conservato nell'isola, per uno sconvolgente testo politico, Il Consiglio d'Egitto, che permetterebbe l'abolizione di tutti i privilegi feudali e potrebbe perciò valere da scintilla per un complotto rivoluzionario. Apparso nel 1963, Il Consiglio d'Egitto è in certo modo l'archetipo, e il più celebrato, dei romanzi-apologhi di Sciascia, dove lo sfondo storico della vicenda si anima fino a diventare una scena allegorica, che in questo caso accenna alla storia tutta della Sicilia.
Nel 1953 Goffredo Parise si trasferisce a Milano, dove ha trovato lavoro presso un grande editore. Ha pubblicato due romanzi che pochi conoscono – Il ragazzo morto e le comete e La grande vacanza – e ha il vago desiderio di scriverne un terzo che lo diverta e commuova «tanto da cacciare il freddo e la solitudine»: un romanzo «con molti personaggi allegri», ma soprattutto «estivo». Uscito nel maggio del 1954, Il prete bello conoscerà un clamoroso successo e diventerà il primo best seller del dopoguerra. E rileggendolo oggi, quando ormai le etichette impugnate per celebrarlo o denigrarlo sono definitivamente alle nostre spalle, ci accorgiamo che il suo segreto sta tutto in quella genesi: nella festosa eccentricità dei personaggi che popolano un labirintico e fiabesco caseggiato nella Vicenza del 1940, e di colui che saprà stregarli tutti, e attirarli a sé con la forza di un magnete: don Gastone, il «prete bello». Personaggi quali la ricca signorina Immacolata, con i suoi strani cappellini a piume e l’occhialino d’oro cesellato; le Walenska, madre e figlia, che si scaldano ingrandendo con una enorme lente l’unico raggio di sole che al tramonto penetra nella loro stanza; il cav. Esposito, che tiene sotto chiave le cinque figlie concupiscenti; Fedora, la cui rigogliosa natura si spande dagli occhi e da tutto il corpo, quasi che «dai pori uscisse un polline dolciastro»; e la cenciosa banda di ragazzi truffaldini e sentimentali che nei vicoli e sotto i portici cercano ogni giorno di sopravvivere trasformandosi in ladri, ruffiani e mendicanti – in particolare Sergio, il narratore, e il suo amico Cena. In tutti loro, nelle vene e nel sangue, l’atletico, elegante, vanesio don Gastone si infiltra come una passione oscura, violenta ma capace di dare improvvisamente vita – e come nel Ragazzo morto e le comete ci troviamo di fronte a «una sostanza poetica che ribolle e rifiuta di assestarsi entro schemi definiti», a «un quadro di Chagall con orsi e streghe volanti» (Eugenio Montale).
Adelina ha un destino segnato: diventerà ianara, come sua madre, come sua nonna. Al pari di loro, potrà attraversare ogni porta, anche quella che separa la vita dalla morte. E sarà dannata. Vivrà in una capanna sui monti dell'Irpinia - una terra nel dopoguerra non ancora toccata da quel che avviene altrove, in un'Italia apparentemente remota - come una bestia selvatica; gli uomini e le donne verranno a supplicarla di aiutarli quando avranno bisogno di curarsi, di vendicarsi, o di liberarsi di un figlio non voluto - e la schiveranno come la peste se oserà avvicinarsi al paese. Per sfuggire a tale destino Adelina si incamminerà da sola per boschi e per montagne, finché non giungerà in vista di un grande e magnifico palazzo, proprietà di un Conte: vi entrerà come l'ultima delle sguattere e - sorta di funebre, allucinata Jane Eyre, schiava amorevole e possessiva fino al delitto - servirà e accudirà il padrone con assoluta, cieca fedeltà. Gli rimarrà accanto anche quando il palazzo sarà ridotto a una splendida rovina, quando più nessuno ci metterà piede per paura della maledizione che lo ha colpito dopo i tragici eventi di cui è stato teatro: il misterioso omicidio del figlio del Conte, l'orrendo suicidio della temibile Signora, la scomparsa della piccola Lisetta a cui il Conte era legato da un torbido affetto - e lei, Adelina, sarà rimasta la sola ad aggirarsi silenziosa nelle immense sale vuote.
Con una lingua asciutta, potente, evocativa, Licia Giaquinto ci trascina in una trama fitta di storie e di magia, dove animali, uomini, cose si fondono e si trasformano di continuo. Così come è destinato a trasformarsi, di fronte a una minacciosa «modernità», quel mondo arcaico che ci si squaderna davanti, e che ha anch'esso un destino segnato: quello di scomparire, per essere evocato solo da chi ancora ce lo sa raccontare.
Presentando, nel 1973, la silloge di racconti Il mare colore del vino, Leonardo Sciascia ne rivendicava, oltre che la necessità, la profonda coesione interna («tra il primo e l’ultimo di questi racconti si stabilisce come una circolarità»). Una coesione, possiamo oggi precisare, ottenuta a prezzo di esclusioni molto più drastiche e dolorose di quanto Sciascia non lasciasse trapelare («Questi racconti sono stati scritti – con altri, pochi, che non mi è parso valesse la pena di raccogliere e riproporre – tra il 1959 e il 1972»). Basterà leggere in questo volume, tra i quindici racconti lasciati allora cadere, la storia di Calcedonio Fiumara (Il lascito), che, trasformatosi da zolfataro in ricco e rapace possidente, vive solo come un cane, senz’altro amore se non quello per la sua pura e intoccabile ricchezza: e finirà per lasciarla, anziché ai detestati nipoti, a un manicomio, dove nessuno potrà trarne godimento o sollievo. O Una commedia siciliana, che dietro una vicenda in apparenza rocambolesca e a lieto fine – una sartina ritrova il fidanzato creduto morto in un incidente d’auto e se lo sposa – lascia trasparire la faccia terribile e cupa di un paese «circonfuso di limoni e mare», e i due modi d’essere della Sicilia: «uno enfatico e mistificatorio – dialogo, luce, festa – e l’altro chiuso e segreto, corroso da acre violenza e disperazione». A completare il panorama della produzione dispersa di Sciascia, il lettore troverà qui un nucleo di mirabili prose e «cronachette»: come I tedeschi in Sicilia, dove è ricostruito l’eccidio, feroce e immotivato, che nell’agosto del 1943 un reparto tedesco in ritirata compì a Castiglione di Sicilia: eccidio rimasto impunito, giacché in Italia «quel che accade in Sicilia è cosa d’altro pianeta». Per Sciascia, non dimentichiamolo, sono le microstorie a conferire senso e significato alla storia: senza contare che «il gusto della supposizione e il ridestarsi dello spirito possono già bastare a chi, come me, scopre nella storia veri e propri romanzi polizieschi».
«È il primo e il più grande di tutti i racconti della nostra tradizione in dialetto napoletano, non solo perché ne è il fondamento, ma perché ne segna anche il punto più alto. Infatti non è una raccolta di fiabe anonime come ce ne sono tante, ma di racconti fiabeschi e fantastici di un unico autore dotato di genio e di grande versatilità ... è il "cunto de li cunti" della plebe napoletana, un'opera letteraria di prim'ordine, ed è l'humus culturale da cui ancor oggi attingono linfa e ispirazione molti scrittori napoletani» (Raffaele La Capria).