
Sullo sfondo delle miniere del Galles, una storia umanissima di grandi, fondamentali conflitti sociali, civili e sentimentali. Nel cuore dei protagonisti divampa la lotta per ottenere più giustizia, libertà e realizzare finalmente un ideale e un progetto di vita più felice. Molti sono i contrasti e i conflitti che Cronin ritrae con sottile e attenta psicologia, dando ai personaggi una profondità autentica, che si può riscontrare solo nei ritratti dei grandi e affermati romanzieri. Il soffio della vita vissuta è presente in tutto il libro ed è la caratteristica che ha fatto conoscere Cronin.
È l'estate del 1997. Alec ritorna nella casa natale per prendersi cura della madre, gravemente ammalata. Suo fratello Larry, alle prese a San Francisco con una carriera televisiva in rapida caduta e con un matrimonio che va a pezzi, lo raggiunge poco dopo, mentre a Parigi Laszlo Lazar, esule ungherese, acclamato scrittore la cui opera è in corso di traduzione da parte di Alec, vive tragicamente il ricordo dell'invasione del 1956, e porta chiuso nel cuore un terribile rimorso.
Che cos’hanno in comune Mary Quant e la Lady di Ferro, la principessa più principessa del mondo e Virginia Woolf? La patria, la lingua, la cultura; la tenacia, la personalità, la capacità di trasformazione. Roberto Bertinetti racconta con penna elegante, leggera e precisa, a tratti ironica, a tratti complice, qualche volta impietosa il segno che hanno lasciato nella storia come nella vita culturale e sociale del loro Paese. Ne risultano tanti ritratti di tempi diversi, di modi diversi di vivere e conquistare il proprio spazio nel mondo, a comporre un disegno complessivo che dà conto dell'estrema forza di queste donne, delle loro energie, del loro modo specialissimo di essere e di saper cambiare.
Pari del regno, gentiluomo di camera del principe di Galles, viceré d'Irlanda e ambasciatore all'Aia, Philip Dormer Stanhope, quarto conte di Chestefield (1694-1773), non passa alla storia per le sue virtù politiche e diplomatiche, bensì per il suo poderoso epistolario, e in particolare per la lettere da lui indirizzate al figlio Philip sin da quando questi ha solo cinque anni. Lo scopo di una così lunga e intensa corrispondenza è di trasformare quell'unico erede - per di più illegittimo e quindi lontano - in un perfetto aristocratico, munito perciò di quelle doti di cultura, di gusto e di comportamento che il padre ritiene essenziali a tal fine.
I protagonisti di questo libro sono una frase e 72 ore. La frase, ipnotica quanto spietata, è quella che annuncia a Chris Burton, giornalista inglese da anni trapiantato in Italia, il suicidio del figlio schizofrenico. Le 72 ore sono quelle immediatamente successive, spese da Burton nel tentativo di ricomporre le schegge di una mente sconvolta dal lutto e i brandelli di un'Italia non meno frantumata. Dopo aver passato anni a riflettere sulla prevedibilità, Burton si trova urtato da qualcosa di imprevisto e orribile. E di conseguenza dalla rocciosa parola - destino - che d'ora innanzi racchiuderà la sua vicenda.
Con questo libro, il suo più personale sino a oggi, Oliver Sacks apre le porte della grande casa edoardiana di Londra in cui viveva un ragazzino timido e introverso con la passione per la chimica: di fronte al multiforme e al caotico, all'incomprensibile e al crudele, la purezza del metallo ha per il piccolo Oliver un valore simbolico, quasi la materializzazione di "idee chiare e distinte" e di un ordine stabile. Il tramite naturale verso questo mondo fantastico è Dave, zio Tungsteno, quello che fabbricava le lampadine. Guidati dai filamenti di luce, seguiamo l'evoluzione di quel ragazzino curioso e appassionato: e sarà come ricapitolare alcune tappe essenziali nella storia della scienza.
«Una delle letture più appassionanti ... Non bisogna lasciarsi spaventare dal fatto che siano oltre 600 pagine. Non dirò che lo si legge di un fiato, ma lo si centellina per sere e sere come se fosse un grande romanzo d’avventure, popolato di straordinari personaggi storicamente esistiti e di cui non sapevamo nulla» (Umberto Eco).
«… grande affresco storico sul Grande Gioco, come lo chiamò Kipling, che impegnò inglesi e russi, per buona parte dell’Ottocento, in Afghanistan, in Iran e nelle steppe dell’Asia centrale. Mentre il grande impero moscovita scivolava verso i mari caldi inghiottendo ogni giorno, mediamente, 150 chilometri quadrati, la Gran Bretagna cercava di estendere verso nord i suoi possedimenti indiani. Vecchia storia? Acqua passata? Chi darà un’occhiata alla carta geografica constaterà che i grandi attori hanno cambiato volto e nome, ma i territori contesi o discussi sono sempre gli stessi. In queste affascinanti “mille e una notte” della diplomazia imperialista il lettore troverà l’antefatto di molti avvenimenti degli scorsi anni in Afghanistan e in Iran» (Sergio Romano).
Il cinema ha un suo modo di affrontare i tempi più difficili, che da sempre consiste nel proporre agli spettatori i più facili fra i soggetti possibili. Così nella Londra degli anni dell’ascesa di Hitler, mentre tutti si preparano all’inevitabile, un volitivo produttore, Chatsworth, ritiene sia il momento giusto per mettere in cantiere un’operetta vagamente mitteleuropea, di quelle che vanno parecchio anche a Hollywood nello stesso periodo. Chatsworth è altresì sicuro che La violetta del Prater sbancherà il botteghino, ma a due condizioni: che a dirigerlo sia il più talentuoso e paranoide fra i registi di lingua tedesca, Friedrich Bergmann, e che a occuparsi della sceneggiatura sia un giovane, promettente scrittore – Christopher Isherwood. Quanto segue è semplicemente la storia veridica (come il suo doppio narrativo, Isherwood prima della guerra aveva effettivamente lavorato alla Gaumont) e non resistibile (a volte, si sa, i making of sono cinema allo stato puro) di come un film nasce e si trasforma, e soprattutto di come giorno per giorno rischia, nei modi spesso più folli e sgangherati, la catastrofe. Per John Boorman, questo piccolo gioiello semidocumentario era il più bel libro in circolazione sul rapporto fra il cinema immaginario e quello reale; per qualsiasi lettore, sarà quantomeno una necessaria e appassionante parafrasi della lapidaria definizione che Bergmann, in un momento di franchezza, largisce a Christopher: «Sa che cos’è un film? ... Un film è una macchina infernale».
Questo volta Alan Bennett ci tuffa in due farse scanzonate e impertinenti. Entriamo così nell'atmosfera briosa di "Mrs Donaldson ringiovanisce", dove una rispettabile vedova di mezza età, dedita al mestiere di simulatrice di malattie in una clinica universitaria, si trova inopinatamente nel ruolo di apprendista voyeur; e poi nell'esilarante girandola di amplessi e ricatti incrociati di "Mrs Forbes non deve sapere", la sorniona pochade familiare dove finiremo per godere del più grande fra i privilegi - quello di scoprire i segreti per primi. Tutto da ridere? Come sempre con Bennett, non proprio. Il nostro "maestro dell'osservazione" guarda il mondo come uno Swift fattosi malinconico e bonario; e con un'ironia mai livida, spesso affettuosa, irride le inibizioni, i convenzionalismi, le piccole miserie delle persone che si dichiarano normali nella loro vita di ogni giorno. Riuscendo anche questa volta, con la sua maliziosa levità, a insinuarsi nella psiche di tutti.
Marya, giovane inglese sposata con il polacco Stephan, si sente, per la prima volta nella sua vita, «molto vicina a essere felice». Ed ecco che, da un giorno all’al­tro, il marito finisce in galera lasciandola senza un soldo né un amico al mondo. L’agognata felicità assume allora per un istante le sembianze di Heidler, facoltoso mercante d’arte, che però la trascina – sotto gli occhi compiacenti e maligni del­la moglie – in una lunga, torpida osses­sione. Sullo sfondo di una Parigi mai così crudele, in una Rive Gauche ingan­nevol­mente romantica e mondana, Marya finisce per trovarsi avviluppata in un tor­mentoso ménage à trois; e quando, con un palpito di disperata onestà, prova a lacerare il velo delle apparenze, com­prende che in quell’irrespirabile bohème i codici sociali pesano quanto e più che altrove. Schiacciata fra l’anelito a una vita rispettabile e la realtà obbligata del demi-monde, si scopre così condannata senza appello all’«esistenza grigia, spaventosa, dei derelitti»: un mondo irreale e al tem­po stesso terribilmente concreto, fatto di sordidi caffè e grame camere d’albergo, dove è impossibile trovare scampo alla tragica ineluttabilità della vita.
Quando, nel dicembre 1747, ritorna in Italia, Lady Montagu è una cinquantottenne insieme appagata e disillusa. Alle spalle si lascia le sequenze di una parabola romanzesca: la precoce vocazione letteraria; la fuga e il matrimonio contro la volontà paterna; l'ascesa nella società politico-intellettuale inglese; il soggiorno, accanto al marito ambasciatore, a Costantinopoli, da dove importerà un metodo di immunizzazione dal vaiolo (la malattia che ha oltraggiato la sua bellezza); l'epilogo deludente della relazione con il letterato Francesco Algarotti. All'orizzonte sembra dunque profilarsi una vecchiaia solitaria, "non dissimile da quella di Robinson Crusoe". L'autunno della vita le riserverà invece la grazia di un insperato equilibrio e di una saggezza dolorosa, rischiarata dalla luce dei luoghi dove per lo più risiede: quello "straordinario punto della Terra" tra il lago d'Iseo, le terme di Lovere e gli "invalicabili" monti circostanti. Ne sono testimonianza queste vibranti lettere a Lady Bute, moglie del Primo ministro d'Inghilterra, diagramma di un rapporto tra madre e figlia di toccante intensità, nelle quali Lady Montagu si dedica a un vero e proprio scavo della natura umana e nel contempo indica a Lady Bute le vie di una pedagogia libertaria e antiretorica, e di un'emancipazione realistica ma inflessibile.
Sono i giorni dell'Elysian Prize a Londra, e l'intera società letteraria del Commonwealth è in fermento. Benché sia confinato al mucchio di ceneri imperiali di un'istituzione cara forse soltanto alla Regina, il Premio è uno dei riconoscimenti più ambiti negli illustri salotti letterari londinesi, in quelli altrettanto nobili di Edimburgo e tra i notabili di Nuova Delhi. Sponsorizzato dalla Elysian, un'industria agricola che annovera tra i suoi prodotti alcuni degli erbicidi e dei pesticidi più devastanti sulla faccia della terra, il Premio ha nel suo consiglio d'amministrazione Sir David Hampshire, ex segretario generale del Ministero degli esteri durante la Guerra Fredda, un vecchio mandarino che, da buon relitto di quell'epoca gloriosa, ha fatto man bassa delle cariche riservate alla gente del suo rango. Incaricato di selezionare la giuria, Hampshire ha chiamato a presiederla Malcolm Craig, parlamentare d'opposizione con una fugace esposizione al pallido sole caledoniano nelle vesti di sottosegretario di Stato per la Scozia, vesti di cui si è dovuto spogliare in gran fretta dopo un maldestro discorso sull'indipendenza della Scozia contrario alla linea del suo partito. Nell'ingrato compito di scegliere i romanzi in concorso, Craig deve vedersela con una giuria composta da Jo Cross, star del giornalismo la cui passione è stabilire la "rilevanza" delle opere presso i suoi lettori; da Vanessa Shaw, accademica di Oxbridge cui interessa soltanto la "qualità della scrittura"...