
Munito solo di uno zaino da alpinista, un vecchio cappotto militare, stivali chiodati, l'Oxford Book of English Verse e un passaporto nuovo di zecca che gli attribuisce la professione di studente (anziché, come avrebbe auspicato, quella di vagabondo), nel dicembre del 1933 Patrick Leigh Fermor abbandona Londra e una carriera scolastica sciagurata e ribalda. Ha appena diciotto anni, vaghe ambizioni letterarie, ma un progetto nitido e grandioso: attraversare l'Europa a piedi come un palmiere o un cavaliere errante e raggiungere Costantinopoli - la «Bisanzio verde drago di Robert Byron, ossessionata dal serpente e tormentata dal gong». Quando vi arriva, il 1° gennaio 1935, è ormai un altro: non solo si è lasciato per sempre alle spalle disastri e misfatti, ma ha sviluppato una rara forma di nomadismo - viaggiare simultaneamente nello spazio e nel tempo - e l'arte, ancora più rara, di trasmetterlo agli altri. Che contempli lo splendore barocco dello Schloss Bruchsal o le nodose mani dei contadini fra cipolle tagliate, caraffe sbreccate e pane integrale; che dorma in un fienile steso come un crociato sulla tomba o nel 'capanno da caccia' del leggendario barone Pips Schey a Kövecses; che percorra il Reno su una colonna di chiatte che trasportano cemento o attraversi Vienna offrendosi come ritrattista a domicilio; che sperimenti il Katzenjammer, il 'doposbornia', a Monaco o elabori la «formula del Lanzichenecco» per spiegare l'architettura delle città tedesche prebarocche; tutto ci appare il dettaglio di un fantasmagorico affresco, tutto sembra ricomporsi in un gigantesco puzzle dove risorge, come un'emanazione di incredibile e accattivante splendore, il passato dell'Europa. E insieme scopriremo qui il modello ancora fragrante di quel modo di viaggiare (e di vivere) che sarà un giorno identificato con la fisionomia di un giovane amico di Fermor: Bruce Chatwin.
"A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce"; con questa dedica si apre "L'incendiaria" di Stephen King. È infatti con toni sommessi e deliziosamente sardonici che la diciottenne Mary Katherine ci racconta della grande casa avita dove vive reclusa, in uno stato di idilliaca felicità, con la bellissima sorella Constance e uno zio invalido. Non ci sarebbe nulla di strano nella loro passione per i minuti riti quotidiani, la buona cucina e il giardinaggio, se non fosse che tutti gli altri membri della famiglia Blackwood sono morti avvelenati sei anni prima, seduti a tavola, proprio lì in sala da pranzo. E quando in tanta armonia irrompe l'Estraneo (nella persona del cugino Charles), si snoda sotto i nostri occhi, con piccoli tocchi stregoneschi, una storia sottilmente perturbante che ha le ingannevoli caratteristiche formali di una commedia. Ma il malessere che ci invade via via, disorientandoci, ricorda molto da vicino i "brividi silenziosi e cumulativi" che - per usare le parole di un'ammiratrice, Dorothy Parker abbiamo provato leggendo "La lotteria". Perché anche in queste pagine Shirley Jackson si dimostra somma maestra del Male - un Male tanto più allarmante in quanto non circoscritto ai 'cattivi', ma come sotteso alla vita stessa, e riscattato solo da piccoli miracoli di follia.
In "Giovinezza", in "Lord Jim" e in "Cuore di tenebra" Charles Marlow aveva raccontato le vicende di personaggi annientati dall'incontro con il destino. Ma in questo libro Joseph Conrad gli affida un compito ancora più delicato, e per molti versi estremo: raccontare direttamente il destino, o meglio il puro e semplice caso, una forza "assolutamente irresistibile, per quanto si manifesti spesso in forme delicate, quali ad esempio il fascino, reale o illusorio, di un essere umano". "Il caso" è la storia di Flora de Barral, giovanissima figlia di un banchiere rovinato dalla speculazione (dopo avere a sua volta rovinato migliaia di investitori): finendo in carcere questi fa della ragazza una diseredata, senza altro diritto che la compassione. Ed è la storia di come questa creatura esile, silenziosa e ostinata lotti per resistere all'"infatuazione del mondo", e alle attenzioni "di persone buone, stupide, coscienziose". Di come la devozione di un uomo, il capitano Anthony, le sembri all'improvviso una salvezza possibile. Di quello che un lungo viaggio in mare può nascondere, e un matrimonio può rivelare. E della tragedia cui tutto ciò, inevitabilmente, conduce. Eppure "Il caso" è anche un romanzo felice, che per la prima volta conquistò a Conrad schiere di lettori entusiasti: uscito nel 1913, fu il suo unico vero successo popolare.
"C'era una volta un uomo che si chiamava Albinus, il quale viveva in Germania, a Berlino. Era ricco, rispettabile, felice; un giorno lasciò la moglie per un'amante giovane; l'amò; non ne fu riamato; e la sua vita finì nel peggiore dei modi". È probabile che il lettore di oggi, aprendo "Una risata nel buio" e leggendone le prime righe, abbia la stessa reazione del suo editore americano nel 1938. Ma come, si era detto il disgraziato, questo Nabokov mi ha chiesto di ritradursi il libro da solo perché la versione uscita tre anni prima in Inghilterra lo aveva sconciato, e adesso mi presenta con un altro titolo un testo completamente diverso da quello che ho letto? E con un attacco che dice tutto? E ora cosa racconterà, visto che la trama l'ha svelata subito? Sono tutte domande legittime, ma futili. E, soprattutto, contengono già le risposte. L'autore aveva rifatto Kamera obskura - questo il titolo della prima versione - perché continuava in realtà a riscrivere la storia che avrebbe portato fino in fondo solo vent'anni dopo, in Lolita. E aveva scelto quell'attacco perché nel frattempo si era formato una sua personalissima idea del gioco infinito e appassionante che, prima di tutto, un libro deve essere. Quanto al resto della storia, alla materia che il romanzo in tre righe con cui inizia non contiene - be', molto semplicemente, è la letteratura. Ovvero, per usare un suo sinonimo corrente, Vladimir Nabokov.
Meno di cento chilometri in linea d'aria separavano le colline del Kent dalle Fiandre, e i corni della caccia alla volpe avevano un suono sinistro, contro il rombo dei bombardamenti a tappeto intorno a Ypres, o sulla Somme. Durante un attacco dell'artiglieria tedesca, il 20 luglio 1916, Robert Graves fu ferito così gravemente da comparire, in un primo momento, sulla lista dei caduti con onore, beninteso che il "Times" pubblicava ogni giorno. In realtà Graves tornò su un treno ospedale alla stazione di Wimbledon, e qualche tempo dopo si riprese dalle ferite, per quanto atroci: ma la notte sentiva esplodere granate intorno al letto, scambiava i passanti per amici perduti al fronte, e se sentiva partire una macchina, o sbattere una porta, si gettava a terra. E così, a poco a poco, quei cento chilometri scarsi fra il tè del pomeriggio e i cadaveri lasciati a decomporsi nella terra di nessuno diventarono, per Graves come per gli altri scampati al massacro, un abisso capace di inghiottire per sempre, in un orrore senza nome, il mondo di ieri. Che nel 1929, prima di lasciare un'Inghilterra in cui non avrebbe potuto più vivere, Graves ricostruì per un'ultima volta in questo libro il più nitido, struggente e indimenticabile atto di commiato che le trincee d'Europa abbiano costretto un poeta a scrivere. Con una nota di Ottavio Fatica.
William Shakespeare scrisse almeno trentasette componimenti teatrali, centocinquantaquattro sonetti e un paio di poemetti. A quattro secoli di distanza dalla sua scomparsa, la sua imponente opera continua a parlare in modo diverso a ogni nuova generazione, motivo per cui la sua poesia non è mai fuori luogo, in nessuna epoca. Questa antologia offre una selezione dei suoi capolavori, proponendo un estratto per ogni giorno dell'anno e dando voce non solo ai personaggi e ai brani più noti e più amati, ma anche alle opere meno conosciute, come i poemetti che in epoca elisabettiana furono dei bestseller, ma di cui forse in pochi hanno sentito parlare. Ogni brano citato, corredato da un commento di Allie Esiri, offre la possibilità di entrare nella vita di ciascun personaggio ed esaminarlo da ogni angolazione, così che il lettore si troverà a vivere, giorno dopo giorno, i dilemmi di Amleto, i finti stupori di Viola, la feroce determinazione di Macbeth e la sconvolgente disonestà di Iago persino verso sé stesso. Un libro per gli estimatori del Bardo, ma anche per chi decida di accostarsi per la prima volta alla sua opera, per trascorrere qualche ora del giorno all'insegna della saggezza, dello spirito e della poesia di uno dei più grandi geni dell'umanità.
Londra, 1587. Sono le mani delicate a tradire le nobili origini della fanciulla: non sarebbe altrimenti riconoscibile il suo corpo, tanto è martoriato. Chi le ha dato la morte si è accanito barbaramente su di lei e sul feto che portava in grembo. Fino a marchiarla con evidenti segni di profanazione: una croce incisa sulla schiena con una lama; un frammento di osso, forse una reliquia, e un crocifisso d’argento introdotti con spudoratezza nelle sue membra.
Difficile non vedere motivazioni politiche dietro al delitto. Non solo perché la giovane lady Blanche era cugina della regina Elisabetta I. Ma anche perché il suo cadavere è stato ritrovato in una tipografia clandestina data alle fiamme, tra documenti compromettenti e lettere minatorie per la Corona. E perché i simboli del sacrilegio fanno ipotizzare che la ragazza nutrisse simpatie papiste: gravissimo reato in un’Inghilterra divisa dagli odi religiosi, dove i cattolici sono messi al bando e considerati cospiratori. Un caso tanto delicato esige un abile segugio. La scelta cade quindi su John Shakespeare, principale agente segreto della regina, nonché fratello di un drammaturgo emergente di nome William. Giovane e idealista, John è un uomo retto, in cerca di verità e giustizia. Ma anche lui, addentrandosi in un mondo carico di tensioni e intrighi, dove c’è chi è disposto a uccidere in nome di Dio, rischierà di essere travolto.
Camelot è un venditore ambulante che viaggia da molti anni e per vivere vende reliquie false. È anche un vecchio sfigurato da una cicatrice che lo ha reso privo di un occhio. Fingendosi un reduce delle battaglie contro gli infedeli in Terra Promessa, ha fatto del marchio che porta in faccia un mezzo per sopravvivere e così vende speranza e “fede in bottiglia”. Ma ora da tempo è lontano da casa e il ricordo del passato si fa vivo nella mente di Camelot, forte e nostalgico. Il venditore intraprende così la lunga strada di ritorno verso la Scozia, mentre l’imprevista esplosione della peste trasforma il suo viaggio in una fuga dall’epidemia. È il nefasto giorno di mezz’estate del 1348, quando il contagio comincia a diffondersi nel Paese e quando Camelot incontra Narigorm, una bambina albina, lettrice di rune. I suoi occhi celesti, splendenti nella cascata bianca e immacolata dei suoi capelli, lo fissano insistentemente come se volessero leggergli dentro. Un incontro fatale, il primo di una serie, che porta Camelot a proseguire il suo cammino con una nuova e bizzarra compagnia, unita dalla necessità di sopravvivere alla peste. Un mago bigotto, un cantastorie, un pittore di scene sacre, un musicista veneziano e il suo pupillo, un’esperta di erbe e infine proprio la bambina albina diventano così protagonisti di questa fuga dalla disperazione. Quando però uno del gruppo viene trovato impiccato a un albero, tra loro s’insinua il dubbio e la diffidenza. Qualcosa di più terribile della peste minaccia la loro vita, un segreto nascosto in ognuno di loro. Solo la bambina e le sue rune sanno cos’è.
Nel mondo antico c'era un esercito più temuto degli altri. Un esercito in grado di conquistare il mondo. Ma la Storia è capace di ribaltare anche il destino più glorioso. 401 a.C. Artaserse, re di Persia, governa un impero che si estende dalle coste dell'Egeo all'India settentrionale. Il suo dominio è assoluto, e per cinquanta milioni di sudditi una sua parola può valere la vita o la morte. Un'ombra però si staglia all'orizzonte del suo regno apparentemente così saldo: il fratello Ciro il Giovane, che reclama il trono, in nome del loro defunto padre Dario II. C'è un solo esercito che può aiutare Ciro nell'impresa: diecimila figli di Sparta i cui padri morirono alle Termopili o nelle guerre del Peloponneso, che adesso prestano il loro prezioso servizio come mercenari. I diecimila sono agguerriti, e Ciro è un generale generoso e intelligente. Al suo seguito gli spartani lottano con coraggio, finché Ciro compie un errore fatale e, nel tentativo di ammazzare il fratello con le sue mani, muore. Per i diecimila greci è l'inizio di un calvario: soli nel cuore di un impero nemico, senza un comandante, dovranno trovare la via per il mare, e per la libertà. Un uomo solo sarà in grado di condurli a destinazione, un ateniese, un uomo che non si riteneva, fino a quel momento, neanche un soldato. Senofonte. Solo grazie a lui il mondo moderno conoscerà la straordinaria storia dei leggendari diecimila e del loro ritorno a casa. Uno dei momenti più epici dell'intera storia greca prende vita tra le pagine di questo romanzo, tra ferocia, eroismo, crudeltà, violenza e nobiltà.
"Per me è stato amore al primo buco, matrimonio alla prima fumata. Esatto, io amo la mia ero. La vita dovrebbe essere come quando sei strafatto." È questa la filosofia degli skagboys, i tossici scozzesi resi famosi da Trainspotting. In questo libro Irvine Welsh racconta l'antefatto, il momento in cui Mark Renton, Sick Boy, Spud e i loro "soci" scivolano inesorabilmente nel baratro dell'eroina. Fra scene di devastante crudezza e depravazione, episodi grotteschi e squarci di inaspettata poesia e tenerezza, ogni personaggio emerge dalla pagina con tutta la propria violenza verbale, la propria rabbia e brutale autenticità, raccontando in prima persona e senza compromessi una decadenza fisica e morale irrimediabile. Disillusi e privi di ogni stimolo, i personaggi di Welsh si gettano alle spalle lavoro, amore, famiglia, persino la passione calcistica, opponendo a tutto questo una parabola solipsistica e autodistruttiva. È il trionfo della vita ai margini nel suo splendore epico e negativo, dove il protagonista assoluto è il linguaggio esuberante, eccentrico, imprevedibile. Sembra di sentirli parlare davvero, Rents e Sick Boy, lungo la ferrovia, in cerca di "quel sollievo che ti sembra un'estasi quando ti scorre per le vene nel cervello, e l'euforia incredibile perché i problemi del mondo, tutta la merda, si dissolvono attorno a te nella polvere".
Hundreds Hall, l’antica dimora di campagna della famiglia Ayres: varcarne i cancelli dopo trent’anni è un momento di grande trepidazione per il dottor Faraday, lui che ancora bambino, nel lontano 1919, ne aveva ammirato con occhi sgranati lo sfarzo e lo splendore. Quel passato, tuttavia, è ormai un vago ricordo: i suoi abitanti — la vedova del Colonnello Ayres e i figli Roderick e Caroline — sono, infatti, impegnati in una disperata battaglia per salvare dalla rovina se stessi e la casa. Ma proprio quest’ultima sembra gettare le ombre più funeste sul futuro: stanze che di colpo diventano trappole, pareti da cui emergono sussurri malevoli e segni inquietanti, un devastante incendio notturno.., chi, o che cosa, c’è dietro questi eventi? Quale mistero grava sul destino degli Ayres? Ma, soprattutto, fino a che punto si spingerà la minaccia?
Sarah Waters si confronta con un classico tra i generi letterari, la ghost story, e lo rinnova assottigliando il confine tra sovrannaturale e psicopatologico. Di consueto c’è solo la sua maestria narrativa, con cui restituisce il quadro raffinato e puntuale di un mondo drammaticamente sospeso tra passato e presente. Un mondo in cui le paure umane prendono pericolosamente forma, e dove, in un crescendo lento ma inesorabile, la voce della ragione appare sempre più un debole appiglio di fronte ai ricordi, ai desideri e alle pulsioni represse che travolgono le menti dei protagonisti, e con loro il lettore.
È una grande serata per Amma: un suo spettacolo va in scena per la prima volta al National Theatre di Londra, luogo prestigioso da cui una regista nera e militante come lei è sempre stata esclusa. Nel pubblico ci sono la figlia Yazz, studentessa universitaria armata di un'orgogliosa chioma afro e di una potente ambizione, e la vecchia amica Shirley, il cui noioso bon ton non basta a scalfire l'affetto che le lega da decenni; manca Dominique, con cui Amma ha condiviso l'epoca della gavetta nei circuiti alternativi e che un amore cieco ha trascinato oltreoceano... Dalle storie (sentimentali, sessuali, familiari, professionali) di queste donne nasce un romanzo corale con dodici protagoniste: etero e gay, nere e di sangue misto, giovani e anziane; impiegate nella finanza o in un'impresa di pulizie, artiste o insegnanti, matriarche di campagna o attiviste transgender. Cucite insieme come in un arazzo, le loro vite (e quelle degli uomini che le attraversano) formano un romanzo anticonvenzionale che rilegge un secolo di storia inglese da una prospettiva inedita e necessaria.

