
"A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce"; con questa dedica si apre "L'incendiaria" di Stephen King. È infatti con toni sommessi e deliziosamente sardonici che la diciottenne Mary Katherine ci racconta della grande casa avita dove vive reclusa, in uno stato di idilliaca felicità, con la bellissima sorella Constance e uno zio invalido. Non ci sarebbe nulla di strano nella loro passione per i minuti riti quotidiani, la buona cucina e il giardinaggio, se non fosse che tutti gli altri membri della famiglia Blackwood sono morti avvelenati sei anni prima, seduti a tavola, proprio lì in sala da pranzo. E quando in tanta armonia irrompe l'Estraneo (nella persona del cugino Charles), si snoda sotto i nostri occhi, con piccoli tocchi stregoneschi, una storia sottilmente perturbante che ha le ingannevoli caratteristiche formali di una commedia. Ma il malessere che ci invade via via, disorientandoci, ricorda molto da vicino i "brividi silenziosi e cumulativi" che - per usare le parole di un'ammiratrice, Dorothy Parker abbiamo provato leggendo "La lotteria". Perché anche in queste pagine Shirley Jackson si dimostra somma maestra del Male - un Male tanto più allarmante in quanto non circoscritto ai 'cattivi', ma come sotteso alla vita stessa, e riscattato solo da piccoli miracoli di follia.
Quando, nel 1956, l'editore londinese Macmillan comprò il primo romanzo di una giovane autrice sconosciuta, "I consolatori", si rese subito conto di aver fatto una scelta molto ardita. Così, temendo che fosse un libro "troppo difficile" per il pubblico del tempo, esitò un anno prima di darlo alle stampe. Muriel Spark non si stupì particolarmente del ritardo: forse, dentro di sé, sapeva già di essere, secondo le parole di John Updike, "uno dei pochi scrittori che abbiano abbastanza risorse, coraggio e grinta da modificare la macchina della narrativa". Oggi, qualunque lettore, avvezzo o meno ai suoi romanzi più celebri, non potrà che soccombere allo charme che si sprigiona dalla sublime eccentricità dei consolatori (o persecutori?) che popolano queste pagine: una nonna contrabbandiera, un libraio satanista, un giovanotto con la vocazione del detective, e un'eroina che ha il sommo cruccio di sapersi personaggio di un romanzo. Li seguiremo, avvinti ed esilarati, fra storie d'amore, ricatti e terribili vendette in un intreccio prodigo di suspense e sortilegi. Un intreccio che dovette colpire anche Evelyn Waugh, se si risolse a scrivere a un'amica: "Mi sono state mandate le bozze del geniale romanzo di una signora che si chiama Muriel Spark. La protagonista è una scrittrice cattolica che soffre di allucinazioni. Il libro uscirà presto e sono sicuro che tutti penseranno che l'abbia scritto io. Vi prego di smentire".
Nell'anno 2013, in un mondo dominato dal Presidente del Consiglio dei Magnati dell'Industria, scoppia un'epidemia che in breve tempo cancella l'intera razza umana. Sessant'anni dopo, nello scenario postapocalittico di una California ripiombata nell'età della pietra, un vecchio, uno dei pochissimi superstiti (e a lungo persuaso di essere l'unico), di fronte a un pugno di ragazzi selvaggi - i nipoti degli altri scampati - riuniti intorno a un fuoco dopo la caccia quotidiana, racconta come la civiltà sia andata in fumo allorché l'umanità, con il pretesto del morbo inarrestabile, si è affrettata a riportarsi con perversa frenesia a stadi inimmaginabili di crudeltà e barbarie. La peste scarlatta è uno dei grandi testi visionari di Jack London, che qui ancora una volta fa da temerario battistrada - e scopre un filone ricchissimo e fecondo.
Camminare sul filo del rasoio è difficile e, in effetti, tutt'altro che facile si presenta l'impresa di Larry, un giovane americano traumatizzato dagli orrori della Grande Guerra che si decide a percorrere - molto in anticipo sui suoi coetanei di qualche decennio dopo - la via dell'India, e dell'Illuminazione. E lo fa senza rinunciare a una fitta schermaglia amorosa con l'incantevole Isabel, a un duello col feroce zio di lei, e al cimento più arduo di tutti: la mera sopravvivenza nella spietata comunità di espatriati che fra le due guerre abitava la Riviera francese.
«Una delle letture più appassionanti ... Non bisogna lasciarsi spaventare dal fatto che siano oltre 600 pagine. Non dirò che lo si legge di un fiato, ma lo si centellina per sere e sere come se fosse un grande romanzo d’avventure, popolato di straordinari personaggi storicamente esistiti e di cui non sapevamo nulla» (Umberto Eco).
«… grande affresco storico sul Grande Gioco, come lo chiamò Kipling, che impegnò inglesi e russi, per buona parte dell’Ottocento, in Afghanistan, in Iran e nelle steppe dell’Asia centrale. Mentre il grande impero moscovita scivolava verso i mari caldi inghiottendo ogni giorno, mediamente, 150 chilometri quadrati, la Gran Bretagna cercava di estendere verso nord i suoi possedimenti indiani. Vecchia storia? Acqua passata? Chi darà un’occhiata alla carta geografica constaterà che i grandi attori hanno cambiato volto e nome, ma i territori contesi o discussi sono sempre gli stessi. In queste affascinanti “mille e una notte” della diplomazia imperialista il lettore troverà l’antefatto di molti avvenimenti degli scorsi anni in Afghanistan e in Iran» (Sergio Romano).
Una grande casa tra le dune di Martha's Vineyard - il rifugio ideale per le vacanze estive della upper class del New England. Ma in questa casa non si tengono party sontuosi, né si scambiano ovattate confidenze: si organizzano semmai meeting di finanziamento delle più disparate iniziative insurrezionali e si combattono schermaglie degne di un pub all'ora di chiusura. Già, perché ad abitarla è il clan dei « fantastici Flanagan», stirpe irlandese emancipata da qualsiasi preoccupazione economica grazie alle sovvenzioni di un distante e temuto patriarca, magnate dei media. Circondati da cani di ogni taglia, Charlie Flanagan, donnaiolo seducente e sconsiderato, e la moglie, bella ereditiera di simpatie sovversive, conducono un ménage insieme crudele ed esilarante. Di crescere Collie e Bingo, i due figli della coppia, si preoccupa lo zio Tom, il fratello di Charlie - perlomeno quando non è impegnato nell'addestramento dei colombi o in qualche concitata rissa verbale. Ma se Bingo, adorabile scavezzacollo, è il degno prodotto di un simile dressage, Collie, il narratore, è diverso: è serio, sensibile e coscienzioso, e decisamente più attratto da ciò che il nonno rappresenta. Certo, la fascinazione di Collie per le ville in stile georgiano, i roseti ben tenuti, i mastini a guardia della proprietà lo espone all'occasionale biasimo dei più stretti congiunti, ma lo rende anche l'unico plausibile erede dell'impero familiare. Sennonché, in una splendida giornata di sole, tutto va in pezzi... Accompagnato dal brio della prosa di Elizabeth Kelly, il lettore scoprirà, addentrandosi in questa storia scanzonata e toccante, che l'irruzione della più fosca tragedia può far scoccare la scintilla di un destino più vero.
"Ci sono stati altri casi di malattia mentale nella vostra famiglia?". Comincia così, con la domanda di un assistente sociale dello Yorkshire, questo commovente viaggio interiore di Alan Bennett. Siamo nell'istituto psichiatrico dove l'anziana madre è stata ricoverata per una grave forma depressiva - così almeno viene definita. Comunque sì, ci sono stati altri casi in famiglia, ma lui non lo aveva mai saputo. È il padre a svelare per la prima volta, in un atto burocratico e liberatorio, la fine drammatica e segreta del nonno di Bennett, e a indurlo a esplorare le storie nascoste e dimenticate degli altri parenti. Ma come si distingue la malattia mentale dalle manie, dalle fobie, dal silenzio, dall'infelicità? Da parte di uno scrittore che in passato non poteva "neanche togliersi la cravatta senza prima far circondare la casa da un cordone di polizia", un libro come questo è un dono inaspettato. Solo di recente, infatti, Alan Bennett ha sentito il bisogno di dedicarsi a quell'attività vagamente disdicevole che è lo scrivere di sé. Cambiando tonalità, forse, rispetto agli scritti esilaranti e feroci che gli hanno dato la celebrità, ma sempre con lo stesso sguardo acuminato e instancabile. Uno sguardo di un'onestà dolente, poco caritatevole soprattutto verso le sue manchevolezze. E l'umorismo? Sotteso - o forse sospeso - in ogni pagina come uno strumento di interpretazione insostituibile, col quale ci si può destreggiare anche fra le tragedie della vita.
Il cinema ha un suo modo di affrontare i tempi più difficili, che da sempre consiste nel proporre agli spettatori i più facili fra i soggetti possibili. Così nella Londra degli anni dell’ascesa di Hitler, mentre tutti si preparano all’inevitabile, un volitivo produttore, Chatsworth, ritiene sia il momento giusto per mettere in cantiere un’operetta vagamente mitteleuropea, di quelle che vanno parecchio anche a Hollywood nello stesso periodo. Chatsworth è altresì sicuro che La violetta del Prater sbancherà il botteghino, ma a due condizioni: che a dirigerlo sia il più talentuoso e paranoide fra i registi di lingua tedesca, Friedrich Bergmann, e che a occuparsi della sceneggiatura sia un giovane, promettente scrittore – Christopher Isherwood. Quanto segue è semplicemente la storia veridica (come il suo doppio narrativo, Isherwood prima della guerra aveva effettivamente lavorato alla Gaumont) e non resistibile (a volte, si sa, i making of sono cinema allo stato puro) di come un film nasce e si trasforma, e soprattutto di come giorno per giorno rischia, nei modi spesso più folli e sgangherati, la catastrofe. Per John Boorman, questo piccolo gioiello semidocumentario era il più bel libro in circolazione sul rapporto fra il cinema immaginario e quello reale; per qualsiasi lettore, sarà quantomeno una necessaria e appassionante parafrasi della lapidaria definizione che Bergmann, in un momento di franchezza, largisce a Christopher: «Sa che cos’è un film? ... Un film è una macchina infernale».
"È una situazione fra le più classiche. Lei decide di tradire il marito con un uomo che giudica affascinante. La tresca funziona fino al giorno in cui i due clandestini hanno la sensazione che il marito tradito abbia scoperto tutto. È un guaio. Anche perché, messa alle strette, l'adultera confessa. Che fare? Si dovrà procedere alla separazione e al divorzio. Sconvolta e piangente, lei si reca dall'amante. Gli dice d'aver confessato: vuole separarsi e andare a vivere con lui. Grande è la sorpresa, a quel punto. Infatti, l'amante non ha intenzione di lasciare la moglie e mettersi con lei. Pensiamo tutto questo ambientato nella colonia inglese di Hong Kong alla metà degli anni Venti e affidato alla penna superprofessionale di W. Somerset Maugham. Sarebbe uno dei suoi romanzi caustici, mondani, un po' cattivi. Ma Maugham, influenzato dalla lettura dell'episodio dantesco di Pia de' Tolomei, pensa di aggiungervi qualcosa in più." (Giorgio Montefoschi)
Che cosa significa essere un asceta indù o una prostituta sacra, un mistico sufi o un tantrista necromante nell'India dei computer e dei centri commerciali? Nove vicende e nove: come il monaco buddhista che imbraccia le armi per difendere il Tibet dall'invasione cinese, salvo trascorrere il resto dell'esistenza stampando bandiere di preghiera per espiare le violenze commesse; la guardia carceraria del Kerala che ogni anno abbandona per due mesi la sua prigione e diventa un danzatore di theyyam, ospitando nel proprio corpo una divinità e diventando così oggetto di venerazione; la monaca jaina che accudisce impassibile l'amica mentre questa si lascia morire ritualmente di inedia, per poi scoprire di non poter vivere senza di lei, e decidere quindi di seguirla sulla medesima via. Nove vite sospese tra fragilità umana e convinzioni incrollabili, che Dalrymple racconta nell'unico modo possibile, o forse solo nel più efficace: calandosi al loro interno fino ad ascoltarne - e restituirne - la voce inconfondibile.
Questo libro avrebbe dovuto chiamarsi "War in Abyssinia". Buon titolo: asciutto, fattuale, esotico. Dell'Abissinia nel 1935 nessuno sapeva nulla, anche se il paese era l'unico stato africano cooptato nella Lega delle Nazioni e il suo giovane despota era un pupillo dei media - Uomo dell'Anno per "Time". Ma adesso di quell'immensa piantagione di caffè stava per impadronirsi l'ultima arrivata nel circolo delle potenze coloniali: sì, la Grande Proletaria di Mussolini si preparava a invadere, e per ciò stesso a scatenare, nei timori di molte cancellerie, un conflitto globale. Ottima ragione per spedire sul posto un esercito di inviati - pericoloso quanto e più di quelli in armi, però, specie se forzato all'inazione. I centocinquanta embedded al seguito dell'esercito italiano erano infatti costretti a passare le veline dello Stato Maggiore, o riferire voci incontrollabili (i duemila morti nel bombardamento d'Adua, che a villaggio raggiunto si sarebbero rivelati sei). Quanto a quelli aggregati agli etiopi, se ne occupava un irreprensibile addetto stampa indigeno, che fin dal primo giorno aveva promesso notizie di due soli tipi: false, o tendenziose. Dopo qualche settimana gli inviati erano accampati in pianta stabile ai tavolini da bridge. Tutti, tranne il corrispondente dello "Evening Standard", Evelyn Waugh. Povero Waugh, mette a segno addirittura uno scoop, e ne è talmente geloso da scrivere il pezzo in latino, certo che i colleghi non lo mastichino. Così in effetti è...
A una cena ufficiale, circostanza che generalmente non si presta a un disinvolto scambio di idee, la regina d'Inghilterra chiede al presidente francese se ha mai letto Jean Genet. Ora, se il personaggio pubblico noto per avere emesso, nella sua carriera, il minor numero di parole arrischia una domanda del genere, qualcosa deve essere successo. Qualcosa in effetti è successo, qualcosa di semplice, ma dalle conseguenze incalcolabili: per un puro accidente, la sovrana ha scoperto la lettura di quegli oggetti strani che sono i libri, non può più farne a meno e cerca di trasmettere il virus a chiunque incontri sul suo cammino. Con quali effetti sul suo entourage, sui suoi sudditi, sui servizi di security e soprattutto sui suoi lettori lo scoprirà solo chi arriverà all'ultima pagina, anzi all'ultima riga.