
Ai suoi dodici figli Licurgo Caminera ha dato soltanto nomi presi dalla mitologia greca. I maschi li ha chiamati Ulisse, o Achille, o Ettore; le femmine Penelope, o Antigone, o Elena. Adesso, nel momento in cui capisce che sta per morire, i sei sopravvissuti ai «venti maligni» delle malattie infantili li vuole tutti intorno a sé. Perché il vecchio contadino anarchico con la passione per la letteratura classica desidera morire come morivano i patriarchi del mondo antico: affidando a chi resta non tanto i beni materiali accumulati in vita – oro, greggi, poderi –, ma le parole di una saggezza ancestrale, destinate a rappresentare, per chi resta, il retaggio più prezioso. Ai figli Licurgo consegna dunque sei buste, in ognuna delle quali c’è una parte del racconto che per anni lui ha scritto, di nascosto, per sé e per loro: dopo la sua morte i sei fratelli dovranno leggerlo gli uni agli altri ad alta voce, perché questo, e solo questo, è il modo in cui il vecchio vuole essere commemorato. A mano a mano che le buste verranno aperte, scopriremo anche noi, con lo sguardo stupefatto dei bambini che ascoltano una fiaba, la storia del bastone dei miracoli (che dà a chi lo possiede la buona morte, ma soprattutto la perigliosa facoltà di conquistare potere e ricchezze) e di Paulu Anzones, noto Muscadellu, che uccide il suo amante e ne sposa la sorella, e le fa fare un figlio con un altro uomo, e per mano di questo figlio troverà una morte atroce… Alla vicenda di Muscadellu e del suo funesto bastone, però – come sanno bene i tanti, appassionati lettori di Niffoi –, si intrecciano molte altre storie: storie di violenza e d’amore, di amicizia e di sangue, di dolore e di festa, che vanno a comporre un ennesimo, magnifico affresco, cupo e sfolgorante al tempo stesso, di vita barbaricina.
Il mondo eccessivo, feroce e comico dei modi di dire barbaricini.
«Vrades pro sempere!», fratelli per sempre: questo si giurano Zosimo e Nemesio il giorno in cui quest’ultimo lascia il paesino di Crapiles per andare a iscriversi all’università. Zosimo, che a Crapiles ci è nato, rimarrà a fare il pastore: come suo padre, come il padre di suo padre. Sebbene così diversi, i due ragazzi sono stati amici dal giorno in cui la famiglia di Nemesio è arrivata in paese dal «continente». Ed è stato proprio il piccolo forestiero, coi riccioli che sfuggivano da sotto il cappello foderato di pelliccia e «due occhi color prugna acerba», a staccare da una grondaia una lunga «spada di ghiaccio», a spezzarla e a regalarne una metà a Zosimo, che lo guardava stupefatto: «Questa è la spada del generale inverno,» ha dichiarato con la serietà di cui sono capaci i bambini «che si divide solo con un nuovo amico!». Da quel momento sono stati inseparabili: Zosimo ha portato Nemesio a casa sua, dove lo hanno accolto come un figlio, gli ha insegnato a mangiare formaggio di pecora con il pane crasau, e a cercare nei boschi i nidi dei colombacci. Nessun dubbio, nessun sospetto, nessun cattivo pensiero può scalfire nell’animo puro di Zosimo l’amore per l’amico. Così come nessuna malalingua potrebbe gettare un’ombra su quello per la bella Columba, di cui fin da piccolo è innamorato e che sta per diventare sua moglie. Dopo la partenza di Nemesio le loro strade si divideranno, ma solo per tornare a incrociarsi molti anni dopo: e allora, cadute le maschere, scoppierà il dramma.
In questo romanzo Niffoi ci racconta con mano sicura una vicenda di amore e di amicizia che conferma le sue straordinarie doti di narratore di storie, anzi, di vero e proprio cantastorie: uno di quelli ancora capaci di incantarci con una fantasia lussureggiante – e con la musica di una lingua potentemente suggestiva.
Ne ha sempre avuti parecchi di guai, Antoni Sarmentu. Prima e dopo quel terribile giorno di settembre in cui salì al santuario della Madonna di Gonare a chiederle la grazia di trovare un marito per la figlia e di fermare il tumore che gli stava consumando la moglie. D'improvviso, al momento della comunione, cominciarono a cadere chicchi di grandine grossi come ghiande, e un fulmine penetrò nella chiesa e colpì proprio lui, Antoni, riducendolo come "uno stoppino bruciato" e lasciandogli, al posto della filigrana dorata della catenina di battesimo, "un sottile ricamo alla base del collo". Da quel giorno a Oropische tutti lo chiamarono Collodoro. Ma il fulmine (o forse la Madonna stessa) gli aveva lasciato un altro dono, più inquietante e più segreto: il temibile potere di guardare dentro la testa della gente, e di vedere i loro peccati. A cominciare da quelli del parroco, don Basiliu, che di tutti i peccatori del paese era il più abietto e il più infido. Ma il giorno di Ferragosto, ventiquattr'ore prima dell'esproprio delle terre di Monte Piludu, l'intero paese si metterà in marcia contro funzionari, carabinieri, speculatori. E sarà una battaglia memorabile.
A Pirocha, come in tutta l'isola di Degnasàr e come nell'intero pianeta, non piove più da molti mesi. I pozzi gorgogliano ultimi lamenti, i fiumi espongono scheletri di sassi bianchi, i mari iniziano ad evaporare. In questo mondo riarso la vita resta sospesa sotto un sole implacabile. Persino Filò, prostituta-intellettuale di Pirocha, che su questo Dio distratto e sordo alle suppliche ha maturato una teoria tutta sua, resta senza lavoro. Poi, un giorno, la pioggia spezza la maledizione. Un'euforia matta prende tutti, restituiti alla vita. Però è un preludio di diluvio: peggio dello scampato deserto. Cinque donne, le prescelte visitate dal colombaccio messaggero, Filò in testa, attraverseranno lo sconquasso, temendo l'ultimo inverno del mondo, per trovare rifugio nel monastero cistercense di Taladdari, abbandonato e solitario sulla montagna, ma già covo di banditi sanguinari. Attenderanno una primavera che fiorisca dal fango, e sarà forse un'altra infanzia del mondo. Con un problema: la procreazione della specie, e chissà se a valle non si trovi una possibilità: un Adamo sopravvissuto al cataclisma.
Ma perché mai, dopo tanti anni passati in continente, Carmine Pullana era tornato al paese? Per scoprire, innanzitutto, che cosa era successo la notte in cui negli stagni davanti a Baraule era stato trovato il corpo straziato di Sidora Molas e nella rete di Martine Ragas, noto Polifemo, era rimasta impigliata "quella cosa informe che sembrava un coniglio scuoiato, una spugna rossa inzuppata di sangue", e invece era un neonato...