
Negli anni del suo apprendistato letterario Simenon sfornava a un ritmo forsennato romanzi popolari, molti dei quali ambientati in luoghi esotici a lui del tutto ignoti, con il solo aiuto di un mappamondo e di un'enciclopedia. Il mondo che creava era bello, perché, dichiarerà in seguito, era "artificiale". Un giorno, però, gli viene voglia di vedere com'è fatto davvero, il mondo. Cominciando dall'Africa. Si imbarca quindi, insieme all'inseparabile Tigy, per Il Cairo, da dove raggiunge Assuan; da lì sorvolerà il Sudan, per poi discendere il Congo fino a Kinshasa, e sulla via del ritorno fare scalo a Port-Gentil, Libreville e Conakry. Solo dopo essere rientrato in Francia ricaverà da questo lungo viaggio i reportage qui raccolti nei quali non solo non indulge all'esotismo, ma soprattutto assume un tono di denuncia che a molti, all'epoca, farà storcere il naso. "L'Africa ci manda al diavolo" scrive Simenon "e fa bene!". Quello che ha visto non gli è piaciuto affatto anzi, il più delle volte lo ha profondamente disgustato. Certo, alcuni degli aneddoti che racconta con la verve che gli conosciamo, lo hanno stupito, a momenti anche divertito; e, con quella voracità impudica che è nella sua natura, non ha perso occasione di scattare fotografie (più di settecento). Tuttavia non nasconde in alcun modo il fondo più torbido e atroce della realtà coloniale; né il disprezzo che i bianchi nutrono nei confronti dei neri, né lo sfruttamento e la violenza di cui questi sono vittime né tantomeno il sordido abbrutimento dei coloni stessi, che Simenon descriverà, a caldo, in quel formidabile romanzo che è "Colpo di luna".
I testi qui raccolti ci offrono il privilegio raro di penetrare nel laboratorio di Cioran e di assistere, per così dire in presa diretta, al distillarsi del suo pensiero. Scopriamo così come il Cioran degli inizi, più lirico, più «scarmigliato», «più apertamente provocatorio», arrivi alla folgorante condensazione del frammento. «Gli Esercizi negativi mostrano l’"esplosione" vissuta e il lento lavoro di rifinitura dello stile» osserva Ingrid Astier, e basterà scorrere anche solo i titoli di alcuni capitoli - «L’assoluto e le sue caricature», «L’improbabile come salvezza», «Il suicidio come strumento di conoscenza», «Tra Dio e il verme», «Del solo modo di sopportare gli uomini» - per cogliere la forza dirompente di un libro dal quale non si esce indenni. Perché «un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle. Un libro deve essere un pericolo», affermerà molti anni più tardi lo stesso Cioran, svelando l’intento profondo di queste pagine, che alla minaccia dell’accecamento preferiscono la lucidità dell’insonnia.
La scienza del XX secolo ha modificato per sempre la nostra comprensione della realtà, anche se siamo ben lontani dal poter affermare che questa realtà abbia un senso (forse non accadrà mai). Eppure, è grazie alla meccanica quantistica che il pensiero può dirsi per la prima volta libero di percorrere strade veramente ignote. A coltivare quello shock permanente, fatto di «stupore e vertigine», è Carlo Rovelli che, dalle "Sette brevi lezioni di fisica", con leggerezza si muove fra gli abissi speculativi della relatività quantistica, senza paura di toccarne il fondo - anche perché quel fondo, secondo lui, non esiste. «Elettroni e mente, sassi e leggi, giudizi e galassie non sono di natura essenzialmente diversa gli uni dagli altri. Sono nozioni che si illuminano a vicenda». Di questo continuo gioco di specchi è fatto il mondo, e per comprenderlo in tutta la sua complessità, per vederne la coerenza e «sentire che è la nostra casa», scrive Rovelli, bisogna fare un salto ulteriore e accogliere l’incertezza che è al cuore della conoscenza, quella che porta all’«eguaglianza di tutte le cose». Come il personaggio di un racconto del Zhuangzi - uno dei grandi libri dell’antichità - che dopo aver sognato di essere una farfalla «svolazzante e soddisfatta della sua sorte» non sa più se è stato lui a sognare la farfalla o è la farfalla a sognare lui.
«Per anni ha scritto delle critiche sui giornali, senza cavarne altro che inimicizie ed errori tipografici» ha detto di sé Flaiano nel 1946. In realtà, dopo aver imparato il mestiere sul campo - tanto che, ricorda, circolava la frase «Questi giovani si fanno una cultura sui propri articoli» -, è stato, a partire dal 1939, un recensore cinematografico acuto e beffardo, pacato e intransigente, raffinatissimo dietro lo schermo della nonchalance, sempre ostile alle falsità e alle insulsaggini: a tutti quei film, insomma, che «presuppongono, di regola, un pubblico eccessivamente tardo di comprendonio» o che «rendono confortevole l’esistenza, allo stesso titolo dei treni rapidi, delle automobili, dei termosifoni». A suscitare l’entusiasmo di chi, come lui, conosceva intimamente il lavoro di soggettista e sceneggiatore (basti pensare alla prodigiosa e tormentata collaborazione con Fellini), e andava al cinema per sgranchirsi «l’immaginazione e la visione morale del mondo», erano piuttosto film come Verso la vita di Renoir, Ombre rosse di Ford o Monsieur Verdoux di Chaplin, «in cui tutto porta il marchio così semplice e raro del genio». Non solo: in un paese dove è lecito essere anticonformisti solo «nel modo giusto, approvato», Flaiano ha saputo esserlo sino in fondo, come dimostra l’irresistibile giudizio riservato a Orson Welles: «i suoi personaggi appartengono a quella categoria che mangia il pollo con le mani non per maleducazione, ma per eccesso di carattere, per prepotenza di immaginazione e di volontà!».
«La mia ombra è come un buffone / dietro la regina...» ha scritto la Szymborska, un buffone che si è preso «corona, scettro, manto regale», ma anche il «pathos». La gravità, la profondità esigono lo schermo della discrezione, della leggerezza giocosa, dell'ironia. Non a caso, in questa strepitosa silloge di testi inediti - fortunatamente sfuggiti al cestino della carta straccia, per la Szymborska la più utile suppellettile di un poeta -, la sua musa, quando si manifesta, sembra arrancare «per le scale, ansimante / ... in scarpette ormai misere», ispirandole una sorta di metafisica del minimo: in particolare una toccante sintonia con gli oggetti, protagonisti fra l'altro di dieci favolette morali irridenti e beffarde. Eppure la musa della Szymborska è anche austera, intransigente, e non esita a metterci di fronte alla nostra fragilità, alle nostre assurde fedi: solo, lo fa a modo suo, trasformando per esempio l'insignificante congiunzione e nell'emblema di tutto ciò che non può durare in eterno: «Teresa Piotr, mi fate compassione, / nella selva del mondo il tempo a ogni occasione / accende come a San Giovanni un fuoco / e voi dovete scavalcarlo per gioco. ... ditemi quali sono i vostri nomi. Teresa e Kazimierz. / Piotr e Weronika. // Teresa Kazimierz Piotr Weronika».
Inaudita e ingannevole è la presenza di Dioniso, il nemico dei tessitori, il dio che scioglie e dissolve, «la cui manifestazione trascina gli umani alla pazzia». Attraverso pagine dense e affascinanti, Otto ci conduce alla scoperta di un dio straordinario, e, come già Nietzsche prima di lui, si fa esegeta della complessità dionisiaca per cristallizzare quell'irriducibile singolarità che è stata la forma greca del divino. Da semplice opposto della ragione, l'irrazionale assume nella lettura di Otto l'aspetto di Dioniso stesso, in cui la contraddizione è duplicità sensibile e piena di senso. E in quella che emerge come tesi portante, fra le più sorprendenti, del libro, Dioniso si rivela un dio genuinamente greco - non proveniente dall'Asia Minore come spesso ipotizzato -, dunque piena espressione di quel «divino grecamente sperimentato» che, secondo Otto, rappresenta «un'eccezione nella storia dell'umanità».
Nella primavera del 1928 Georges Simenon (che ha appena compiuto venticinque anni e ne ha già abbastanza della vita mondana che conduce a Parigi) si compra una piccola barca, la Ginette (lunga quattro metri e larga poco più di uno e mezzo), e parte, in compagnia della moglie Tigy, della domestica (e ben presto amante) Boule e del cane Olaf (un danese sui sessanta chili), per un viaggio attraverso i fiumi e i canali della Francia che durerà ben sei mesi: durante i quali gli capiterà di dormire sotto una pioggia sferzante, o di sguazzare nel fango, o di cercare di arrivare davanti alle chiuse prima delle grandi chiatte tirate dai cavalli, o di manovrare tra rocce a pelo d'acqua... Tre anni dopo, il settimanale «Vu» gli commissionerà quello che diventerà il suo primo reportage: insieme a un giovane fotografo di origine ceca, Hans Oplatka, Simenon ripercorrerà, in macchina questa volta, la «vera Francia», e tornerà a casa con un bottino di duecento fotografie. Solo una decina illustreranno, su «Vu», il racconto dell'esaltante navigazione a bordo della Ginette, ma in questo volume il lettore ne troverà molte di più; e scoprirà che senza quell'«avventura tra due sponde» non esisterebbero romanzi come Il cavallante della «Providence», La balera da due soldi, La chiusa n. 1 - per non parlare di tutte le locande in riva a un fiume dove il commissario Maigret, nel corso di un'inchiesta, va talvolta a trascorrere un paio di giorni, occasionalmente in compagnia della sua signora, fingendo a malapena di essere lì per rilassarsi.
Che la Qabbalah sprigioni un fascino difficilmente spiegabile è fuori di dubbio: chiunque entri in contatto con essa si sente interpellato, come se quelle oscure dottrine non aspettassero altri per sciogliere gli antichi nodi dell'irradiazione divina. Un fascino cui non hanno potuto sottrarsi molti lettori cristiani - da Giovanni Pico della Mirandola ai platonici rinascimentali, da Knorr von Rosenroth a Isaac Newton, dagli alchimisti ai «fratelli muratori» -, che con i dogmi segreti della mistica ebraica hanno avvertito una profonda affinità. Massimo studioso della Qabbalah, Gershom Scholem non ha mancato di dire la sua su questa robusta corrente del pensiero europeo. Persuaso com'era che la Qabbalah fosse la quintessenza dell'ebraismo, Scholem ha tentato di denunciare la sua versione cristiana come illegittima, frutto di un malinteso o di una frode, giungendo tuttavia a riconoscere, alla fine della vita, che la passione per quegli insegnamenti esoterici era stata accesa in lui proprio dalla lettura di un cabbalista cristiano. E così, nei tre illuminanti saggi qui raccolti, non solo troveremo una storia di quel pensiero sotterraneo, ma potremo anche scorgere in filigrana una riluttante autobiografia.
Nel romanzo di Sarban "Il richiamo del corno", un ufficiale della Marina britannica sperimenta l'incubo di risvegliarsi in un mondo nazificato, dove i prigionieri-schiavi sono selvaggina per la caccia di un feroce sovrano: un'allarmante rappresentazione della storia come avrebbe potuto svolgersi - o ucronia, come l'ha definita nel 1876 Charles Renouvier. Che nasca dal rimpianto o dalla ribellione, da un credo filosofico-religioso o dall'attrazione per gli infiniti possibili, ogni opera ucronica è destinata a falcidiare certezze, a dinamitare la nostra visione del mondo, giacché insinua il dubbio che la storia sia un gigantesco trompel'oeil e che anche la più confortante realtà possa di colpo vacillare, spalancando abissi angosciosi. A questo sovversivo genere letterario, cui lo lega una tenace passione, Emmanuel Carrère ha dedicato una seducente riflessione che, oltre a ripercorrerne le tappe salienti, ne addita le sconcertanti implicazioni: i regimi totalitari non hanno del resto adottato la tecnica ucronica per imporre una storia controfattuale? Ma c'è di più: proprio quando sembra rivestire i panni del teorico sottile e distaccato, Carrère ci trascina nel laboratorio da cui sono nati "I baffi" e "L'Avversario", dove vite parallele e alternative sgretolano quella fragile costruzione che è la nostra identità. E ci svela che, dalle più innocenti rêverie retrospettive fino alle devianze che sogniamo o paventiamo, l'ucronia è sempre dentro di noi.
Nell'ottobre del 1945 Georges Simenon sbarca a New York, ansioso di lasciarsi alle spalle le turbolenze degli anni di guerra, le accuse di collaborazionismo e le minacce di epurazione. Con la moglie Tigy e il figlio Marc si stabilisce in Canada, nel Nouveau-Brunswick - ma è agli Stati Uniti che guarda. E, per conoscere meglio il paese dove comincerà una nuova vita, parte al volante di una Chevrolet per un viaggio di cinquemila chilometri, che dal Maine lo porterà sino a Sarasota, sul Golfo del Messico. Ad attirarlo, come sempre, non sono le città - anche se confesserà che a New York si sente perfettamente a suo agio -, ma la gente e «i piccoli particolari della quotidianità»: tutto ciò che può offrire ai suoi lettori «un'immagine più intima» degli Stati Uniti. Lui che aveva sempre captato, ovunque nel mondo, un disperato e insoddisfatto bisogno di dignità, finirà per essere conquistato dalla «forte tensione verso l'allegria e la gioia di vivere» che sprigionano le semplici ed essenziali case americane, dalla cordialità (o meglio: la familiarità) che regola i rapporti di lavoro, dalla fiducia in sé stessi che le scuole sanno inculcare negli studenti, dalla squisita cortesia degli abitanti del Sud - che nelle relazioni mettono «quel qualcosa di impercettibile e affascinante» che rende tanto preziosa l'esistenza - e scoprirà che proprio qui, nella sua nuova patria, vige «un tipo di vita che... tiene conto più di qualsiasi altro della dignità dell'uomo». Traduzione di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio. Con una Nota di Ena Marchi.
Nel 1871 Auguste Blanqui, «l'eterno cospiratore», sta scontando l'ennesima pena detentiva di una vita trascorsa per metà in carcere. Questa volta, per impedirgli qualsiasi contatto con la Comune che sta infiammando Parigi, lo hanno trasferito nel remoto Fort du Taureau, in Bretagna, dove è sottoposto a una reclusione tra le più dure, in totale isolamento. E tuttavia, pur in condizioni estreme, Blanqui riesce a scrivere e a far arrivare all'esterno, eludendo la censura, il testo di quello che sarà il suo primo libro, pubblicato l'anno successivo a Parigi. Ci si aspetterebbe, dall'ormai vecchio rivoluzionario, un pamphlet politico. E invece quello che Blanqui ha meticolosamente composto nella sua cella è un visionario trattato di «astronomia metafisica», uno scritto insieme scientifico, poetico e filosofico, che avanza un'ipotesi vertiginosa: «Ogni astro, qualunque esso sia, esiste dunque in numero infinito nel tempo e nello spazio, non soltanto sotto uno dei suoi aspetti, ma quale si trova in ognuno degli istanti della sua vita, dalla nascita sino alla morte. Tutti gli esseri distribuiti sulla sua superficie, grandi o piccoli, viventi o inanimati, condividono il privilegio di questa perennità». Ogni uomo, così, «possiede nello spazio un numero infinito di doppi che vivono una vita tale e quale la sua». Il lettore rimarrà sbalordito nel constatare, come già fecero Benjamin e Borges, che questo piccolo libro anticipava i concetti alla base dell'eterno ritorno di Nietzsche, ma in una dimensione, notava ancora Benjamin, di malinconia baudelairiana. Perché nel 'multiverso' di Blanqui - vicino a quello di certe attuali teorie cosmologiche - ogni prospettiva di «progresso» fatalmente si rivela illusoria. Con un saggio di Ottavio Fatica.
Il Teorema di Pitagora riassume in modo esemplare le proprietà uniche ed esclusive dell'angolo retto. Nella tradizione è legato al demone divino del filosofo di Samo, ma risale in realtà a tempi remoti ed è patrimonio comune di diverse culture. Ripresentandosi regolarmente in formalismi complessi, questo celeberrimo Teorema si è rivelato una delle acquisizioni stabili e irrinunciabili della matematica, che continua a servirsene anche nelle sue tecniche avanzate. Ma se da un lato esprime aspetti essenziali del pensiero antico, dall'altro offre un osservatorio privilegiato per scoprire come il calcolo moderno ha provveduto a rimuovere con ogni cura i motivi religiosi e filosofici che hanno segnato la sua origine. La conseguenza di questa rimozione è la rinuncia a una sfera più ampia dell'esattezza, e a quel mondo ideale che per Hermann Weyl ne costituiva l'intimo cuore. Un cuore che questo nuovo, acuminato libro di Paolo Zellini ci permette di avvertire nelle sue pulsazioni più segrete.
Nel maggio del 1940, Anna Maria Ortese incontra a Bologna Marta Maria Pezzoli, giovane studentessa universitaria che gli amici chiamano Mattia. Nasce fra loro un'intesa, un'intimità che, come precisa la Ortese, è tenerezza di sorelle: «Ti sono così grata di essermi vicina in questo tempo difficile - sola sorella». Una tenerezza tanto più intensa in quanto fondata sulla dissimmetria: Mattia è malinconica, sollecita, assidua, percettiva, Anna Maria mutevole, tempestosa, non di rado silente, caparbiamente intenta a coltivare la sofferenza, sua «vera patria», a trasformarla in conoscenza, a trasfonderla in un lavoro che pure reca con sé dubbio e tormento: «Non ho sete che di gioia, di luce, d'amore. E tutto questo non c'è, fra le carte. Scrivere, è uguale al canto raccolto e disperato del mare, nelle insenature segrete. È il rifugio triste, non è la vita. Vorrei essere dove voi tutti siete» - ma capace anche di trasmettere all'amica la sua irrequietezza visionaria, in lettere di fiammeggiante bellezza. A cura di Monica Farnetti. Con una Nota di Stefano Pezzoli.
Tutti gli scritti di Kafka sono attraversati dalla presenza del Nemico. Ma il suo nome si dichiarò soltanto alla fine, nei tre lunghi racconti di animali - Ricerche di un cane, Josefine la cantante o il popolo dei topi, La tana - che hanno scandito gli ultimi mesi della sua vita, chiudendola come un sigillo. Non si trattava di un tribunale ubiquo e ferreo, come nel Processo, né di un'autorità avvolgente, che poteva attirare a sé e al tempo stesso condannare, come nel Castello. Ma di animali dispersi e brulicanti, sopra e sotto la superficie della terra. Erano diventati gli unici interlocutori di colui che narrava. Come se Kafka fosse voluto scendere in uno strato più largo di ciò che è, là dove gli uomini possono essere una presenza superflua. A quel luogo - separato dal mondo ma da sempre già presente - e al suo ideatore è dedicato questo libro, che è insieme la via più diretta e labirintica per raggiungerlo.
«Non lo so se l'idea che i buchi neri finiscano la loro lunga vita trasformandosi in buchi bianchi sia giusta. È il fenomeno che ho studiato in questi ultimi anni. Coinvolge la natura quantistica del tempo e dello spazio, la coesistenza di prospettive diverse, e la ragione della differenza fra passato e futuro. Esplorare questa idea è un'avventura ancora in corso. Ve la racconto come in un bollettino dal fronte. Cosa sono esattamente i buchi neri, che pullulano nell'universo. Cosa sono i buchi bianchi, i loro elusivi fratelli minori. E le domande che mi inseguono da sempre: come facciamo a capire quello che non abbiamo mai visto? Perché vogliamo sempre andare a vedere un po' più in là...?» (l'autore)
Oriente e Occidente. «Questo incontro», scrive Ernst Jünger in apertura del suo Nodo di Gordio, non soltanto occupa una posizione di primo piano fra gli avvenimenti mondiali, ma «rivendica di per sé un'importanza capitale. Fornisce il filo conduttore della Storia». Un incontro, tuttavia, che nella storia si è spesso trasformato in scontro: «Con tensione sempre rinnovata i popoli salgono sull'antico palcoscenico e recitano l'antico copione. Il nostro sguardo si fissa soprattutto sul fulgore delle armi che domina la scena ». Sono pagine apparse per la prima volta nel 1953, ma sembrano scritte oggi - mentre divampa più che mai la lotta planetaria tra l'Occidente globale liberaldemocratico e l'Oriente dello Stato totale. Ma per Jünger il nodo Oriente-Occidente è una polarità elementare, archetipica, simbolica, che contrassegna in modo costante l'umanità intera nella sua sostanza, e ogni singolo uomo nella sua anima. È l'opposizione tra mythos ed ethos, potere tellurico e luce, dispotismo e libertà, arbitrio e diritto. Una visione che non poteva trovare perfettamente concorde l'amico Carl Schmitt, che due anni dopo l'uscita del Nodo di Gordio replica con uno scritto in cui a quell'archetipica polarità sostituisce la contrapposizione fra terra e mare: da una parte il mondo continentale dell'Oriente (Russia e Asia, ovvero il nomos), dall'altra il mondo marittimo dell'Occidente (Inghilterra e America, ovvero la techne). Nel mezzo, l'Europa. E i due ritroveranno un'intesa nel prefigurarla quale «centro di gravità», capace di favorire, come Terza Forza, «l'unità del pianeta».
È lo stesso commissario Maigret, nelle sue Memorie, a raccontare (in una esilarante mise en abyme) come gli era capitato di far visitare i locali della Polizia giudiziaria a uno scrittorello dotato di «giovanile sfrontatezza», tale Georges Sim. Nella realtà fu Xavier Guichard, che ne era il direttore, a proporre, all'inizio degli anni Trenta, a un Simenon che di Maigret ne aveva già pubblicati una mezza dozzina, di trascorrere qualche giorno al Quai des Orfèvres: giusto per rendere più verosimili il suo personaggio e l'ambiente in cui si muoveva. Lui non se lo fece ripetere due volte e ne approfittò anche per scrivere una serie di articoli. Tuttavia, poiché (come il lettore ha già potuto constatare nei tre precedenti volumi dei reportage) non di rado il romanziere eclissa il giornalista, non solo Simenon annota spunti per i suoi futuri romanzi, ma si toglie lo sfizio di raccontare celebri inchieste, casi giudiziari clamorosi, aneddoti singolari. Dai quali emerge anche uno spaccato della Parigi dell'epoca, con la fauna dei suoi quartieri malfamati, gli immigrati delle periferie, i ricchi borghesi delle strade eleganti, i piccoli artigiani degli arrondissement più poveri: una Parigi che già allora cominciava a cambiare profondamente - e che oggi è quasi del tutto scomparsa. Così com'è scomparsa quella polizia di cui Simenon ci mostra all'opera gli ultimi esemplari, e della quale non nasconde di rimpiangere i metodi sbrigativi ma efficaci. Con una Nota di Ena Marchi.
Alla propria «autobiografia mentale» Croce ha dedicato, oltre al Contributo alla critica di me stesso, numerosi luoghi delle sue opere, della corrispondenza e, soprattutto, del diario che per oltre quarant'anni ha tenuto nell'austero intento di «invigilare» sé stesso. Ritagliando da queste fonti i passi più rivelatori, con una finezza pari alla sua competenza, Giuseppe Galasso ha costruito un'antologia capace di farci vivere dall'interno l'ininterrotto dialogo che Croce ha intrattenuto con sé stesso e di svelarci così le ragioni profonde di un'attività tanto prodigiosa. Un'attività che nasce da un'intima tendenza per la letteratura e per la storia e che, dopo avergli consentito di superare gli anni dolorosi e cupi successivi alla scomparsa dei genitori e della sorella nel terremoto del 1883, varca i confini dell'erudizione per poi aprirsi alla vita politica e sociale. Anche di questo ruolo centrale sulla scena pubblica cogliamo qui i risvolti più personali e segreti: dall'«amaro compiacimento» che gli deriva nel 1925 - dopo il rifiuto di sostituire Gentile come ministro dell'Istruzione - dal «sentirsi libero tra schiavi», al senso di liberazione «da un male che gravava sul centro dell'anima» suscitato dall'arresto di Mussolini, sino all'emblematica confessione del 1951: «La morte ... non può fare altro che così interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare». Prefazione di Piero Craveri.
Quando, dopo la morte di Cioran, furono ritrovati i trentaquattro taccuini che per quindici anni aveva riempito con le annotazioni più disparate, si rimase sbalorditi di fronte a quell'imponente giacimento, raccolto poi in un libro, Quaderni, che leggiamo oggi come uno dei vertici della sua opera. A quel libro possiamo ora affiancare - e sarà come integrare in un mosaico numerose tessere mancanti - questa raccolta di frammenti rinvenuti nella Bibliothèque Doucet di Parigi. Risalgono alla metà degli anni Quaranta, e sono le ultime pagine che Cioran scrisse in romeno, quando già da sette anni si trovava a «muffire gloriosamente nel Quartiere Latino». E anche qui, tra schegge sulfuree, sentenze fulminanti, spietate dissezioni del proprio intimo, ci aggireremo nelle stanze più segrete di un pensiero in perpetua ebollizione - capace come sempre di trafiggere, con un colpo secco e preciso, tutto ciò che lo circonda: «L'imbecille basa la sua esistenza solo su ciò che è. Non ha scoperto il possibile, la finestra sul Nulla».
1185. Sulla via del ritorno dal pellegrinaggio alla Mecca, Ibn Jubayr, letterato musulmano di Spagna, scampato al naufragio dopo un periglioso viaggio per mare, approda in Sicilia, dove soggiornerà per oltre tre mesi prima di potersi imbarcare di nuovo per raggiungere la sua terra, al-Andalus. La più grande isola del Mediterraneo, a lungo provincia di Bisanzio, poi per circa duecento anni sotto dominio musulmano, da più di un secolo è governata dai cristiani Normanni. Palermo è la capitale del loro regno. Una terra di cui diffidare. Eppure, ciò che Ibn Jubayr vede contrasta in tutto con le sue aspettative. Degli eunuchi sono i grandi del regno, il personale di palazzo parla fluentemente l'arabo, le donne cristiane, il giorno di Natale, vanno in chiesa parate a festa come donne musulmane, e molto altro - verrà a scoprire via via - si nasconde dietro le apparenze. Piene di meraviglia, ma anche di inquietudine, timori e silenziosi interrogativi, le pagine del Viaggio in Sicilia riescono a trasportarci nel mondo mentale di un viaggiatore musulmano del XII secolo che, catapultato suo malgrado in una realtà estranea e nemica - ma dalle sembianze così sorprendentemente familiari -, cerca di darle un senso.

