
"Tutti sono borghesi", scrive Péguy. Non è una definizione sociologica né lo snobismo dell'intellettuale che ce l'ha col "piccolo borghese". Tutti sono borghesi nel senso che affidano la definizione di sé a fattori misurabili, ad elementi precisamente quantificabili: dal quoziente intellettivo al conto in banca, dagli (o dalle) skills professionali alle performance atletiche, dal numero di like ai metri quadri dell'appartamento. E così anche i rapporti interpersonali finiscono per soggiacere al metodo dello scambio di numeri, alla logica contrattuale: io ti do, tu mi dai. CՏ un fattore che pervade e lubrifica tutto questo ingranaggio quantitativo ed è, appunto, il denaro. L'unico modo per sgusciare via dalle tenaglie del denaro è il "rimanere nella povertà". Non ci è forse stato detto: "beati i poveri"? Certo "in spirito"; ma non vuol mica dire: nelle intenzioni, nell'intimo, nei desideri o negli impegni morali. Il povero è quello che sa che quel che ha - dalla vita agli amici, dai soldi al lavoro - gli è "dato" e lo usa, quindi, liberamente. E ne gode, come Francesco che sposa Madonna Povertà. "La libertà è la virtù del povero". Essa infatti è "la condizione irrevocabile della grazia", cioè della suprema gratuità da cui noi, poveri, riceviamo la vita e tutto quel che l'accompagna.
Di quanti scrittori un Sommo Pontefice ha detto: «Era più cristiano di me»? Forse nessuno, prima che papa Francesco lo dicesse di Charles Péguy. Chi era costui? Non proprio un Carneade: è stato studiato da centri universitari piccoli ma agguerriti, ripetutamente riproposto all'interno di importanti movimenti ecclesiali (ad esempio CL), rappresentato in circuiti teatrali di base. L'opera poetica di Péguy gode di una stabile presenza editoriale da decenni. Più difficile trovare in Italia la sua produzione saggistica: acutissima e nient'affatto superata analisi del pensiero «moderno». Questa ampia antologia, composta da traduzioni del tutto nuovo, vuol colmare tale lacuna. Prefattore: Julian Carron.

