Quale eredità ci ha lasciato Kant? A partire dai suoi primi scritti sino alle sue opere fondamentali, si delineano qui - e vengono discussi - i concetti chiave della sua 'filosofia pratica', e i loro effetti sino a oggi: pena, (doveri verso la) natura, dignità. Categorie che, se in Kant hanno una fondazione morale, si declinano anche in senso giuridico. È il caso emblematico della pena - oggetto del primo capitolo - con riferimento alla quale Kant, al di là degli scopi che con essa si possono perseguire, è alla ricerca di un principio di giustificazione. Centrale anche il rapporto fra l'uomo e la natura, indagato nel secondo capitolo. Di fronte alle sfide dello sviluppo e dell'ambiente, alle urgenze dell'ecosistema, paiono trasformarsi gli stessi termini in gioco: le teorie etiche che coinvolgevano il soggetto-uomo si estendono ora ad altri soggetti, agli animali e al pianeta. E che ne è della dignità umana? Il terzo capitolo evidenzia che l'attuale dibattito intorno a questo principio è certamente diverso da quello verificatosi nell'immediato dopoguerra. E tuttavia, ora come allora, se non basta il semplice ritorno a Kant per risolvere i problemi, il richiamo al 'nocciolo duro' della dignità, che consiste nel considerare l'uomo come 'fine in sé', può continuare a offrire un punto cardinale per orientarsi.
Questo libro, presentato per la prima volta al lettore italiano, è un classico per gli specialisti di Pascal e del XVII secolo. Nelle dense pagine di quest'opera, Jeans Mesnard offre una lettura dei Pensieri destinata a rimanere di riferimento, come strumento capace di perlustrare la ricchezza e la complessità - lungamente sottovalutate - dei famosi frammenti pascaliani.
Una delle difficoltà nella stesura della Biografia intellettuale di un filosofo si presenta nel tentativo di sistematizzare ciò che, per definizione, è in divenire: il pensiero. Quando però si cerca di ricostruirne l'evoluzione, nei suoi nodi teoretici frequentati per una vita, il modello biografico pare venir meno. È il paradosso del pensiero il cui movimento, in Ludwig Feuerbach (1804-1872) come perlopiù nelle menti speculative, si dà nel costante interrogarsi su un unico problema, nel suo caso sul rapporto filosofia/religione: un confronto di lungo periodo, che si dipana sotto il segno di vita, morte e immortalità; essenza, storia ed esistenza; individualità e empiria; uomo, natura e naturalismo. Temi, affrontati nei capitoli del volume, che prendono sul serio una problematica - l'essenza del cristianesimo - e ne diventano punti di osservazione, secondo un modello ermeneutico auspicato da Feuerbach medesimo, che fa del domandare l'essenza stessa della filosofia. Questa biografia riesce da una parte a restituire un volto complessivo di Feuerbach, con ampi riferimenti a lettere, scritti del periodo giovanile e inediti - risultato di uno studio più che trentennale e della consultazione del Nachlass -; dall'altra a metterne in discussione i punti teoretici più critici e le opinioni dominanti. Un'opera di riferimento per la storiografia, destinata a riscrivere la stessa interpretazione del filosofo tedesco.
L’estetica è una disciplina le cui categorie mutano al variare dei tempi e delle rispettive questioni filosofiche. Ecco perché non può essere sistematica: nella molteplicità delle forme dell’arte si riflette la pluralità delle sue prospettive. Queste pagine cercano di rendere tale complessità riformulando la riflessione estetica in tre interrogativi – cos’è arte, bellezza, immaginazione? – e affrescando itinerari per una sua definizione.
Di qui le tre sezioni del libro, con ricche introduzioni e testi commentati. L’arte: nell’antichità si declina come mimesis, in differenti accezioni – in Platone, Agostino, Aristotele, Plotino fino a Giordano Bruno. È la dialettica tra arte e verità, con le sue aporie, a divenire dominante nella modernità: l’arte ha sempre più a che fare con la verità che noi stessi siamo, diversamente declinata in Hegel, Schopenhauer, Schelling, Vico. L’età contemporanea coglie la differenza fra opera e rappresentazione: l’arte diventa enigma – un tema esplorato da Heidegger, Adorno, Merleau-Ponty.
La bellezza: se nell’antichità è sinonimo di equilibrio e perfezione (Agostino, Vitruvio, Platone, Plotino, Firenzuola), nel moderno richiama un modello di universalità (Kant, ma anche Burke, Baumgarten, Winckelmann, Hegel). Il contemporaneo invece rompe con il paradigma della “forma bella” (Baudelaire, Vigarello, Dostoevskij, von Balthasar, Danto) proponendo altri modelli: la bellezza dell’effimero, la bellezza artificiale.
L’immaginazione: è imitare immagini o produrne di proprie? È un concetto che oscilla tra phantasía e imaginatio, e muta da Aristotele, Plotino, Averroè e Marsilio Ficino fino ai moderni – Montaigne, Spinoza, Hume, Kant, Novalis – rovesciando il suo significato, nell’età contemporanea, da rappresentazione in irrealtà, creazione d’essere e potenza trasformatrice, con Ribot, Sartre, Jung, Bachelard, Foucault, Marcuse.
Rileggere i classici sotto la lente di queste categorie estetiche mostra come esse rimettano in gioco antiche questioni filosofiche: verità, rappresentazione, soggettività e intersoggettività.
"L'originalità (cioè la produzione non imitata) della immaginazione, quando sbocca in concetti, si dice genio […] inventare qualcosa è del tutto diverso da scoprire. Infatti la cosa che si scopre, si ammette già preesistente, solo che non era conosciuta. Ora il talento di inventare si chiama genio". Immanuel Kant
Nella nozione di genio - come ingegno o talento - si intrecciano l'universale e il particolare dell'esperienza umana. Muovendo da una riflessione filologica, Giampiero Moretti delinea l'andamento dall'antichità al secolo scorso, rilevandone le oscillazioni: genio è una facoltà ce ogni uomo possiede in quanto uomo o rinvia oltre; è comune a tutti gli uomini o è unica nel singolo? Se sempre più le funzioni della mente con cui si percepisce il mondo si traducono da sensi in senso e creatività, allora il genio ha per oggetto la verità o se ne sgancia? Un motivo di fondo che attraversa la storia dell'estetica e raggiunge la sua massima tematizzazione nel '700 e '800 come categoria estetica - si pensi a Kant, ove esso destina l'arte alla sua piena autonomia.
Ma l'originalità di questo volume sta nell'attraversare i principali paradigmi estetici e al contempo trascenderli in una stabilità del concetto che ne mostra la portata teoretica. In quanto forma con cui l'uomo si accosta alla realtà, il concetto di genio investe la stessa teoria della conoscenza. Un concetto intrinseco ai nodi diffondo della storia del pensiero: il problema della soggettività e oggettività, la verità, la rappresentazione, l'immaginazione. Questioni perenni della filosofia, sulle quali l'estetica ha un suo particolare sguardo.
E' possibile esaurire i dilemmi etici in un conchiuso sistema di definizioni astratte? E' evidente come essi prorompano quotidianamente proprio in questioni limite, nelle quali è sempre più difficile parlare di "verità" e di "valori". Ciò spinge l'autore a porsi una domanda radicale: se non si dà una visione metafisica unitaria del reale e quindi dei suoi fondamenti etici, come può declinarsi un'etica che non voglia liquidare la questione in senso puramente relativistico, ma che cerchi ancora un "dover essere" nel nostro stare al mondo?Si presentano qui i lineamenti per un'etica non astratta ma intrisa di verità r azione: fondata su un'oggettività normativa, come un'imperativo del nostro agire che interroghi anzitutto il soggetto quale fonte di azione e decisione morale e centro di relazione.
L'Ethica, l'opera di Spinoza che così profondamente ha segnato il pensiero contemporaneo, fu pubblicata postuma dai "suoi amici" proprio così come era stata lasciata per la stampa dallo stesso autore. Non è lecito chiedersi, una volta constatata la presenza di alcuni passaggi "anomali" nell'opera spinoziana, se gli stessi amici, dopo la scomparsa di Spinoza, siano intervenuti sul testo che il filosofo aveva apprestato. In altre parole, l'Ethica di Spinoza è a tutti gli effetti l'Ethica di Spinosa. Questi gli interrogativi sui quali si concentra il volume di Di Vona, scrutando l'uso delle categorie di Spinoza e sciogliendo le ambiguità mediante un'acuta analisi concettuale dei testi e un'indagine storico-filologica del pensiero spinoziano.
Il rapporto tra Sigmund Freud e la filosofia evoca uno dei temi, forse il principale, che testimonia l'intreccio costitutivo tra la psicoanalisi freudiana e l'universo della cultura, dei saperi umani, in cui gioca un ruolo centrale la tradizione filosofica. Freud stesso ne era consapevole, come attesta la sua autobiografia. Era chiaro a lui, e resta evidente per ogni studioso di Freud, che attraverso quella relazione si torna a definire la fisionomia specifica del conoscere e del pensare psicoanalitici in quanto scienza, oltre che del pensare in quanto tale. L'originalità di questa prospettiva è esaminare il confronto costante che Herbert Marcuse, Jean-Paul Sartre, Jacques Derrida, Jürgen Habermas, Ludwig Wittgenstein hanno istituito tra il proprio pensiero e la psicoanalisi freudiana, e rilevare quali suoi aspetti di volta in volta sono stati utilizzati 'per la filosofia'. Se il primo passaggio di questa storia è costituito dal distacco della psicoanalisi dalla psicologia di Franz Brentano, maestro viennese del giovane Freud, il tema filosofico decisivo della contaminazione reciproca di psicoanalisi e filosofia è la nozione di pulsione. Si delinea qui uno stile nuovo del pensare filosoficamente la psicoanalisi.
Questo corso di Istituzioni di Filosofia, pubblicato in forma di dispensa nel 1968, rappresenta uno degli ultimi momenti dell'insegnamento di Emanuele Severino all'Università Cattolica di Milano, dalla quale si allontanerà nel 1970 per passare all'Università di Venezia. È un ciclo di lezioni contemporaneo alla stesura dei saggi Il sentiero del Giorno (1967), La terra e l'essenza dell'uomo (1968), Risposta ai critici (1968), in cui Severino approfondisce la svolta iniziata con Ritornare a Parmenide, e che culminerà con la raccolta di questi e altri saggi nel libro Essenza del nichilismo (Paideia, 1972). Ripensando a queste lezioni, Salvatore Natoli, allora assistente di Severino, ha scritto: "Severino [...] mi ha costretto a dare consistenza alle mie argomentazioni filosofiche, a fornire giustificazioni adeguate alle mie tesi e direi che mi ha definitivamente vaccinato dai vizi delle mode filosofiche". Rigore dell'argomentazione e attenzione al variare del significato delle categorie e dei problemi costitutivi della filosofia (identità, contraddizione, dialettica, verità, realismo, idealismo...): questo in sintesi il contenuto del libro.
Una riflessione sul tema del "ritorno della religione" nella scena pubblica. I contributi affrontano i rapporti tra religione,secolarizzazione e politica offrendo un panorama assai ampioe articolato. Si tratta di un omaggio a un maestro della filosofia italiana:Piergiorgio Grassi, direttore di "Hermeneutica" e ordinario diFilosofia delle Religioni presso l'Università di Urbino.
Partendo dall'idea di storicismo, religiosamente laico, critico e problematico, come tentativo di individuare una nuova razionalità, che, senza etica ripugnanza per il tema della "relatività", sia capace di intendere lo spazio autonomo del molteplice come "connessione" e "relazione", processo di universalizzazione dell'individualità, la "religione dello storicismo" si afferma in queste pagine come un originale paradigma della filosofia della religione. Una concezione inquieta e inquietante, rigorosamente anti-fondamentalistica perché affidata alla responsabilità dei soggetti, alla forza etica del loro irresistibile tendere oltre, sempre dinanzi al rischio della spietatezza della storia da essi stessi costruita. "Evacuata est crux Christi". Il libro, dopo un preliminare tentativo di chiarificazione teoretica del problema, delinea i tratti di una possibile storia di questa categoria, a partire da una serie di "sondaggi" storiografici su figure, grandi e minori, sempre autenticamente significative, dell'Otto-Novecento europeo.
DESCRIZIONE: Ha uno statuto proprio la filosofia della religione? In quale rapporto sta con la tradizione inaugurata da Kant, che fa della religione una forma della razionalità umana, e con quella fenomenologica che invece vede nella religione un fenomeno storico, irriducibile ad altro?
Domande che guidano l’autore nella ricognizione e ripensamento di autori e temi del Novecento: Rudolf Otto, Martin Heidegger, Mircea Eliade, i dibattiti sulla demitizzazione, la morte di Dio, l’ontoteologia, la postmodernità. Un percorso che diviene proposta di una filosofia della religione come ermeneutica del religioso, nelle sue contingenze storiche, confessionali e cultuali. Una prospettiva ove l’ascolto e l’interrogazione dei classici si trasforma in originale interpretazione dei loro testi e della cosa stessa in questione.
COMMENTO: Una introduzione alla filosofia della religione alla luce dei grandi dibattiti contemporanei: Heidegger, Gadamer, le teorie del sacro, le sfide del nichilismo...
PIETRO DE VITIIS è professore ordinario di Filosofia morale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma 2 “Tor Vergata”. Le sue ricerche si sono orientate verso tematiche di filosofia della religione nel posthegelismo, a partire da Schelling e dal teismo speculativo dell’Ottocento (I.H. Fichte e Ch.H. Weisse) fino all’ermeneutica contemporanea, con particolare riferimento a Heidegger e Gadamer, e al decostruzionismo. Principali pubblicazioni: Heidegger e la fine della filosofia (1974), Immanuel Herman Fichte. L’“Aufhebung” del panteismo hegeliano (1978), Ermeneutica e sapere assoluto (1984), Il problema religioso in Heidegger (1995), Prospettive heideggeriane (Morcelliana 2006).
DESCRIZIONE: Il secondo tomo del volume dedicato all’influenza di Aristotele comprende saggi relativi all’età moderna e all’età contemporanea. Per l’età moderna è evidente la persistenza della filosofia pratica di Aristotele, la quale, dopo essersi eclissata nell’antichità ellenistica e nella tarda antichità, ed essere stata riscoperta nel medioevo, sia musulmano che ebraico e cristiano, sopravvive nel Seicento e nel Settecento, soprattutto in Germania.
Per quanto riguarda l’Ottocento i saggi riguardano la critica di Hegel al principio di non contraddizione, e l’influenza di Aristotele sui critici di Hegel: Feuerbach, Trendelenburg, Marx e Kierkegaard. Per la Germania è anche massiccia l’influenza di Aristotele su Brentano e, attraverso di lui, su tutti i suoi discepoli, da Husserl a Meinong, a Twardowski, a Freud. Interessante è anche il rapporto intrattenuto con Aristotele da Paul Natorp, che ebbe ad influenzare, insieme con la dissertazione di Brentano, Martin Heidegger.
I capitoli dedicati all’età contemporanea illustrano la presenza di Aristotele in Heidegger e nella filosofia analitica inglese, ovvero nell’analisi del linguaggio ordinario condotta da J. Austin, G. Ryle, P. Strawson, D. Wiggins e altri. Indi illustrano la cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica, prima in Germania, ad opera di filosofi come H.-G. Gadamer e J. Ritter, e poi negli USA, ad opera di A. MacIntyre, H. Jonas, Martha C. Nussbaum. La raccolta si conclude con un saggio sul “tomismo analitico”.
COMMENTO: Il secondo tomo dell'ultimo volume dell'opera sulla filosofia aristotelica di Enrico Berti si occupa delle recezione del pensiero aristotelico nell'età moderna e contemporanea, con particolare attenzione a Heidegger, Gadamer, Marx, Kierkegaard... Un capitolo inedito della storia culturale dell'Occidente.
ENRICO BERTI è professore ordinario di Storia della filosofia nell’Università di Padova. Tra le sue pubblicazioni: La filosofia del “primo” Aristotele (Padova 1962, II ed. Milano 1997), L’unità del sapere in Aristotele (Padova 1965), Studi aristotelici (L’Aquila 1975), Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima (Padova 1977), Profilo di Aristotele (Roma 1979, III ed. 1994), Le ragioni di Aristotele (Roma-Bari 1989), Aristotele nel Novecento (Roma-Bari 20082), In principio era la meraviglia (Roma-Bari 2007). Presso la Morcelliana ha pubblicato: Nuovi studi aristotelici. I- Epistemologia, logica e dialettica (2004, in corso di traduzione in portoghese); II - Fisica, antropologia e metafisica (2005, in corso di traduzione in portoghese); III - Filosofia pratica (2008, in corso di traduzione in portoghese), IV/1 - L'influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo e Rinascimento.
A cura di Renato Pettoello e Vincenzo Latronico
DESCRIZIONE: La “scoperta” delle geometrie non-euclidee e la Teoria della relatività di Einstein costrinsero scienziati e filosofi a prendere posizione e a rivedere radicalmente le loro categorie di pensiero. Ne derivò un dibattito accesissimo, al quale parteciparono gli esponenti più significativi sia della scienza sia della filosofia dei primi decenni del XX secolo. Uno dei temi al centro della discussione era la natura dello spazio. Il giovane Carnap vi si inserì con autorevolezza grazie a questo breve scritto, nel quale si proponeva di analizzare i vari significati di spazio, convinto com’era che l’inconciliabilità delle posizioni in conflitto fosse dovuta al fatto che «dalle differenti prospettive si parla di oggetti molto differenti». L’interesse di questo testo per il lettore odierno è molteplice. Da un lato esso è uno splendido esempio di come scienza e filosofia possano proficuamente incontrarsi; dall’altro ci mostra un Carnap nella sua fase di apprendistato, già padrone degli strumenti scientifici necessari ad affrontare un tema scottante come quello dello spazio, ma ancora incerto su quale prospettiva filosofica fare propria.
COMMENTO: La prima edizione di un classico di un grande storico della Filosofia, che spiega il concetto di spazio nella storia occidentale e nella scienza contemporanea.
RUDOLF CARNAP (1891-1970), filosofo tedesco emigrato all’avvento del nazismo negli Stati Uniti, è stato tra i maggiori pensatori del ’900. Tra le sue opere: La costruzione logica del mondo (1928), La sintassi logica del linguaggio (1934); Significato e necessità (1947); Fondamenti logici della probabilità (1950).
In questo ormai classico studio Jacques Maritain affronta uno dei problemi di maggiore attualità: il rapporto tra persona e società. In esso l'autore, riferendosi alla concezione tomistica, critica le tre principali filosofie sociali e politiche - individualismo borghese, anti-individualismo comunista, anti-comunismo e anti-individualismo totalitario o dittatoriale - che, ognuna a suo modo, con la divinizzazione o con la "organizzazione" dell'individuo considerato come entità materiale, hanno condotto a una svalutazione della persona umana in quanto entità spirituale.
Chiamato al compito abbastanza difficile di definire lo spirito della filosofia medioevale, ho accettato, pensando all'opinione assai diffusa che, se il Medio Evo ha una letteratura e un'arte, non ha una filosofia propria. Tentar di sceverare lo spirito di questa filosofia, era impegnarsi a fornire la prova della esistenza, o a confessare ch'essa non è mai esistita. Cercando di definirla nella sua propria essenza, mi sono visto condotto a presentarla come la "filosofia cristiana" per eccellenza. Non si tratta di sostenere che il Medio Evo abbia creato questa filosofia dal nulla, non più di quanto abbia tratto dal nulla la sua arte e la sua letteratura. Non si tratta neppure di pretendere che nel Medio Evo non ci sia stata altra filosofia che la cristiana, non più di quanto si potrebbe pretendere che tutta la letteratura medioevale e tutta l'arte medioevale siano cristiane. Il solo problema da esaminarsi è sapere se la nozione di filosofia cristiana abbia un significato, e se la filosofia medioevale, considerata nei suoi rappresentanti più cospicui, non ne sia precisamente l'espressione storica più adeguata. Lo spirito della filosofia medioevale, quale lo s'intende qui, è dunque lo spirito cristiano, che penetra la tradizione greca, la elabora dall'interno e le fa produrre una visione del mondo, una Weltanschauung, specificatamente cristiana.
DESCRIZIONE: È possibile tornare, dopo Kant, all’ontologia come analisi e ricerca delle strutture e delle categorie di un mondo extrasoggettivo? Ecco il quesito cui Nicolai Hartmann cerca di dare risposta mediante la rivisitazione del problema conoscitivo. L’ontologia hartmanniana poggia sulla reimpostazione del rapporto soggetto-oggetto, nel tentativo di liberare il reale dalle maglie della soggettività. Questo è, infatti, il presupposto essenziale per uscire dal correlativismo tra l’io ed il mondo, con il quale neokantismo, fenomenologia e, in fondo, persino lo stesso Kant, hanno liquidato l’autonomia di un «in sé» extracoscienziale. Hartmann, proprio a partire dall’atto di conoscenza, riappropriandosi dell’idea di intentio recta del conoscere e mediante la fondazione a priori della tesi del realismo naturale, cerca di riconferire indipendenza al mondo esterno; infatti, solo in questo modo è possibile, per Hartmann, iniziare il lavoro di costruzione dell’ontologia. Con Hartmann, la questione del realismo si ripresenta come problema speculativo: a ritornare è il senso e il peso ontologico della «cosa», come condizione e meta dello stesso inquisire filosofico. Un realismo che, nella sua classicità e profondità, è interlocutore essenziale per le nuove ontologie fiorite nel pensiero contemporaneo.
COMMENTO: Un ritratto del grande filosofo tedesco (1882-1950), tra i più originali pensatori nel campo dell'etica e della teoria della conoscenza.
GIUSEPPE D'ANNA è ricercatore di Storia della Filosofia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Foggia. Ha studiato in molte università tedesche. Tra le pubblicazioni: Spinoza e la figura di Cristo (2000); Uno intuitu videre. Sull’ultimo genere di conoscenza in Spinoza (2002); Considerazioni sulla trascendenza nella metafisica di Spinoza (2006) Hartmann interprete di Aristotele (2008); per Morcelliana, con Renato Pettoello, ha curato Nicolai Hartmann, Ontologia e realtà (2009).
"Io ho creato l'uomo santo, innocente, perfetto; io l'ho colmato di luce e di intelligenza; gli ho comunicato la mia gloria e le mie meraviglie [...]
Ma non ha potuto sostenere tanta gloria senza cadere nella presunzione. Ha voluto rendersi conto di se stesso ed indipendente dal mio soccorso. Si è sottratto al mio dominio; e uguagliandosi a me con il desiderio di trovare la felicità in se stesso, io l'ho abbandonato a se stesso".
Pascal.