
«Ma cosa fa un ministro?». Questa è la domanda che Enrico Giovannini, allora ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili, si sente rivolgere da una ragazza una mattina del 2022 a Genova. Una domanda che stimola molti altri interrogativi, ai quali Giovannini risponde in questo libro sulla base dei quasi due anni di esperienza da ministro tecnico nel governo Draghi. Se non si può riferire a un programma elaborato dal partito di appartenenza, allora come fa un ministro tecnico a prendere decisioni politiche? Segue l'approccio basato 'sulla scienza e l'evidenza'? Media tra spinte e interessi contrapposti? Si difende dietro il classico «ce lo chiede l'Europa»? Si affida al suo intuito? Come coniuga l'esigenza di rispondere alle urgenze o alle emergenze del momento con quella di operare scelte orientate al lungo termine? Come interagisce con la burocrazia pubblica? E come si rapporta al mondo dei media? Il libro racconta come si fa a fare tutto questo in pratica. Una sorta di 'manuale' per capire in cosa consista la difficile, ma anche affascinante, arte della politica.
Che cos'è la giustizia e come dobbiamo comportarci per essere giusti? Qual è la via per far crescere le nostre relazioni, sottraendole alla logica del dominio che le uccide? E le istituzioni sono capaci di riconoscere i bisogni più profondi dell'essere umano, favorendo l'esercizio della 'facoltà di attenzione'? Nei tribunali la giustizia è rappresentata bendata, in una mano una spada e nell'altra una bilancia. Non è forse giunto il tempo di provare a togliere la benda che rende cieca la giustizia? Una giustizia capace di vedere l'altro da sé, di rinunciare alla spada in favore della mitezza e di correggere gli equilibri ingiusti; una giustizia capace di far sì che ciascuno - soprattutto chi si trova nella sventura - possa ricevere quell'attenzione che gli conferisce dignità ed esistenza: questa era la ricetta di Simone Weil per curare il mondo ed è una lezione da cui, a ottant'anni dalla sua morte, abbiamo ancora tanto da imparare.
È importante ragionare sul potere per comprenderne la natura, ma soprattutto per conoscerne la distribuzione nella società. Ecco perché questo libro non ha l'obiettivo di elaborare una teoria astratta del potere, ma di illustrarne i diversi aspetti per un uso politico, finalizzato alla realizzazione di riforme di struttura: un utilizzo trasformativo e non conservatore, volto al cambiamento e non alla difesa dell'esistente.
Quanto più la tecnologia e l'umanesimo sapranno interagire, tanto più l'umanità solcherà positivamente la strada del progresso. È questa l'idea che ispira questo libro, frutto della collaborazione tra un filosofo e un tecnologo. Entrambi, infatti, promuovono un giudizio positivo sulla tecnologia perché se è vero - seguendo l'etimo greco - che è insieme un veleno e un rimedio, è innegabile che la capacità tecnologica appartiene all'umanità sin dalle sue origini. E risiede in essa la capacità di conservare e moltiplicare il valore dei suoi beni materiali e culturali a beneficio delle generazioni future.
Dal 1973 al 1992 l'inflazione ha condizionato pesantemente la vita economica del nostro paese. Oggi è ricomparsa con forza sulla scena, con il rischio di riaccendere tensioni finanziarie e di riaprire conflitti sociali che pensavamo di aver relegato per sempre al nostro passato. In questo libro Ignazio Visco, Governatore della Banca d'Italia, propone una rilettura del dibattito economico e politico intorno all'inflazione, anche sulla base di saggi scritti in anni passati e di documenti inediti. Soprattutto, si domanda quali lezioni possiamo ricavare dalle esperienze passate e quanto queste siano ancora utili per affrontare le sfide del presente. Come si può rispondere ai gravi shock degli ultimi anni, senza che le reazioni agli aumenti dei costi di produzione e alle perdite di potere di acquisto rendano il rientro dell'inflazione particolarmente lungo e difficile? Con quali interventi può il Consiglio direttivo della BCE, che opera con riferimento all'intera area dell'euro, assicurare il ritorno alla stabilità dei prezzi? Gli aumenti dei tassi di interesse ufficiali saranno appropriati? E come si uniranno, nelle decisioni di politica monetaria, coraggio e lungimiranza?
La fase dell'«iper-globalizzazione», come l'ha definita il grande economista Dani Rodrik, sembra ormai al tramonto. La crisi finanziaria del 2008, l'inasprirsi della competizione fra Stati Uniti e Cina, la pandemia e la guerra in Ucraina costituiscono, infatti, altrettante tappe della profonda trasformazione dell'assetto politico ed economico internazionale delineatosi nei decenni precedenti, a partire dalla cesura del 1989. È tempo di pensare a una forma nuova di globalizzazione, fondata sul riconoscimento dell'interdipendenza e del pluralismo politico, giuridico e culturale. Il diritto può svolgere un ruolo importante nello strutturare e stabilizzare questo nuovo ordine globale se esso viene concepito, oltre il paradigma del globalismo giuridico, come uno strumento più flessibile di negoziazione e accordo fra interessi geopolitici inevitabilmente divergenti e tra Stati che non rinunciano in toto alla loro sovranità.
Politici impegnati più a demonizzare e a screditare gli avversari che non a risolvere controversie e conflitti; trasmissioni televisive costruite per mettere in scena lo scontro politico, vero o fittizio che sia, per catturare l'attenzione del pubblico; cittadini che si accaniscono contro il nemico di turno pur di catalizzare l'attenzione e conquistare qualche fugace momento di celebrità. Sono tutti segnali che raccontano i tempi della politica dell'inciviltà. Oggi questa modalità comunicativa è diventata una risorsa strategica in grado di avvantaggiare attori che, a vario titolo, contribuiscono alla costruzione della dimensione politica. Se la si considera così, molti fenomeni che caratterizzano la politica contemporanea appaiono più facilmente comprensibili e interpretabili e, purtroppo, destinati a rimanere con noi ancora a lungo.
«Sono stufa del fatto che l'opinione pubblica e i politici considerino noi cervelli in fuga o privilegiati traditori o disgraziati vittime delle circostanze. Vorrei che questo libro facesse breccia nell'immaginario comune contribuendo a costruire una nuova narrazione.» La storia della generazione perduta di talenti è davvero come la raccontano? L'Italia è colpita dal fenomeno quanto gli altri grandi paesi europei ma con alcune evidenze preoccupanti che rendono la situazione più drammatica, come l'accelerazione dell'emigrazione qualificata negli ultimi dieci anni e la scarsità di laureati prodotti dal nostro sistema educativo. Gli effetti negativi della fuga di cervelli sono particolarmente evidenti quando, come nel caso dell'Italia, tende a essere una fuga unidirezionale. Il libro si propone di sfatare alcuni miti, indagare il fenomeno da una prospettiva internazionale più ampia e dare voce a chi è partito, grazie alle testimonianze raccolte dall'autrice. Un paese o un governo che si voglia occupare di talenti deve pensare a come svilupparli e dar loro opportunità affinché restino, ma anche a come attirarli da altrove. Prefazione di Federico Rampini.
Fatichiamo a rendercene conto, ma quando parliamo di 'ascensore sociale' che premi i più 'capaci e meritevoli', quando evochiamo il 'paracadute sociale' per i perdenti nella 'gara' della vita, o alludiamo a scalate e arrampicatori, utilizziamo metafore spaziali le cui origini sono antichissime. Così, chi detiene il potere e sta 'sopra' viene sistematicamente definito 'superiore', mentre chi lo subisce, stando 'sotto', è 'inferiore' o 'subalterno'. In sostanza, la metafora spaziale verticale è divenuta la principale forma espressiva del principio di gerarchia che, così, sembra far parte dei processi cognitivi dell'essere umano. Tutto questo ha importanti ripercussioni sulle democrazie liberali. È proprio un processo di polarizzazione che sta mettendo in pericolo il patto sociale che ha retto gli Stati occidentali negli ultimi decenni. Il contributo riequilibratore del diritto è decisivo, in particolare quello che può dare il costituzionalismo sociale del secondo dopoguerra se spogliato di ogni patina gerarchica e valorizzato nella sua dimensione culturale. Perché, anche se a volte lo dimentichiamo, questo è il fine del diritto: contrapporsi alla forza, al privilegio, all'ingiustizia.
Il XXI secolo ha visto il declino dell'Italia e l'approfondirsi delle sue disparità interne. Per comprenderne il perché serve collocare quelle vicende, con un'analisi comparata, nel contesto dei grandi cambiamenti internazionali: l'allargamento a Est dell'Unione Europea, la deindustrializzazione, i nuovi servizi avanzati nelle città, il mutamento demografico, le migrazioni, l'influsso liberista sulle politiche economiche. In tutta Europa, a differenza di quanto avveniva nel Novecento, le disuguaglianze stanno aumentando. Ma le gerarchie territoriali non sono un destino irreversibile, cambiano grazie a intelligenti politiche pubbliche. Non è però ciò che è avvenuto, specie negli anni Dieci, in Italia: le politiche hanno spesso assecondato e non contrastato il declino e l'aumento delle disparità. Un'analisi di ampia prospettiva storica, fondata su dati e casi concreti, indispensabile per chi voglia trarre indicazioni per ripensare un'Italia più competitiva e più inclusiva, specie dopo la grande pandemia.
Alla conclusione del secondo conflitto mondiale, la sovranità nazionale viene diffusamente ritenuta un ostacolo alla costruzione di un futuro di pace e prosperità. Nasce così l'Europa unita, intenzionata a coordinare l'azione dei singoli Stati per sostenere la piena occupazione e difendere la società dall'invadenza dei mercati. Ben presto, però, la promozione della concorrenza diviene il punto di riferimento per l'operato delle istituzioni europee, che finiscono per identificare nel mercato il principale strumento per redistribuire la ricchezza. La moneta unica viene creata per presidiare questo schema, perché la sua architettura impedisce agli Stati di tutelare il lavoro e alimentare il welfare: non deve esserci spazio per allocare risorse con modalità alternative a quelle riconducibili al libero incontro di domanda e offerta di beni e servizi. Di qui il crescente impoverimento della società, alla base dei drammatici conflitti che evidenziano il tradimento delle idealità da cui era scaturito il percorso verso l'unità europea. E se l'Europa unita si mostrerà irriformabile, se cioè il sogno di una stagione di pace e prosperità avrà ceduto il passo all'incubo di un futuro di conflitti e povertà, il suo destino sarà irrimediabilmente segnato.
L'emergenza Covid-19 ha rappresentato uno spartiacque epocale proprio mentre eravamo immersi in un'età di profondi mutamenti: l'affermazione della tecnoscienza nella sfera dell'economia e della società; l'avvento, nell'età del web e dei Big Data, di nuovi strumenti di potere e di gestione del consenso; l'emergenza ambientale. In questo scenario, denso di pesanti incognite, si stanno giocando diverse partite volte a ridefinire gli equilibri mondiali. Da un lato gli Stati Uniti e la Cina si stanno scontrando per stabilire chi avrà l'egemonia globale. Allo stesso tempo, una risorgente Russia e alcune potenze regionali (come l'India, il Giappone, l'Arabia Saudita, l'Iran e la Turchia) stanno assumendo un ruolo di rilievo e una autonomia fino a ora sconosciuta. Intanto l'Unione Europea si trova in grande difficoltà. Il suo indebolimento non si deve solo a cause di ordine strutturale e agli effetti della globalizzazione, ma al fatto che s'è inceppato il processo d'integrazione nei versanti nevralgici della politica estera e della sicurezza, del welfare e delle innovazioni di sistema. Un libro in cui un grande maestro della storia economica presenta un'analisi penetrante dello stato di salute del pianeta e dei rischi che ci troviamo ad affrontare.
Trasformare il disagio sociale in consenso politico è da sempre la cifra di ogni forma di demagogia: solo affrontando i problemi che sono all'origine della disuguaglianza, la nostra democrazia potrà vincere la sfida populista. Negli ultimi anni movimenti e partiti populisti hanno registrato, in Italia come in Europa, un costante aumento di consensi. Certo, pesano il risentimento contro le élites e le ansie provocate dall'insicurezza, l'immigrazione e la paura della perdita delle tradizionali identità 'culturali', ma sono le disuguaglianze il vero, potente, motore del loro successo: disparità economiche, sociali e culturali, sia tra i ceti che tra i territori, che hanno creato una 'classe dimenticata'. Analizzando il nostro paese da nord a sud e dai centri alle periferie, mettendo insieme risultati elettorali e peculiarità economiche e demografiche, Pier Giorgio Ardeni arriva a un'evidenza incontestabile: che il successo dei populismi trae linfa da divari di condizione a cui non è stata data risposta. I poveri contro i più ricchi, i ceti 'non protetti' contro quelli 'garantiti', le aree interne e periferiche contro quelle urbane. Scopriremo che se vogliamo salvaguardare la nostra democrazia non c'è altra strada che affrontare il problema alla radice: ridurre le disuguaglianze.
Non è l’economia che traina il sociale, ma il contrario; per fare sviluppo occorrono processi di autocoscienza e di autopropulsione collettiva, non interventi dall’alto: ho sempre tenuto a mente questi principi studiando il Mezzogiorno italiano.
«I primi due esperti di sviluppo che ho frequentato all’inizio del mio meridionalismo sono stati Giorgio Sebregondi e Padre Louis-Joseph Lebret. Il primo era convinto che nella ‘lunga durata’ non è l’economia che traina il sociale ma il contrario; e che quindi lo sviluppo va perseguito con adeguati interventi sul sociale e sollecitando la partecipazione delle popolazioni locali; Lebret, dal canto suo, era convinto che per fare sviluppo occorrono non interventi dall’alto, ma profondi processi di autocoscienza e di autopropulsione collettiva. Io sono nato su quel duplice imprinting, e su di esso ho sempre fedelmente lavorato».
Una raccolta di testi che attraversano sessant’anni di storia italiana e ripercorrono l’impegno di Giuseppe De Rita per il Mezzogiorno.
Nell'ultimo decennio dell'Ottocento l'Italia inizia la rincorsa dei paesi più avanzati e alla fine del ventesimo secolo raggiunge un reddito per abitante non dissimile da quello di Germania, Francia e Regno Unito. È un percorso di successo, che crea un'economia moderna. Da un quarto di secolo, tuttavia, l'economia italiana cresce assai meno della media europea. I fattori di sviluppo che avevano funzionato nel dopoguerra si sono rivelati inadatti all'economia globale. Pesano mali antichi mai curati: bassi livelli di istruzione, prassi burocratiche e giudiziarie obsolete, gestioni aziendali poco trasparenti. Il reddito perduto con la crisi del 2008-2013 non è stato ancora recuperato. La differenza tra il benessere economico degli italiani e quello degli altri europei e dei nordamericani è tornata ai livelli degli anni Sessanta. Il clima di incertezza politica, finanziaria e istituzionale scoraggia gli investimenti, crea un ambiente ostile alla crescita e rischia di provocare un awitamento dell'economia. Eppure ci sono stati momenti recenti nei quali l'Italia sembrava potesse riprendersi, segno che non è condannata a un perenne ristagno. Con questo libro, Carlo Bastasin e Gianni Toniolo ripercorrono la strada di un robusto sviluppo e indagano i motivi che l'hanno fatta smarrire per capire come fare a ritrovarla.
Uno spaccato illuminante dell’economia del nostro paese dal 1968 a oggi: la storia degli interventi pubblici nell’economia italiana ma anche la loro relazione con la trama dei principali eventi politici, istituzionali, internazionali e sociali di quegli anni.
Ne emerge il racconto avvincente di una stagione di illusioni ed errori, culminata dieci anni fa in una crisi economica gravissima, da cui l’Italia stenta a riprendersi.
Una guida utile per chi – anche se non addetto ai lavori nelle discipline economiche – voglia orientarsi nella storia recente della politica e dell’economia in Italia.
Negli ultimi trent’anni l’Italia e gli italiani sono profondamente cambiati. Assetti demografici, lavoro, welfare, produzione, consumi, stili di vita, forme della partecipazione e della comunicazione, partiti, sistema politico: quasi nulla è più come prima. Il libro prova a ricostruire i più importanti tra questi mutamenti – lo choc migratorio, il declino economico, la metamorfosi dei valori e delle appartenenze, gli effetti della rivoluzione digitale – per concentrarsi quindi sulle trasformazioni del sistema politico tra Prima e Terza Repubblica. Riprendendo e aggiornando le tesi di Karl Polanyi sulla ‘grande trasformazione’, l’autore colloca al centro del quadro l’urto strisciante e poi frontale tra le forze sempre più invincibili della globalizzazione, in particolare del mercato e dell’economia globali, e un paese messo progressivamente in ginocchio dai suoi effetti distruttivi. Ne è derivata una confusa e disordinata ‘rivolta della società’, che ha voltato le spalle alle vecchie forze politiche della Seconda Repubblica, sempre più incapaci di proteggerla, e che ha ceduto infine alle velleitarie promesse di riscatto dei populismi. Una trappola insidiosa, dalla quale – almeno per un po’ di tempo – sarà assai difficile uscire. In Italia e in molte altre parti del mondo.
Se riusciremo a dare un volto umano alla globalizzazione e a far sì che la democrazia continui a essere un sistema politico credibile, dipenderà da come risolveremo la questione della disuguaglianza.
Gli autori individuano i temi fondanti del dibattito economico, filosofico e politico intorno alla disuguaglianza, offrendoci un quadro del pensiero dei maggiori scienziati sociali che se ne sono occupati. Emerge chiaramente come la teoria economica abbia a lungo trascurato il fondamentale problema della distribuzione personale del reddito e come l’uso di sofisticati strumenti statistici abbia svuotato la questione della disuguaglianza dei suoi contenuti etici più profondi. Il libro dedica in seguito particolare attenzione all’analisi del complesso rapporto che intercorre tra globalizzazione, disuguaglianza e democrazia.
Per finire – e per indirizzare la riflessione sul futuro – gli autori tracciano una mappa delle più recenti proposte avanzate da importanti studiosi della disuguaglianza economica: da Anthony Atkinson a Joseph Stiglitz, fino a Thomas Piketty.
In Europa occidentale la sfiducia montante nei confronti dell’Unione Europea ha una forte componente geografica e si manifesta più intensamente nelle regioni che hanno subito maggiormente gli effetti negativi della concorrenza internazionale. In queste aree si è andato affermando un voto ‘sovranista’, che vede nella chiusura al mercato internazionale e nel freno al progetto europeo la risposta più efficace alle richieste di ‘protezione’ dell’elettorato. Ma quali reali costi e benefici comporta l’essere parte dell’Unione? Che effetti economici deriverebbero da un distacco dall’Europa e chi ne subirebbe le conseguenze negative? L’Unione ci espone alla concorrenza internazionale e alla delocalizzazione del lavoro oppure ci difende? Il protezionismo può incentivare la nostra economia? Perché crescono i divari di sviluppo tra regioni europee ricche e povere se l’integrazione avrebbe dovuto ridurli? Quali effetti reali ha l’immigrazione sulle economie di tutta Europa? Gianmarco Ottaviano, tra i più autorevoli esperti di economia internazionale, fotografa la nuova geografia economica’ del Vecchio Continente.
Il ritorno del ‘popolo’ come categoria politica può esser visto come un contributo al modo di pensare le forme della nostra partecipazione politica in un’epoca segnata dal capitalismo globalizzato.
Il populismo è sempre stato visto come un pericoloso eccesso, capace di mettere a repentaglio le forme politiche di una comunità razionale. Troppo semplicistico, obietta Laclau in questo libro divenuto ormai un classico. Non è forse la politica sopra ogni cosa una faccenda di capi, di leader, di prìncipi in grado di farsi amare dal ‘popolo’, anche nell’esercizio della loro autorità? Bisogna superare la facile condanna ed essere consapevoli che il populismo opera di fatto nella costruzione di ogni spazio comunitario, democrazia compresa.