
C'erano una volta le Petromonarchie del Golfo, Stati che galleggiavano sul petrolio e seguivano fedelmente le indicazioni in politica estera degli Stati Uniti. Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Oman: sabbia e oro nero, facoltosi sceicchi e lusso fiabesco; scarsa popolazione, democrazia interna molto limitata, forte immigrazione dall'Africa e dal Sudest asiatico e lavoratori in condizioni di semischiavitù. Questa rappresentazione del Golfo Persico - semmai in passato sia stata veritiera - oggi non è più attendibile. Se è vero che le agiatezze di emiri e sultani non sono terminate, gli europei non possono invece prendersi il lusso di ignorare come i Paesi del Golfo influenzino con sempre più forza la politica mondiale: non solo rendita petrolifera ma anche energie rinnovabili, ricerca scientifica, eventi sportivi, alta moda, passione per il made in Italy, architettura all'avanguardia, turismo ed ecologia. E poi armi, politica estera aggressiva, conquista di interi settori di mercato, lenta e difficile emancipazione delle donne, repressione della dissidenza politica, furti archeologici e - strano a dirsi fino a poco tempo fa - autonomia politica proprio dagli Stati Uniti. Il presente lavoro colma un imbarazzante vuoto nella saggistica italiana, quello sull'irrimediabile centralità dell'Arabia Saudita e degli altri Stati del Golfo nella politica globale. Con stile asciutto e approccio analitico gli autori scavano in profondità e spiegano perché, d'ora in avanti, sarà impossibile ignorare questa parte di mondo.
Stiamo vivendo una fase dello sviluppo capitalistico sempre più caratterizzata da risorse immateriali del capitale intangibile. Una strutturazione del capitale che si accompagna al lavoro manuale sottopagato, delocalizzato e sempre più spesso non regolamentato, e a servizi esternalizzati e a scarso contenuto di garanzie. Ciò non significa "la fine del lavoro", ma la nascita di nuove tipologie e di una nuova organizzazione del lavoro, ma sempre nel modo di produzione capitalistico che prevede sfruttamento e conflitti tra capitale e lavoro.
A partire da un incontro che si è svolto a Cuba sull'Europa e che ha visto la partecipazione di studiosi di tutto il Continente, il volume chiarisce come i sud del mondo avvertono la costruzione del polo geoeconomico europeo, e prende in esame il ruolo e la dimensione dell'abbandono dello stato sociale e delle privatizzazioni che ne conseguono, prima fra tutte quella della scuola. L'analisi considera i rapporti commerciali tra l'Europa e il sud del mondo, ma si allarga anche al ruolo dell'Europa centrale, di quella dell'Est e della Russia di Putin. Sul piano della critica al capitalismo viene sottolineato non solo il ruolo subalterno agli USA degli stati europei, ma anche il ruolo di potenza capitalista e le strategie imperialiste del Vecchio continente.
Il volume raccoglie alcuni tra i massimi critici dell'economia politica (veri macroeconomisti) a livello internazionale. Si propongono gli strumenti macroeconomici e finanziari per comprendere l'attuale fase dell'economia capitalistica e la sua portata, secondo i quali globalizzazione, crisi finanziarie e guerre, sono la risposta a una crisi di sistema, come si è manifestata a partire dagli anni Settanta. Sono inoltre affrontate le ricadute di tale crisi sulle forme di produzione e sul rapporto capitale-lavoro. II curatore è docente alla Sapienza di Roma, dirige il Centro Studi CESTES e la rivista "Proteo".

