Che uomini erano quelli. Riuscirono a salvare l'Europa con la sola forza della fede. Con l'efficacia di una formula: ora et labora. Lo fecero nel momento peggiore, negli anni di violenza e anarchia che seguirono la caduta dell'impero romano, quando le invasioni erano una cosa seria, non una migrazione di diseredati. Ondate violente, spietate, pagane. Li cristianizzarono e li resero europei con la sola forza dell'esempio. Salvarono una cultura millenaria, rimisero in ordine un territorio devastato e in preda all'abbandono. Costruirono, con i monasteri, dei formidabili presidi di resistenza alla dissoluzione. Sono i discepoli di Benedetto da Norcia, il santo protettore d'Europa. Paolo Rumiz li ha cercati nelle abbazie, dall'Atlantico fino alle sponde del Danubio. Luoghi più forti delle invasioni e delle guerre. Gli uomini che le abitano vivono secondo una Regola più che mai valida oggi, in un momento in cui i seminatori di zizzania cercano di fare a pezzi l'utopia dei padri: quelle nere tonache ci dicono che l'Europa è, prima di tutto, uno spazio millenario di migrazioni. Una terra "lavorata", dove - a differenza dell'Asia o dell'Africa - è quasi impossibile distinguere fra l'opera della natura e quella dell'uomo. Una terra benedetta che sarebbe insensato blindare. E da dove se non dall'Appennino, un mondo duro, abituato da millenni a risorgere dopo ogni terremoto, poteva venire questa portentosa spinta alla ricostruzione dell'Europa? Quanto c'è ancora di autenticamente cristiano in un Occidente travolto dal materialismo? Sapremo risollevarci senza bisogno di altre guerre e catastrofi? All'urgenza di questi interrogativi Rumiz cerca una risposta nei luoghi e tra le persone che continuano a tenere il filo dei valori perduti, in un viaggio che è prima di tutto una navigazione interiore.
Questo libro propone tre fiabe da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, una delle principali raccolte di storie del Seicento italiano. Nella nuova traduzione proposta dallo scrittore napoletano Gennaro Matino si possono leggere «Pinto Smalto», «Sole, Luna e Talia» e «Le tre cetra». Si tratta di fiabe incentrate sul rapporto tra sentimenti e cucina. Nella prima, Betta decide di prepararsi un marito con le proprie mani impastando zucchero, mandorle, muschio e acqua di rose; nella terza è un uomo, Ciommetiello, che si taglia un dito su una ricotta e fantastica di una donna di carnagione bianca e rossa; nella seconda la cucina tocca in sorte a due figli che rischiano nientemeno di essere messi in pentola.
Sommario
Introduzione. Lo spettacolo delle parole di Enzo Decaro. 1. Pinto Smauto. Trattenemiento terzo de la iornata quinta / Pinto Smalto. Trattenimento terzo della quinta giornata. 2. Sole, Luna e Talia. Trattenemiento quinto de la iornata quinta / Sole, Luna e Talia. Trattenimento quinto della quinta giornata. 3. Le tre cetra. Trattenemiento nono de la iornata quinta / I tre cedri. Trattenimento nono della quinta giornata
Note sull'autore
Giambattista Basile (1566-1632) è autore de Lo cunto de li cunti, la prima raccolta europea di fiabe popolari. Molte delle sue fiabe, tutte scritte in napoletano, ebbero imitatori: confluendo nelle celebri Cenerentola e Il gatto con gli stivali di Perrault o il Corvo e l’Amore delle tre melarance di Gozzi. Una traduzione delle fiabe in italiano è stata realizzata da Benedetto Croce nel 1925.
Gennaro Matino, parroco napoletano e scrittore, è editorialista di Avvenire, Il Mattino e la Repubblica. Con Erri De Luca ha pubblicato: Mestieri all’aria aperta: pastori e pescatori nell'Antico e nel Nuovo Testamento (Feltrinelli 2004), Almeno 5 (Feltrinelli 2008) e Sottosopra: alture dell’Antico e del Nuovo Testamento (Mondadori 2008).
Enzo Decaro, attore e sceneggiatore, è esponente della nuova comicità napoletana, portata alla ribalta dal gruppo teatrale La Smorfia nella seconda metà degli anni Settanta, assieme a Massimo Troisi e Lello Arena.
"Non riesco a sopportare quelli che non prendono seriamente il cibo", diceva Oscar Wilde. Oggi è diventato una delle principali occupazioni, ossessioni, manie; la cucina insieme all'ordalia igienista di ciò che fa bene o fa male sono le ronzanti colonne sonore delle nostre giornate. Prendere sul serio il cibo, però, è altra questione. Di certo, senza tanto proporselo, lo fanno Elena, la donna che si racconta in questo libro, e Daniela, la massaggiatrice alla quale si rivolge per impegnarsi a fondo in una dieta dimagrante e rimodellare il proprio corpo. Perché quello che condividono durante le loro sedute è qualcosa di profondo. A ogni piatto che nominano, a ogni ricetta o tradizione rievocata, riaffiorano un ricordo, un'amicizia, un amore, un rito di famiglia, una ferita. Le creme di piselli e i krapfen delle feste di Ulrike, anoressica per desiderio di perfezione, nella Monaco dell'infanzia e dell'adolescenza di Elena; i praghesi gnocchi di pane alla prugna di Ruzena, obesa per allontanare l'incubo dei carri armati sovietici e il dolore dell'esilio; i gattò di Teresa, che rivendica cucinando la sua identità; i pranzi domenicali della nonna veneta e contadina di Daniela; fino alle aringhe salate che risvegliano in Elena la memoria dei kiddush del sabato nella sua famiglia ebraica, e soprattutto del padre scomparso troppo presto. Alla fine di un romanzo che mescola e unisce, come fa il cibo, individui e culture, Helena Janeczek si riserva ancora lo spazio di una riflessione su una tragedia dei nostri anni, il crollo delle Twin Towers, attraverso le storie dei cuochi che nelle torri lavoravano.
Ambientato in una Torino malefica e metafisica, "La donna della domenica" è da molti considerato il capostipite del "giallo italiano". La trama si snoda tra i vizi, l'ipocrisia, le comiche velleità e gli esilaranti chiacchericci che animano la vita della borghesia piemontese.
Tutto inizia con un cellulare spento. A telefonare è Ester, a non rispondere è Giulio, finito in ospedale a causa di un brutto tamponamento sulla via Aurelia. A riaccendere il telefonino, invece, è Giuditta, la moglie di Giulio, che ovviamente di Ester non sa nulla. Potrebbe essere l'inizio di una commedia rosa, ma il colore di questa storia è decisamente un altro: un testimone, infatti, sostiene che quello di Giulio non sia stato un incidente, ma un tentato omicidio, e la pratica passa dagli uffici dell'assicurazione a quelli del commissariato.
Una donna viene investita sotto casa e di lì a poco muore al Policlinico, dopo aver pronunciato una sola parola incomprensibile, forse un nome. Paola, Pola, ma potrebbe essere anche Paolo, tanto la voce era flebile, sostiene l'infermiera che l'ha assistita. La nebbia è fitta, sulla città come sulle indagini: non ci sono testimoni attendibili, e l'incidente rimarrebbe archiviato. Ma il nome di via Catalani, la strada in cui è avvenuto l'incidente, evoca nel vice commissario Giulio Ambrosio ricordi e nostalgie. Decide così di occuparsi direttamente del caso, in cui qualcosa non torna: forse non si è trattato solo di una sventura, forse la povera signora Kodra non è stata vittima di un pirata della strada ma di un assassino. Chi era Anna Kodra? Chi poteva volerla morta? E perché?
Nell'agosto 2016 la giornalista Martina Castigliani è partita alla volta della Grecia per lavorare nei centri di accoglienza per migranti, insieme ad altri volontari provenienti da tutto il mondo. La realtà che si è trovata di fronte non poteva non essere raccontata. Questa raccolta di storie rappresenta una testimonianza unica, che intende restituire le vicende di uomini e donne che cercavano la libertà e sono diventati fantasmi a causa dell'indifferenza delle istituzioni e di parte dell'opinione pubblica. Quando la lingua non riusciva a stabilire un contatto con gli intervistati, è stato chiesto loro di esprimersi con i disegni. E se Yassin ha raffigurato la facciata del suo ristorante di falafel ad Aleppo, Mleka e Rava (11 anni) hanno disegnato le facce degli "uomini con la barba" che andavano casa per casa a cercare le persone da uccidere. Dlônan (8 anni) ha tracciato il mare che sembrava infinito e il barcone dove si è nascosto tra le braccia del padre, sperando che il viaggio finisse presto. Sullo sfondo di questa tragedia ci sono i greci, popolo tradito dall'Europa quasi quanto i migranti, ma ancora capace di gesti di grande umanità, come quello di Elias, farmacista che distribuisce farmaci gratuitamente a chi ne ha bisogno. Che si tratti di uomini o bambini, di siriani, curdi, afgani o iracheni, non c'è alcuna differenza: quando i migranti devono disegnare la loro storia, quasi tutti scelgono il pennarello colore blu del mare o rosso del sangue.
È fragile e crudele, questa città. È capace di trasformare un bacio in un morso, e sempre adoperando lo stesso paio di labbra.
«Ogni libro dovrebbe avere almeno l’aspirazione di essere eterno. Almeno, l’aspirazione: ossia sapendo che non potrà mai arrivarci, a essere eterno. Nemmeno avvicinarsi, a essere eterno. Tuttavia provarci è doveroso. E questo libro quella strada l’aveva imboccata. Ma il tempo passa, e la Città cambia e del resto sarebbe strano se così non fosse, visto che nell’arco dell’ultimo ventennio è cambiato il mondo. E siccome la parola cambiamento non è sinonimo puro e semplice di miglioramento, vale la pena di specificare: sì, in moltissime cose la Città è cambiata in meglio. Senza cedere al trionfalismo, opposto correlato del disfattismo, oggi siamo messi almeno un po’ meglio di come eravamo messi prima. Certo, c’è sempre da fare i conti con l’eterna propensione all’annacamento. Ogni due passi avanti corrisponde sempre un passo indietro, uno a destra e uno a sinistra, per cui il movimento solo in parte coincide col reale spostamento. Ma annacarsi è nella nostra natura. La storia stessa, e la storia siciliana in particolare, non è mai stata una superstrada a senso unico, ma semmai una trazzera tortuosa, dove spesso s’incontrano macchine che provengono dalla direzione opposta, allora bisogna fare marcia indietro, e si rischia in continuazione di finire in una scarpata. In certi momenti provi addirittura la sensazione di aver sbagliato strada, ma poi no: giusto, la direzione è quella. Stiamo parlando di una città dal carattere tutt’altro che stabile. Il suo fascino consiste anzi proprio nella sua natura irrequieta e irrisolta. Inutile chiederle di somigliare ad altre la cui bellezza è consolidata, composta e appagante. Nell’orditura delle sue trame ci sarà sempre un errore, nell’intonazione più calda si potrà riscontrare sempre almeno una sporcatura. Di questo non dobbiamo compiacerci ma nemmeno deprimerci oltre misura. Dobbiamo acquisire consapevolezza di essere come certi formaggi che si sottraggono alle norme igieniche dettate dall’Unione Europea, e il cui sapore deriva proprio dall’ingrediente innominabile, da utilizzare solo in minima quantità. Un ingrediente chiamato gràscia, che significa sporcizia nella variante untume. Inimitabile e indispensabile, se non si vuole snaturare la natura stessa del formaggio, trasformando in galbanino il sapore di ogni autentica tumazza.»
Olga è nell'età in cui si fanno bilanci. Malata, sente il bisogno di raccontarsi, di ripercorrere la sua giovinezza, il suo matrimonio infelice e le vicende che hanno condotto sua figlia Ilaria a una morte precoce. Ha così inizio la sua lunga confessione alla nipote Marta. Nel gesto della scrittura, pacata ma intensa e commovente, Olga ritrova finalmente il senso della propria esistenza e della propria identità. Una storia forte e umanissima che ha emozionato lettrici e lettori di ogni età: un romanzo di sentimenti forti, dove la forma epistolare diventa quasi flusso di coscienza: racconto di sé e del segreto che ha segnato più vite. Un libro più attuale che mai, che ci mette di fronte ai nostri sentimenti e all'importanza delle relazioni.
In guerra non «spari garofani. Spari pallottole, bombe, e uccidi innocenti». E anche in tempo di pace la guerra è sempre in agguato, in ogni sua forma. L'odio che Oriana Fallaci prova nei confronti della guerra è nato molto presto, quando era bambina e ha imparato a correre sotto i bombardamenti del secondo conflitto mondiale. Lei, che dalla prima linea ha raccontato carneficine ed eccidi, non si è mai arresa alla logica di «fracassare e uccidere per ritrovare dignità», a cominciare da quella che doveva essere una corrispondenza di pace e si è trasformata invece in una delle sue prime corrispondenze di guerra: Oriana voleva entrare a Budapest e descrivere la rivolta del 1956, ma i carri armati sovietici l'hanno fermata al confine. Era la fine di un sogno. Passano poco più di dieci anni e un altro sforzo fallisce, quello di «mettere insieme le razze, ricavarne un popolo unito». Questa volta è Detroit che brucia per le rivolte razziali, come bruciano molte altre città degli Stati Uniti. Oriana Fallaci vuole capire, la sua coscienza è tormentata dal dubbio. È per questo che parte per il Vietnam, che incontra i fedayn in lotta contro gli israeliani, che incide con la sua penna senza risparmiare nessuno, nemmeno gli ipocriti generali di un conflitto dimenticato, come quello tra India e Pakistan nel 1971. Vent'anni più tardi, alla prima guerra del Golfo, mentre i pozzi petroliferi sono in fiamme, riconosce il primo round di una crociata destinata a dividere due sistemi di vita, due civiltà. Con la sua nota veemenza rifiuta l'arrendevolezza dell'Occidente, e in una pagina inedita qui pubblicata per la prima volta tuona: «Io non voglio morire neanche da morta». Ogni giorno per lei è quello giusto per combattere, qualche volta arrendendosi, come nell'attimo in cui l'amore per Alekos Panagulis la colpisce come un proiettile che le si conficca nel cuore.
A fine novembre, con il cielo di Lisbona carico di pioggia, Vasco Dos Santos chiude la sua galleria in Travessa dos Fieis de Deus sempre più tardi. Non ha alcuna voglia di tornare a casa da sua sorella Rita, divenuta ormai intrattabile. Nata deforme e, grazie al coraggio e alla tenacia della madre Maria do Ceu, «ricostruita» attraverso una lunga e dolorosa serie di operazioni, Rita è ormai costantemente in preda all'ira. La morte di sua madre, dell'unica persona capace di preservare l'armonia familiare, ha inasprito oltre ogni misura i suoi rapporti non soltanto con Vasco, ma anche con la sorella Joana, la cui bellezza è così abbagliante da risultare dolorosa, e con il padre Tiago, che anni prima, per sfuggire alla tragedia della figlia, ha abbandonato la famiglia e si è legato a Marta, una donna rancorosa che lo spinge a recidere ogni legame con il suo passato. Tuttavia, da uomo pragmatico quale è, Tiago ha trovato un modo per mantenere un, seppur fragile, contatto con i figli: la domenica, ogni domenica della sua vita, la dedica al pranzo con loro. Una cosa frettolosa, niente di troppo familiare. Un flebile omaggio alla volontà di Maria do Ceu di tenere uniti i figli. È in uno di questi pranzi che i tre fratelli si ritrovano a condividere una scoperta sorprendente: nessuno di loro conserva ricordi del passato. Perché hanno rimosso tutto? La loro vita è stata infelice al punto da volerla dimenticare quasi completamente? Spetterà a Rita ricostruire la storia della famiglia attraverso i documenti ufficiali emersi dagli archivi di Stato, scoprendo una realtà ben diversa da quella che Maria do Ceu aveva raccontato. Nel frattempo, a turbare ulteriormente gli «squilibri» di questa complicata famiglia portoghese sarà l'arrivo di Luciana Albertini, un'eccentrica, visionaria pittrice italiana che farà breccia nel cuore di Vasco.
Dopo "Il mio Afghanistan", Gholam Najafi torna nella sua terra d'origine attraverso 16 racconti: storie di donne, di infanzie, di amicizie, di difficoltà e di piccole gioie che, come fili intessuti, tracciano la trama dell'Afghanistan, "terra aspra e un non sempre morbido tappeto", come scrive Giampiero Bellingeri nell'introduzione. Storie che sono testimonianza di un legame ancora forte dell'autore con la sua terra e con il distendersi dei suoi ricordi. Introduzione di Giampiero Bellingeri.