
I Romani sapevano di discendere da un advena, uno che viene da fuori, accompagnato da fuggiaschi che avevano attraversato il mare rischiando mille volte di morire e scomparire nelle acque. «L'impero romano, - scrisse Seneca, - ha come fondatore un esule, un profugo che aveva perso la patria e si portava dietro un pugno di superstiti alla ricerca di una terra lontana... Farai fatica a trovare ancora una terra abitata dagli indigeni: tutto è il risultato di commistioni e di innesti». I Greci al contrario pensavano di essere nati dalla terra, come un albero. Gli Ateniesi si vantavano di essere autoctoni: il loro primo re, Cecrope, era sbucato dal suolo come un serpente e per questo aveva la parte inferiore del corpo coperta di scaglie. «Noi siamo stati sempre qui, - dicevano, - la nostra gente è nata da questa terra; possiamo accogliere i supplici e gli stranieri, anzi è la nostra legge a imporlo, ma i veri Ateniesi saremo sempre noi, i figli del serpente». I Romani non pensavano cosí. Il loro eroe fondatore veniva da una terra lontana, ma arrivando non trovò il deserto: solo uomini selvatici e primitivi. Eppure non li volle come schiavi ma come compagni.
Sergio Luzzatto racconta qui l'avventura di un numero sorprendente di bambini ebrei, scampati alla Soluzione finale e rifugiati nell'Italia della Liberazione: circa settecento giovanissimi polacchi, ungheresi, russi, romeni, profughi dopo il 1945 tra le montagne di Selvino, nella Bergamasca. E racconta l'avventura di Moshe Zeiri, il formidabile ebreo galiziano che, ponendosi alla guida dei bambini salvati, consentirà loro di rinascere da cittadini del nuovo Israele. Questa è la storia di una redenzione. Tragicamente privati di una famiglia, di una casa, di una lingua, irreparabilmente derubati di ogni loro passato, gli orfani della Shoah vedono dischiudersi, grazie agli emissari sionisti, la prospettiva di un futuro nella Terra promessa: un futuro da costruire tutti insieme, maschi e femmine, come in una grande famiglia riunita in un «kibbutz Selvino». I bambini di Moshe sono orfani della Shoah rinati alla vita nell'Italia della Liberazione. Sono giovanissimi ebrei d'Europa centrale e orientale sfuggiti allo sterminio nazista, che nel 1945 hanno incontrato un uomo come Moshe Zeiri: il militante sionista che fondò e diresse a Selvino, nella Bergamasca, l'orfanotrofio più importante dell'Europa postbellica. Falegname per formazione, teatrante per vocazione, Moshe faceva parte di un piccolo gruppo di ebrei a loro volta originari dell'Europa centro-orientale. Giovani immigrati in Palestina negli anni Trenta, che fra il 1944 e il 1945 hanno risalito l'Italia come soldati volontari nel Genio britannico, per cercare di salvare il salvabile. Se non il loro «mondo di ieri», la civiltà yiddish irrimediabilmente distrutta, almeno gli ultimi resti del popolo sterminato. Dopo il drammatico suo incontro con i bambini sopravvissuti, Moshe Zeiri li organizza a Selvino in una specie di repubblica degli orfani, e attraverso l'educazione sionistica li prepara a una seconda vita. Non più la vita rassegnata delle vittime, «laggiù», nelle terre di sangue della Soluzione finale, ma la vita libera e forte dei coloni di Eretz Israel, nella Terra promessa. D'altra parte, la storia dei bambini di Moshe è anche la storia di un'illusione. Perché dopo la guerra d'indipendenza del 1948, l'utopia del «kibbutz Selvino» avrebbe finito per scontrarsi, nello Stato di Israele, con la realtà di nuovi (e brutali) rapporti di forza.
25 agosto 1939: l'Inghilterra e la Polonia firmano un patto di alleanza per garantirsi mutua assistenza in caso di attacco militare tedesco. 3 settembre 1939: l'Inghilterra e la Francia dichiarano separatamente guerra alla Germania, che due giorni prima ha invaso la Polonia. Per dieci giorni l'Europa vive sull'orlo di una crisi di cui nessuno prevede ancora tutte le conseguenze. Lo scoppio della guerra la precipiterà in una delle più grandi tragedie della sua storia. Richard Overy ci immerge nel ritmo incalzante degli eventi di quei drammatici dieci giorni. Giorno per giorno seguiamo l'evolvere della situazione fino al terribile epilogo finale: l'ultimatum tedesco, i travagli di inglesi e francesi, le manovre italiane, gli estremi tentativi diplomatici, l'atmosfera febbrile in cui maturano scelte decisive. Tutto inevitabile? Forse sì, se per molti europei la guerra appariva ormai l'unico sbocco possibile per le troppe tensioni politiche, economiche e sociali accumulatesi nel corso degli anni trenta.
Il corso impetuoso della storia Kapuscinski l'ha conosciuto come pochi altri. Dove c'erano rivoluzioni, guerre, imperi in disfacimento o movimenti in ascesa, lui c'era per vedere, documentare, raccontare. Qui - in questo libro ideato poco prima della sua scomparsa - è la storia stessa a essere direttamente in primo piano: il suo senso, il suo potere sulla vita dei singoli esseri umani, le occasioni di riscatto che pure sa offrire. E il suo impatto sul secolo che è da poco cominciato. "Questi testi - scrive nell'Introduzione la curatrice Krystyna Stràczek - mostrano Kapuscinski non solo nei panni di reporter e scrittore, ma dimostrano la sua stupefacente conoscenza del destino e della cultura dei paesi che visitava (non a caso si era formato come storico). Non sono però una mera dimostrazione di erudizione. Kapuscinski richiama i fatti per interpretarli, per mostrare paralleli storici e culturali, e per prevedere il futuro."
A fronte della crisi del concetto stesso di famiglia e di atroci episodi di cronaca che hanno scosso i parametri del rapporto genitori-figli, Eva Cantarella è venuta interrogandosi – forte dei suoi strumenti di studiosa del diritto e della cultura antica – sulla storia di quel rapporto che, insieme alla dinamica degli affetti, porta inevitabilmente con sé tensioni, conflitti, e molto spesso violenza. Questa conflittualità sembra legata alla sola modernità, ma affonda le sue radici lontano: nei miti teogonici, nella famiglia patriarcale, nelle storie, spesso sanguinose, che la letteratura testimonia con straordinaria evidenza; nella mitologia, nei poemi omerici e nella tragedia classica, dove il tema della famiglia diventa il teatro pieno d’ombre della ferocia, della vendetta, della ribellione. Un teatro che, se a tutta prima parrebbe non implicare uno scontro generazionale, in realtà lo contiene, lo nutre, lo agita. Ecco allora che il conflitto, così presente nell’attuale agenda politica, si lascia leggere anche alle origini della nostra civiltà là dove i giovani entrano in rotta di collisione con la gerontocrazia. Secondo modalità e procedure che la lettura del mondo antico porta progressivamente alla luce.
Una volta di più Eva Cantarella si rivela affascinante evocatrice di personaggi e di storie, da Crono, signore dei Titani, divoratore dei suoi stessi figli, a Teseo, il parricida che uccide il proprio figlio, da Telemaco l’obbediente a Ettore il saggio, sia come padre sia come figlio, dai ribelli Antigone e Oreste a Medea, madre assassina.
Ma allora te ne sei stato in disparte e hai lasciato morire un altro, un giovane, vecchio come sei. E adesso vieni a piangere questo morto? Tu non sei il mio vero padre.
Dopo aver raccontato come amavano i romani e i greci, quali erano i loro divertimenti preferiti, come si vestivano e si pettinavano, cosa mangiavano, in che modo vivevano politica e religione, nascita e morte, Eva Cantarella non poteva far mancare ai lettori, nell'anno dei Giochi di Rio de Janeiro, una storia delle Olimpiadi antiche. Perché, se è noto che a Olimpia si incontravano ogni quattro anni i migliori atleti dell'Ellade, sono pochi a sapere - per esempio - quanto duravano i Giochi, che cos'era la tregua sacra, o che a Olimpia esisteva un vero e proprio albergo per atleti e allenatori, oltre che per i tifosi più abbienti. Per non parlare di questioni più complesse, quali la nascita del professionismo e il venir meno degli ideali eroici; il rapporto tra eros e atletismo; le gare falsate (il doping non esisteva ancora, ma la scorrettezza e la corruzione sì). Ettore Miraglia ripercorre invece la storia dei Giochi moderni, a partire dall'edizione di Atene del 1896 voluta dal barone de Coubertin: affronta temi scottanti come il boicottaggio (Montréal '76, Mosca '80, Los Angeles '84) e il doping, passando per le Olimpiadi "mancate" (Berlino '16, Tokyo '44, Londra '48) e Settembre Nero (Monaco '72), e introduce i Giochi di Rio offrendo, insieme alla presentazione delle 42 discipline olimpiche, il calendario delle gare. Completa il testo una piccola raccolta di "storie parallele" in cui campioni dell'antichità vengono accostati a campioni del presente.
Quante volte leggiamo sui giornali che i disagi e i crimini tra le mura di casa derivano dalla crisi della famiglia, una crisi tutta moderna? Come se la famiglia fosse sempre stata un luogo di riparo, di protezione da una società ostile. Ma è davvero così? Dopo lo studio sul mondo greco di «Non sei più mio padre», Eva Cantarella ritorna sul tema centrale della famiglia e indaga le regole e la quotidianità della vita familiare nel mondo romano, per verificare attraverso le fonti l'ipotesi secondo la quale la famiglia infelice nascerebbe solo con la modernità. Con gli strumenti di studiosa del diritto e della storia antica ricostruisce costumi e abitudini delle famiglie romane, risalendo fino alle origini della civiltà che ha creato i fondamenti della nostra cultura giuridica. Dimostra così che, a partire dai Sette re di Roma, a metà dell'VIII secolo a.C., fino al VI secolo d.C. e alla stesura del Corpus iuris civilis di Giustiniano, il potere di vita e di morte dei padri sui figli è assoluto e l'uccisione del padre appartiene con impressionante frequenza alla realtà sociale di ogni famiglia romana. Cantarella si interroga sulla natura ansiogena e conflittuale dei rapporti tra padri e figli nell'antica Roma e, con una ricerca che guarda al passato per parlare del presente, mostra che le famiglie infelici non appartengono solo al nostro tempo. Da Cicerone a Ovidio, da Seneca a Giustiniano, racconta le norme che regolavano l'abbandono dei figli, la facoltà di venderli come schiavi o addirittura di ucciderli, evocando episodi di sconcertante violenza. Quella che svela è una storia tanto sconosciuta quanto decisiva per le nostre radici culturali, che ci spinge a riflettere sul carattere atavico e profondamente umano dello scontro tra le generazioni.
Un'indagine, quasi poliziesca, sulle tracce di un gruppo ereticale che l'Inquisizione ha tentato di cancellare dalla storia. Nell'Italia del Cinquecento, lacerata dal dissenso protestante, un monaco benedettino, Giorgio Rioli detto Giorgio Siculo, annunciò rivelazioni straordinarie. Potenti e umili, religiosi e laici lo seguirono affascinati. Giorgio Siculo consigliava ai protestanti dispersi per l'Italia di adattarsi all'ortodossia cattolica, ma ai seguaci più stretti confidava una dottrina segreta, che gli era stata comunicata - affermava - direttamente da Cristo, e che si opponeva in maniera radicale sia al protestantesimo sia al cattolicesimo. Denunciato dai protestanti all'Inquisizione romana, Giorgio Siculo venne processato a Ferrara nel 1551 come eretico, condannato e impiccato. La persecuzione dei suoi seguaci e la distruzione dei suoi scritti si protrassero ostinatamente per decenni. Delle idee di Giorgio Siculo non doveva rimanere traccia alcuna. Con una lunga ricerca, punteggiata da scoperte imprevedibili, Adriano Prosperi è riuscito a sconfiggere questa sistematica volontà di cancellazione. Attraverso il tragico destino di Giorgio Siculo affiora un capitolo sconosciuto della storia religiosa italiana ed europea.
È ormai noto che la notizia dello sterminio sistematico degli ebrei a opera dei nazisti circolava in Europa e negli Stati Uniti fin dal 1942. Eppure ci vollero tre lunghi anni prima che si ponesse fine alla barbarie del genocidio. Nel frattempo, nessuna azione militare specificamente finalizzata a sabotare la macchina nazista dell'orrore. Nessuna iniziativa diplomatica esplicitamente rivolta a fermare la mano degli aguzzini. Anzi, l'accoglienza di rifugiati ebrei in fuga dalla Germania fu resa ancor più difficile e le porte delle frontiere si chiusero per loro quasi ermeticamente. Perché? Theodore Hamerow fornisce a questo inquietante interrogativo storico una risposta sgradevole ma molto precisa: l'Olocausto non fu fermato prima perché anche le democrazie occidentali furono percorse al loro interno da una fortissima ondata di antisemitismo, che impedì ai governi di prendere misure concrete in soccorso degli ebrei. Perfino negli Stati Uniti, si tentò di far passare le notizie sullo sterminio per semplice propaganda e la questione ebraica come un problema locale. Frutto di un vastissimo lavoro d'archivio, il libro di Hamerow documenta in modo sistematico perché l'Occidente lasciò mano libera alla follia omicida nazista. Con una conclusione amara: pur sconfitto, Hitler in un certo senso ha vinto perché è riuscito a spazzare via gli ebrei dall'Europa.
Un'accurata e accorata biografia di un autentico eroe civile. Non un poliziotto, non un militare, non un politico ma un imprenditore che osò sfidare la mafia e fu ucciso per questo, nel silenzio delle istituzioni e delle associazioni di categoria. Un libro che racconta, con la passione della grande narrativa e il rigore del giornalismo d'inchiesta, la vita di Libero Grassi, l'imprenditore ucciso dalla mafia nel 1991 per il suo ostinato, pubblico rifiuto di pagare il pizzo. "Libero Grassi non è più l'industriale che ha negato il suo consenso alla mafia, ma l'emblema di una ribellione possibile. I quotidiani ripetono ossessivamente gli stessi termini. Su tutte spiccano due parole: simbolo ed eroe. Il 29 agosto del 1991, secondo l'Eurispes, è nata una figura imprevista, destabilizzante per la mafia e per lo stato che la combatte: la figura dell'eroe. Un eroe diverso da quelli belli, prepotenti e rampanti celebrati nei film, nelle riviste patinate e persino dai partiti politici degli anni ottanta. Un eroe, privo di particolari superiorità, che smaschera la pochezza dei finti coraggiosi, paladini del lusso, cultori dell'immagine ed esperti della comunicazione di massa. Uomini e donne normali il cui rigore morale individuale diviene, nella latitanza di personaggi pubblici carismatici, punto di riferimento sostanziale a cui affidare la difesa del bene comune." Postfazione di Davide Grassi.
Gli ultimi due decenni del Novecento hanno profondamente trasformato l'America Latina. Oggi la regione latinoamericana presenta un volto nuovo: la democrazia si è consolidata e per la prima volta sembra essersi conclusa l'oscillazione regimi democratici/regimi autoritari tipica del secolo passato, si è creata una classe dirigente nuova, si sono diffusi esperimenti di politiche riformiste e partecipative mentre la società civile è coinvolta in un processo di complessità crescente. L'altro volto di questa incipiente modernizzazione sono alcuni persistenti retaggi del passato e le ardue sfide che la regione deve ancora affrontare: la violenza del crimine organizzato, la fragilità dello stato di diritto e la fortissima diseguaglianza in quella che rimane ancor oggi la regione più diseguale al mondo. Il libro offre una rilettura critica dei principali processi politici, sociali ed economici del Ventesimo secolo necessaria alla comprensione di un complesso e contradditorio presente, restituendo all'America Latina la sua dimensione culturale e pluralistica.
L'ascesa al potere in Europa dopo la Grande Guerra dei regimi totalitari, portatori di concezioni dell'uomo e della vita contrarie alla dottrina e all'etica cristiane, obbligò le Chiese e i credenti ad affrontare il problema della compatibilità tra totalitarismo e cristianesimo. Se il bolscevismo suscitò la quasi unanime condanna da parte cristiana, più complesso e ambivalente fu il confronto con fascismo e nazionalsocialismo. Ci furono credenti che seppero comprendere subito la gravità della minaccia dei totalitarismi per il cristianesimo e la civiltà umana, e li combatterono con decisione e convinzione. Tuttavia la Chiesa cattolica in Italia e le Chiese protestanti in Germania cercarono di stabilire un dialogo e un rapporto con gli Stati totalitari. In Italia, il primo paese occidentale con un regime a partito unico che sacralizzava la politica e celebrava il culto del capo, Mussolini si era presentato con il Concordato come difensore della Chiesa, la quale considerava il fascismo, come poi il nazionalsocialismo, un "baluardo" contro il bolscevismo, la modernità liberale e la democrazia laica, ma trovava insieme nella religione politica fascista un potenziale concorrente. In Germania, le componenti neopagane che proponevano il nazionalsocialismo come nuova religione anticristiana indussero vescovi cattolici ed esponenti delle confessioni religiose protestanti alla presa di distanza dal regime di Hitler. Il volume indaga gli ambigui rapporti tra chiese e stati totalitari.