
Una rilettura della rivalità tra due potenze del mondo antico che, nel corso dei secoli, sono diventate punti di riferimento per filosofi, politici, sociologi e rivoluzionari. Due città che, ancora oggi, rappresentano modelli di Stato ideali e contrapposti. Da un lato un ordinamento democratico, innovativo, aperto agli scambi e al commercio; dall'altro un mondo chiuso, conservatore, ispirato a valori di tipo militare in nome dei quali i cittadini accettavano con orgoglio le restrizioni delle libertà individuali. È così che sono sempre state descritte Sparta e Atene, ma come distinguere la realtà dalla rappresentazione? Dopotutto le due poleis erano nate dalla stessa cultura, parlavano la stessa lingua, onoravano gli stessi dei. Avevano combattuto fianco a fianco contro un comune nemico, i Persiani, prima di trasformarsi da alleate in nemiche. Partendo dal racconto di questo antagonismo, con un'attenzione speciale alle istituzioni sociali oltre che politiche - in particolare alla formazione del cittadino e alla condizione femminile -, Eva Cantarella approda al «riuso», operato da parte della cultura occidentale, di due sistemi che, di volta in volta, sono stati invocati tanto da chi aspirava a fondare uno Stato democratico, tanto da chi voleva dar vita a uno Stato autoritario, totalitario, tirannico.
Il mito di Napoleone, «l'uomo che suonava la musica dell'avvenire», continua a coinvolgere e intrigare sempre nuove generazioni. Di che cosa è fatta la sua eccezionalità? Come si è sviluppata e che cosa ha prodotto? Dopo "N." (Premio Strega 2000), che racconta i dieci mesi dell'Elba, Ernesto Ferrero ha continuato a indagarne gli aspetti che possono rivelarlo meglio e che ci toccano più da vicino: le inesauribili capacità organizzative, le tecniche di comunicazione, la progettualità visionaria, l'introduzione della meritocrazia, il culto del budget, le politiche economiche e culturali, l'attenzione per l'arte e per il libro, la rifondazione della macchina dello Stato, a partire dal Codice civile. Con una narrazione incalzante e in un fitto intreccio di storie e personaggi, il libro condensa in venti temi-chiave le ragioni di un'ascesa e di una caduta fuori misura (dalla prima campagna d'Italia all'Egitto, dalla Russia a Waterloo, all'esilio sull'isola di Sant'Elena) e i retroscena di un «sistema operativo» che fa di Napoleone il fondatore della modernità.
Secondo Plinio il Vecchio, se la 'vitalitas' dell'uomo risiede nelle ginocchia, la memoria risiede «nell'orecchio». Relegare questa affermazione nello sgabuzzino delle curiosità sarebbe un errore. «La memoria dell'orecchio» infatti ha l'immediato potere di svelarci uno dei fattori determinanti nella formazione della cultura romana, la parola parlata. I Romani cioè, e molte altre testimonianze ce lo confermano, sono ancora consapevoli del fatto che i costumi, le norme, i rituali, il ricordo del passato si tramandano (e si ricostruiscono) per via aurale. Come recita un proverbio ghanese «le cose antiche stanno nell'orecchio». A Roma non solo la produzione letteraria, ma anche il diritto, la pratica dello 'ius', viveva di «parola parlata», tanto che ai caratteri dell'alfabeto essa oppose spesso un'abile resistenza. E che dire del destino, concepito non come una «porzione» di vita ('móira'), alla maniera dei Greci, ma come una «parola», 'fatum', pronunziata dall'una o l'altra divinità? Perfino la norma indiscutibile e suprema che regolava il giusto e l'ingiusto, il lecito e l'illecito, ossia il 'fas', traeva origine da questa sfera: 'fas est', celebre e solenne locuzione romana, altro non significava se non «è parola che», proprio come molti secoli dopo si dirà «sta scritto che». Anche a Roma, però, la parola è soprattutto un evento sonoro. Come rivela la meravigliosa tessitura di «armonie foniche» che avvolgeva gli enunciati della produzione poetica, religiosa e giuridica di Roma arcaica: «armonie foniche», così le definì il grande Ferdinand de Saussure, che fu tra i primi ad appassionarsene.
Per molti secoli sono state ritenute interessanti solo le opere e i libri degli uomini, mentre le donne sono state addestrate a non avere talento. Sono state silenziate, dimenticate, messe fuori. La soluzione ora è ricostruire l'intero campo su cui si gioca la partita della cultura. La tesi di fondo di questo libro è: come smettere di considerare il mondo solo in termini maschili. Uscire da questa "naturalezza" e da questa "normalità" pregiudiziali non è un obiettivo polemico, ma un'opportunità critica di crescita e di confronto, anche interculturale. Per smettere di considerare il mondo e la cultura solo in termini maschili non si tratta di guardare il paesaggio culturale del Novecento, per esempio, aggiungendo anche le donne, né di ripetere la logica dell'harem, dell'aiuola, o del club per soli uomini. Bensì di far contare la presenza e l'importanza delle donne, anche quando sono state ammutolite o oscurate. Per tanto tempo le donne sono state abituate a sentirsi incapaci e senza talento. La memoria delle loro opere non ha contato. Per illuminare uno spazio così fuori campo non basta aggiungere nomi, né la soluzione è cancellare il passato. Piuttosto, servono altre parole e nuove inquadrature.
Le donne furono protagoniste della Resistenza: prestando assistenza, combattendo in prima persona, rischiando la vita. Una «metà della Storia» a lungo silenziata a cui Benedetta Tobagi ridà voce e volto, a partire dalle fotografie raccolte in decine di archivi. Ne viene fuori un inedito album di famiglia della Repubblica, in cui sono rimesse al loro posto le pagine strappate, o sminuite: le pagine che vedono protagoniste le donne. "La Resistenza delle donne" è dedicato «A tutte le antenate»: se fosse una mappa, alla fine ci sarebbe un grosso «Voi siete qui». Insieme alle domande: E tu, ora, cosa farai? Come raccoglierai questa eredità? La storia delle donne italiane ha nella Resistenza e nell'esperienza della guerra partigiana uno dei suoi punti nodali, forse il più importante. Benedetta Tobagi la ricostruisce facendo ricorso a tutti i suoi talenti: quello di storica, di intellettuale civile, di scrittrice. "La Resistenza delle donne" è prima di tutto un libro di storie, di traiettorie esistenziali, di tragedie, di speranze e rinascite, di vite. Da quella della «brava moglie» che decide di imbracciare le armi per affermare un'identità che vada oltre le etichette, alla ragazza che cerca (e trova) il riscatto da un'esistenza di miseria e violenza, da chi nell'aiuto ai combattenti vive una sorta di inedita maternità, a chi nella guerra cerca vendetta e chi invece si sente impegnata in una «guerra alla guerra», dalle studentesse che si imbarcano in una grande avventura (inclusa un'inedita libertà nel vivere il proprio corpo e a volte persino il sesso), alle lavoratrici per cui la lotta al fascismo è la naturale prosecuzione della lotta di classe. Tobagi racconta queste storie facendo parlare le fotografie che ha incontrato in decine di archivi storici. Ne viene fuori quasi un album di famiglia della Repubblica, ma in cui sono rimesse al loro posto le pagine strappate, o sminuite: le pagine che vedono protagoniste le donne. Un libro che possiede il rigore della ricostruzione storica, ma anche una straordinaria passione civile che fa muovere le vicende raccontate sullo sfondo dei problemi di oggi: qual è il ruolo delle donne, come affermare la propria identità in una società patriarcale, qual è l'intersezione tra libertà politiche, di classe e di genere, qual è il rapporto tra resistenza civile e armata, tra la scelta, o la necessità, di combattere e il desiderio di pace?
La rivisitazione storica, politica e culturale del celebre ciclo di affreschi del Buon Governo, dipinto da Ambrogio Lorenzetti nel 1338 nel Palazzo Pubblico di Siena, mutando i linguaggi della comunicazione politica.
Un tramonto e un'aurora, un declino e un'affermazione. La fine di Roma assomiglia a due figure che si rispecchiano l'una nell'altra, ora opposte ora strettamente connesse, come lo sono due lottatori che si stringono reciprocamente nel tentativo di sopraffarsi. In questo nuovo, affascinante affresco storico, Corrado Augias ci presenta la Roma cristiana, raccontando le storie di uomini, donne, luoghi e monumenti che caratterizzarono la fine del vecchio mondo, e annunciarono l'inizio e il trionfo di una nuova epoca. All'inizio del IV secolo l'Impero romano contava circa settanta milioni di abitanti, e si stima che meno del dieci per cento della popolazione aderisse alla religione cristiana. Una minoranza, ma in crescita. Adottare dunque quella religione, ammetterla tra le fedi consentite e dichiararsene membro, fu, da parte di Costantino, un gesto di immensa audacia. Dopo aver annientato il penultimo dei suoi concorrenti, Marco Aurelio Valerio Massenzio, nella famosa battaglia di Ponte Milvio, Costantino entrò trionfalmente a Roma percorrendo per l'intera lunghezza la via Lata (attuale via del Corso). Era il 29 ottobre del 312, giorno che può essere scelto come la data ufficiale di passaggio tra mondo antico e mondo cristiano. Ma nei fatti non è proprio cosí. Le date che indicano i grandi passaggi della storia umana sono sempre convenzionali. È difficile dire da quanto tempo quei nuovi modi di sentire e di vivere avessero realmente avuto inizio, quali e quanti fattori li avessero determinati e quali altri provocarono invece il declino e la scomparsa di riti, simboli, credenze, costumi sui quali milioni di individui avevano basato la propria esistenza. Resta che nel 324, diventato imperatore unico Costantino, la religione cristiana aveva assunto un'importanza e una dimensione mondiali e che sul finire del secolo l'imperatore Teodosio, detto il Grande, con il suo Editto di Tessalonica, la rendeva unica e obbligatoria. Era solo un primo passo; sarebbe stato via via completato proibendo culto e sacrifici pagani con la minaccia di punizioni severissime, compresa la pena di morte. In pochi anni i cristiani si erano trasformati da perseguitati in persecutori, e il mondo si apprestava a conoscere una nuova fase della sua storia. Tra sapere e meraviglia, Corrado Augias ci guida sui luoghi che furono protagonisti della rivoluzione cristiana, svelando monumenti e rovine che continuano a dare potente testimonianza della fine di un mondo. Ne risulta un'avventura affascinante - e un modo nuovo di vedere Roma - che dà alle pagine l'incanto che sempre deriva dal piacere della scoperta.
«Vittima com'è di una disperata follia di annientamento e di distruzione, Antigone non ama nessuno, così come non ama sé stessa: il suo solo e vero amore è la morte». In una rilettura controcorrente della più celebre figura tragica della classicità, Eva Cantarella smonta pezzo per pezzo le basi su cui si fonda il mito di Antigone. Per la sua determinazione a dare sepoltura al fratello Polinice, violando la legge cittadina per obbedire a una legge non scritta, Antigone ha rappresentato nei secoli il modello insuperato di chi si oppone a un regime tirannico, di chi reagisce di fronte ai diritti calpestati e negati, di ogni donna in lotta contro il potere maschile. Ma questa figura che sembra racchiudere in sé ogni virtù non corrisponde al personaggio cui Sofocle ha dedicato l'omonima tragedia oltre 2500 anni fa. Ed è esplorando la distanza tra mito e personaggio che Eva Cantarella mette in luce lati sorprendentemente negativi dell'eroina da tutti osannata e arriva a contestare il ruolo di despota attribuito a Creonte, protagonista di una drammatica vicenda umana e politica che lo rende una figura non meno interessante e non meno tragica. Proprio come in un'orazione, portando prove a sostegno della propria tesi e confutando gli argomenti di potenziali avversari, la più grande studiosa italiana di diritto greco traccia un profilo di Antigone spiazzante e inevitabilmente divisivo.
Nel centenario della marcia su Roma che dette inizio alla dittatura fascista tocca a Liliana Segre - che nel 1938 fu espulsa da scuola a causa delle leggi razziste e nel 1944 fu deportata ad Auschwitz - presiedere la prima seduta del Senato della XIX legislatura. Ne nasce un discorso memorabile, di rilevanza storica e civile, una dichiarazione d'amore per la Costituzione repubblicana, «non un pezzo di carta, ma il testamento di centomila morti caduti nella lunga lotta per la libertà». Se il fascismo è stato «il filo nero che dalle leggi razziali ha portato alla Shoah», l'articolo 3 della nostra Costituzione è la «stella polare» che, afferma la senatrice Segre, «bandisce le discriminazioni e impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono ai cittadini il pieno sviluppo dei loro diritti, delle loro libertà, della dignità». Completano il volume una accorta introduzione di Alessia Rastelli, un breve nuovo testo di Liliana Segre e il saggio conclusivo di Daniela Padoan, che situa il discorso al Senato nella parabola di una tra le più alte testimoni della Shoah. Introduzione di Alessia Rastelli.
Le radici cristiane dell'Europa sono uno dei grandi miti del nostro tempo. Le radici cristiane dell'Europa sono un mito storico-identitario. Pretendono di dirci non soltanto da dove veniamo, ma anche chi siamo e, soprattutto, non possiamo non essere, perché - come affermano i sostenitori del mito - un albero cui vengono tagliate le radici muore. Nei due secoli abbondanti della loro storia, le radici cristiane dell'Europa hanno cercato soprattutto di elevare alcuni (la Chiesa e i cattolici) al di sopra degli altri. Questo libro costituisce la prima storia del mito, dalla Rivoluzione francese ai giorni nostri. Anche perché le radici cristiane dell'Europa sembrano essere giunte a una svolta. Spesso c'è un confine sottile - anzi, sottilissimo - tra il vero e il falso. È questo il caso delle «radici cristiane dell'Europa», che possono essere tanto una rappresentazione oggettiva, perfino scientifica, della realtà, quanto una rappresentazione ideologica della realtà stessa, cioè un mito. Da oltre due secoli, infatti, si confrontano due modi apparentemente simili, eppure estremamente differenti (se non opposti), di raccontare la storia europea e, in particolare, il ruolo esercitato, al suo interno, dalla religione cristiana. Il primo, che affonda le sue radici nella riscoperta romantica della religione, presenta semplicemente il cristianesimo come un elemento fondamentale del passato dell'Europa; il secondo, che risale alla Controrivoluzione francese ed europea dell'ultimo decennio del Settecento, presenta il cristianesimo, invece, come l'elemento chiave di quel passato. Questo libro ricostruisce la lunga storia del secondo, dall'assedio di Lione da parte dell'esercito rivoluzionario francese (1793) all'attuale presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni, passando per tanti altri luoghi, attori (praticamente tutti maschi) ed eventi della storia europea degli ultimi due secoli. Le radici cristiane dell'Europa sono un mito in tutti i sensi. Innanzitutto, sono un racconto falso (anche se non fantastico) sulle origini di una cultura, tramandato - e continuamente trasformato - per legittimare un certo sistema sociale. Inoltre, rappresentano il frutto dell'idealizzazione di eventi e personaggi del passato, a cominciare dalla «cristianità» medievale.
Sapevate che Pandora ha scoperchiato il celebre vaso perché era una maniaca della pulizia e voleva spolverarlo? E che Achille è stato un bambino cagionevole e si è preso tutte le malattie esantematiche, pure quelle che non esistono? Per non parlare di Ulisse, che per smascherare Achille e arruolarlo si è travestito da venditore ambulante di borse taroccate. La mitologia classica come non l'avete mai letta, rivisitata dal talento irresistibilmente comico di Enrico Brignano. Da quando sua figlia ha imparato a memoria le fiabe più conosciute, Enrico Brignano ha dovuto architettare nuovi modi per intrattenerla e per farla addormentare. Ha cominciato allora ad attingere dal serbatoio infinito di storie della letteratura greca, pescando tra le reminiscenze scolastiche e lavorando di fantasia per colmare le lacune ed evitare le domande scomode della sua piccola ascoltatrice. Nasce così questa divertentissima raccolta di miti classici reinventati, in cui la sua scatenata immaginazione ci mostra dèi, eroi e personaggi tragici in una veste inedita ed esilarante. «Può sembrare niente, ma l'Olimpo era il condominio divino con guardia alla reception h24, un luogo molto esclusivo dove non è che potessero entrare pizza e fichi, ma solo gente selezionata, un po' come nel backstage dei Maneskin! E a Zeus, il capoccia di tutto il cucuzzaro di divinità, stava talmente simpatico Prometeo che a un certo punto lo convocò e gli disse: Prome', senti, qui si sta bene per carità, il vicinato è ottimo, si mangia bene, le case sono belle e non ci manca niente. Però un po' ci si annoia. Allora avrei pensato, no?, perché non ti occupi di impastare degli esseri a nostra immagine e somiglianza, così li piazziamo sulla terra e vediamo un po' che combinano? Ci mischiamo a loro, gli mandiamo qualche maledizione... insomma, passiamo il tempo».