
Questo libro di Eva Cantarella, completamente rivisto per questa nuova edizione, si è guadagnato lo status di assoluto riferimento in un settore, quello sulle pene capitali, da sempre prodigo di riflessioni. L'autrice incrocia ogni tipo di fonte, dalla letteratura ai testi giuridici, dalle pratiche religiose al semplice uso comune, riuscendo a delineare un quadro completo di quali fossero le motivazioni, le modalità e i limiti della pena di morte nella Grecia antica e a Roma. L'epoca classica, spesso idealizzata come "luogo arcadico" della storia dell'uomo, o al contrario utilizzata dall'industria dell'intrattenimento come teatro grand guignol, rivela qui finalmente tutta la sua complessità e le sue sfaccettature, in un intreccio continuo di razionalità e ferocia. E il tema della pena di morte viene spogliato dei luoghi comuni e delle banalità, anche grazie al penetrante saggio introduttivo che guida il lettore in un excursus storico degli intellettuali e delle scuole di pensiero che della "morte di Stato" si sono occupati da vicino.
25 agosto 1939: l’Inghilterra e la Polonia firmano un patto di alleanza per garantirsi mutua assistenza in caso di attacco militare tedesco. 3 settembre 1939: l’Inghilterra e la Francia dichiarano separatamente guerra alla Germania, che due giorni prima ha invaso la Polonia. Per dieci giorni l’Europa vive sull’orlo di una crisi di cui nessuno prevede ancora tutte le conseguenze. Lo scoppio della guerra la precipiterà in una delle più grandi tragedie della sua storia.
Richard Overy ci immerge nel ritmo incalzante degli eventi di quei drammatici dieci giorni grazie a un racconto capace di coniugare al meglio analisi e narrazione. Giorno per giorno seguiamo l’evolvere della situazione fino al terribile epilogo finale: l’ultimatum tedesco, i travagli di inglesi e francesi, le manovre italiane, gli estremi tentativi diplomatici, l’atmosfera febbrile in cui maturano scelte decisive.
Tutto inevitabile? Forse sì, se per molti europei la guerra appariva ormai l’unico sbocco possibile per le troppe tensioni politiche, economiche e sociali accumulatesi nel corso degli anni trenta. Eppure calarsi nuovamente nel cuore degli eventi prebellici significa anche riconoscere tutte le incertezze del momento, ripercorrere le diverse opzioni in campo, ricostruire gli errori di prospettiva, le alternative mancate, gli azzardi e le scommesse: in una parola, rivivere il passato come solo i migliori libri di storia ci aiutano a fare.
"Tutto il mondo è paese non vuol dire che tutto è uguale: vuol dire che tutti siamo spaesati rispetto a qualcosa e a qualcuno." Il libro indaga, da punti di vista diversi, le potenzialità cognitive e morali, costruttive e distruttive dello spaesamento e della distanza. Perché una lunga tradizione ha attribuito allo sguardo dell'estraneo - del selvaggio, del contadino, dell'animale - la capacità di svelare le menzogne della società? Perché la riflessione sul mito serve a distanziare la realtà, mentre il mito è spesso uno strumento politico per controllare gli ignari? Perché nel Medioevo, durante i funerali del re di Francia e d'Inghilterra, veniva portato in processione un fantoccio detto "rappresentazione"? Perché il Cristianesimo fece propria la proibizione mosaica delle immagini ma favorì da un certo momento in poi la diffusione di immagini devozionali? Perché lo stile è stato usato, a seconda dei casi, per includere o escludere ciò che è culturalmente diverso? Perché ricorriamo così spesso a metafore visive come "prospettiva" o "punto di vista"? Uccidereste un mandarino cinese sconosciuto se vi venisse offerta una grossa somma?
Agitazioni e riforme dal luglio 1846 al gennaio 1848 - La rivoluzione e i primi due mesi della guerra d'indipendenza - La crisi del federalismo e del neoguelfismo. La reazione a Napoli. Il fallimento della guerra regia - La crisi del moderatismo e la riscossa democratica - Il 1849
Salutata ogni volta all'apparire dei singoli volumi che la compongono da un caldo e crescente successo di critica e di pubblico, la "Storia dell'Italia moderna" di Giorgio Candeloro ha ormai un grande e incontestato rilievo nella storiografia italiana e non solo italiana del dopoguerra. L'ininterrotta, meritoria fatica con cui l'Autore ha dato vita a un'opera di carattere generale, non rigidamente specialistica, ma costantemente a un alto livello specialistico, ha acquisito in questi anni "una funzione insostituibile, di permanente riferimento per la conoscenza del modo col quale si è venuto formando il nostro paese" (Ernesto Ragionieri).
Quella di Candeloro - secondo un giudizio che Paolo Spriano formulò nel 1968 e che i fatti hanno confermato - è "un'opera che resterà".
Giorgio Candeloro nato a Bologna nel 1909 e morto nel 1988, ha preso parte alla Resistenza. Docente universitario, dopo ricerche di storia del pensiero politico, si dedica a una grande ricostruzione della storia politica e sociale dell’Italia moderna e contemporanea che proseguirà per un trentennio: il primo degli undici volumi della Storia dell’Italia moderna è uscito, infatti, nel 1956 e l’ultimo nel 1986.
"Anni di piombo". Con questa espressione un po' spettrale si è creduto – e tuttora spesso si crede – di poter riassumere un intero decennio della nostra storia, quello che va dalla strage di Piazza Fontana del dicembre 1969 al "riflusso" degli anni ottanta. Eppure sotto quella coltre di piombo restano ancora seppellite le tracce e le storie di troppi protagonisti, in primo luogo le vittime innocenti ma non inconsapevoli di una violenza che le ha travolte insieme ai movimenti e alle idee alle quali avevano deciso di dedicare la propria vita. È un passato che in Italia non riesce ancora a passare, ma su cui non si riesce a costruire una memoria pubblica condivisa.
Le "ragioni" degli anni settanta vengono ora esplorate da Giovanni De Luna in questa ricostruzione appassionata e coinvolgente. Non si tratta di difendere il decennio dai suoi detrattori. Piuttosto, il tentativo è quello di smontarlo, di sottrarlo a immagini troppo univoche. Solo così possono riemergere le coordinate di uno straordinario impegno politico e i contorni di una militanza dai tratti profondamente originali, solo così riesce a rivivere uno "spirito del tempo" fatto non solo di violenza, ma di canzoni, film, intrecci della memoria e rapporto con la Storia.
Il periodo tra il 1943 e il 1948 è stato uno dei più convulsi della storia italiana e internazionale, e ha sollevato molte questioni nel dibattito storiografico e pubblicistico. Novacco ritiene che il passaggio cruciale si sia verificato tra settembre e novembre 1947, allorché una commissione elaborò il progettto costituzionale poi approvato dall'Assemblea costituente nel dicembre 1947. La Costituzione italiana in ragione della scarsa chiarezza di principi e della natura ibrida di alcuni istituti generali avrebbe finito per frenare la vita democratica del paese. L'auspicio dell'autore per il futuro non è altro che uno stato di diritto, dove il parlamento legiferi, il governo emani i decreti, la magistratura pronunci le sentenze.
Salutata ogni volta all'apparire dei singoli volumi che la compongono da un caldo e crescente successo di critica e di pubblico, la "Storia dell'Italia moderna" di Giorgio Candeloro ha assunto un grande e incontestato rilievo nella storiografia italiana e non solo italiana del dopoguerra. L'ininterrotta, meritoria fatica dell'autore ha dato vita a un'opera di carattere generale, non rigidamente specialistica, ma costantemente a un alto livello scientifico, che ha acquisito in questi anni "una funzione insostituibile, di permanente riferimento per la conoscenza del modo col quale si è venuto formando il nostro paese" (Ernesto Ragionieri). Quella di Candeloro - secondo un giudizio che Paolo Spriano formulò già nel 1968 e che i fatti hanno confermato nei decenni successivi - è "un opera che resterà". In questo volume: Agitazioni e riforme dal luglio 1846 al gennaio 1848; La rivoluzione e i primi due mesi della guerra d'indipendenza; La crisi del federalismo e del neoguelfismo. La reazione a Napoli. Il fallimento della guerra regia; La crisi del moderatismo e la riscossa democratica; Il 1849.
Chissà se è vero che dietro ogni grand'uomo ci sia una grande donna. È vero che spesso dietro una grande donna non c'è che lei. Quando Cristina di Belgiojoso dirigeva in Francia la "Gazzetta italiana", Terenzio Mamiani protestò che "un giornale politico, primo di tal fatta per l'Italia, fosse diretto da una donna". Poveri uomini: anche i più grandi. Alessandro Manzoni, per esempio, turbato dalla "manìa di quella signora di diffondere l'istruzione ne' suoi contadini". Cristina ebbe una vita straordinaria: "bambola da salotto, topo di biblioteca e strega, principessa rivoluzionaria e infermiera, zingara e pellegrina'". Il poeta Heine la descrisse come "una bellezza assetata di verità". Al centro della sua personalità, dei suoi amori e delle sue peregrinazioni stette la passione politica. Aspettò lungamente la stagione che si chiamò primavera dei popoli (nome tornato improvvisamente vivo ai giorni nostri), la preparò e vi si preparò. Gli scritti qui raccolti su Milano e Venezia uscirono alla fine di quel 1848 a Parigi. "La libertà individuale puramente politica," pensava allora, "non è favorevole che alla liberazione effettiva di alcune classi privilegiate... Il principio realmente popolare, il principio democratico ed evangelico è il principio dell'uguaglianza. "Corsa poi a condividere la "democrazia pura" della Repubblica romana del '49, pur annotando le "minchionerie molte e varie" dei triumviri, Cristina fu a capo del soccorso ai feriti.
1703: più di tre secoli fa nasceva Sankt-Piterburg. La costruzione di Pietroburgo significò molte cose, ma prima di tutto un atto di predominio con il quale Pietro il Grande volle imporsi alla natura e agli uomini. Mosca, la terza Roma, la città degli zar, era simbolo della guerra contro i tartari, dell'unificazione, della diffusione della fede ortodossa. Ma alle porte della Russia premeva un mondo dinamico, in cui, accanto agli interessi mercantili, fiorivano attività scientifiche e culturali. Pietro I, che nutriva per l'Europa un amore pari forse all'odio per le vecchie tradizioni nazionali del suo paese, decise di occidentalizzare la Russia, e fondò Pietroburgo proprio per aprire una grande finestra sull'Europa. Luogo d'incontro di due civiltà, porto commerciale di grande importanza, capitale della Russia e residenza dello zar, la città raggiunse ben presto l'imponenza delle maggiori capitali europee, da cui prese a prestito non solo criteri urbanistici e architettonici, ma anche istituzioni, usanze, costumi. E uomini. Scienziati, matematici, esperti di costruzioni nautiche, architetti, pittori, attori, musicisti. Le riforme di Pietro avevano forzato la sonnolenta Russia a mettersi al passo con le nazioni dell'Ovest nel corso di pochi decenni: la città entrò nella letteratura e nell'arte. Il mito di Pietroburgo è il libro fondamentale per capire il fascino dell'antica capitale russa, un autentico classico della storiografia.
Un'indagine, quasi poliziesca, sulle tracce di un gruppo ereticale che l'Inquisizione ha tentato di cancellare dalla storia. Nell'Italia del Cinquecento, lacerata dal dissenso protestante, un monaco benedettino, Giorgio Rioli detto Giorgio Siculo, annunciò rivelazioni straordinarie. Potenti e umili, religiosi e laici lo seguirono affascinati. Giorgio Siculo consigliava ai protestanti dispersi per l'Italia di adattarsi all'ortodossia cattolica, ma ai seguaci più stretti confidava una dottrina segreta, che gli era stata comunicata - affermava - direttamente da Cristo, e che si opponeva in maniera radicale sia al protestantesimo sia al cattolicesimo. Denunciato dai protestanti all'Inquisizione romana, Giorgio Siculo venne processato a Ferrara nel 1551 come eretico, condannato e impiccato. La persecuzione dei suoi seguaci e la distruzione dei suoi scritti si protrassero ostinatamente per decenni. Delle idee di Giorgio Siculo non doveva rimanere traccia alcuna. Con una lunga ricerca, punteggiata da scoperte imprevedibili, Adriano Prosperi è riuscito a sconfiggere questa sistematica volontà di cancellazione. Attraverso il tragico destino di Giorgio Siculo affiora un capitolo sconosciuto della storia religiosa italiana ed europea.
È ormai noto che la notizia dello sterminio sistematico degli ebrei a opera dei nazisti circolava in Europa e negli Stati Uniti fin dal 1942. Eppure ci vollero tre lunghi anni prima che si ponesse fine alla barbarie del genocidio. Nel frattempo, nessuna azione militare specificamente finalizzata a sabotare la macchina nazista dell'orrore. Nessuna iniziativa diplomatica esplicitamente rivolta a fermare la mano degli aguzzini. Anzi, l'accoglienza di rifugiati ebrei in fuga dalla Germania fu resa ancor più difficile e le porte delle frontiere si chiusero per loro quasi ermeticamente. Perché? Theodore Hamerow fornisce a questo inquietante interrogativo storico una risposta sgradevole ma molto precisa: l'Olocausto non fu fermato prima perché anche le democrazie occidentali furono percorse al loro interno da una fortissima ondata di antisemitismo, che impedì ai governi di prendere misure concrete in soccorso degli ebrei. Perfino negli Stati Uniti, si tentò di far passare le notizie sullo sterminio per semplice propaganda e la questione ebraica come un problema locale. Frutto di un vastissimo lavoro d'archivio, il libro di Hamerow documenta in modo sistematico perché l'Occidente lasciò mano libera alla follia omicida nazista. Con una conclusione amara: pur sconfitto, Hitler in un certo senso ha vinto perché è riuscito a spazzare via gli ebrei dall'Europa.
Qual è il significato delle Fosse Ardeatine? Quale memoria ha lasciato la strage nazista compiuta a Roma il 24 marzo 1944, come rappresaglia dell'attentato partigiano di via Rasella, in cui il giorno prima erano morti 33 tedeschi? E quale rapporto si può istituire tra il ricordo di quella strage e l'identità collettiva di un'intera città? L'eterogeneità sociale e politica delle 355 persone uccise fa delle Fosse Ardeatine un avvenimento emblematico, che lega insieme "tutte le storie" di Roma: a cadere sotto il piombo tedesco furono infatti generali e straccivendoli, operai e intellettuali, commercianti e artigiani, un prete e 75 ebrei; monarchici e azionisti, liberali e comunisti, ma anche persone prive di appartenenza politica. Protagonista assoluta del libro è la voce diretta dei portatori della memoria: duecento intervistati, di cinque generazioni, e di diversissima estrazione sociale e politica (compresi fascisti ed ex fascisti). Le vicende personali dei superstiti e dei protagonisti mostrano come tutti abbiano convissuto, e convivano ancora, con una drammatica eredità. Ancora oggi, in modo singolare, le Fosse Ardeatine rappresentano un banco di prova della coscienza delle nuove generazioni. Raccolte da Alessandro Portelli, le voci di questo libro danno adito a una ricostruzione di grande respiro corale, che si struttura attorno all'elaborazione e alla fissazione di un linguaggio. Ed è il linguaggio, alla fine, a farsi storia: una storia parlata; parlata a Roma.