
Petacco ricostruisce la storia dell'"emigrazione politica" dei comunisti italiani riparati in Unione Sovietica dopo l'avvento del fascismo: attraverso grandi e piccole vicende umane, tratteggia l'atmosfera irrespirabile del Club degli emigrati di Mosca, una sorta di dopolavoro dove le riunioni si erano trasformate in processi inquisitori. Rivela come le schede compilate e inviate dal PCI, in cui venivano elencati gli "errori" politici commessi e poi corretti, si fossero rivelate delle denunce che ponevano gli sventurati alla mercé degli inquisitori di Stalin. Descrive il clima ambiguo e inquietante del Lux, l'albergo dove alloggiavano i compagni "dirigenti" e dove l'acqua scorreva nei lavandini anche la notte per confondere le "cimici" nel caso qualcuno parlasse nel sonno. E, non ultimo, la misera sorte di tanti bambini i "figli del partito" -rimasti senza genitori e spediti negli istituti organizzati dal Comintern per forgiare gli "uomini nuovi". La vita di tanti italiani si concluse drammaticamente con la fucilazione o la deportazione nel gulag. Gli emigrati che chiesero l'"onore" della cittadinanza sovietica furono i più sfortunati, perché persero ogni diritto, mentre a coloro che rimasero italiani andò un po' meglio: qualcuno tornò a casa, sia pure a prezzo del silenzio.
Da sempre motivo di profonda curiosità, gli amori di Mussolini sono stati sinora ricostruiti essenzialmente su fonti di seconda mano, spesso riciclando aneddoti ormai risaputi. Mimmo Franzinelli, grande conoscitore degli archivi storici italiani e stranieri, recupera dagli archivi di Stato e da fondi privati materiali e testimonianze finora inediti - i rapporti di polizia sulle donne del "Capo", le testimonianze di Claretta Petacci, le memorie dei collaboratori del duce, in particolare dell'autista Ercole Boratto - che consentono di ricostruire in chiave meno romanzata non solo le molteplici relazioni sentimentali di Mussolini, ma anche le sue piccole e grandi vanità, il suo bisogno di disporre contemporaneamente di più partner, la sua brama di possesso e il demone della gelosia che lo tormentava. Divenuto duce del fascismo, ai rapporti (predatori) di cameratismo degli anni giovanili Mussolini preferisce relazioni centrate sulla sua assoluta supremazia e sulla subalternità delle partner: vive la propria sessualità come l'altra faccia della politica, convinto che la donna, come la folla, ami essere posseduta e dominata. Abituato a cogliere il piacere al volo, dove e come capita, s'accoppia fuggevolmente con cameriere e precettrici, con borghesi e con nobili, senza preconcetti di rango o di cultura.
Da sempre il Mediterraneo - il "mare fra le terre" - è stato un crocevia di popoli, culture, lingue, religioni, che ne hanno fatto il cuore pulsante del Vecchio Mondo. A segnare la storia del "grande mare", il nome con cui era noto nella tradizione ebraica, non sono stati, secondo lo storico britannico David Abulafia, il clima, i venti o le correnti, ma gli uomini (navigatori, mercanti, missionari, condottieri, crociati, pellegrini, pirati), che, mettendo in contatto le regioni più remote di questo vasto bacino, lo hanno reso "forse il più dinamico luogo di interazione tra società diverse sulla faccia del pianeta". Anziché richiamarsi a un'astratta e statica "identità mediterranea", l'autore pone l'accento sul cambiamento di una regione che nel corso dei millenni ha visto sorgere e tramontare imperi e civiltà, è stata teatro di feroci battaglie per il monopolio politico e commerciale, e che infine, prima con la scoperta della rotta atlantica e poi con l'apertura del canale di Suez, ha perso sempre più importanza nelle relazioni e nei commerci internazionali, per trovare la sua nuova e insospettata vocazione nel turismo di massa e diventare, più recentemente, il complesso scenario di incessanti flussi migratori. Al centro di questa affascinante ricostruzione non ci sono soltanto gli eventi e i personaggi più importanti della storia economica, politica e militare, ma anche figure solo apparentemente di fondo...
"Siamo legati a una strana idea della politica. Non la consideriamo lo strumento che dovrebbe permetterci di vivere meglio, ma una religione, nei confronti della quale c'è solo fede cieca e nessuna voglia di ragionare. Si procede senza valutare il proprio interesse, comportamento tipico di un Paese che non sa cosa sia la patria, quindi si attacca a un partito, a una confessione religiosa, talvolta al calcio. Tutto, pur di non riconoscersi come popolo unico e come patria." Gennaro Sangiuliano e Vittorio Feltri ripercorrono le vicende fondamentali del dopoguerra, dalle origini della Repubblica fino alla nostra desolante attualità, per giungere a una conclusione sconfortante: l'Italia è una Repubblica senza patria, che è come dire uno Stato senza nazione, fatto di cittadini che si riconoscono solo nel proprio gruppo, che perseguono solo il proprio tornaconto. Gennaro Sangiuliano ricostruisce storicamente la cronaca degli anni fra il 1943 - dalla firma dell'Armistizio e dalla fuga del re - e gli anni Settanta del Novecento. La matrice che a suo parere unisce tutte le esperienze politiche italiane è la divisione, la mancanza di una prospettiva condivisa della Stato e dello sviluppo economico e culturale della nazione. Vittorio Feltri racconta invece gli anni della nostra storia più recente: dall'esperienza del centrosinistra di Fanfani alla strategia della tensione; da Mani Pulite alla nascita della Lega e all'avvento di Silvio Berlusconi sulla scena politica italiana.
Gioele Dix sapeva che suo padre Vittorio custodiva una storia, ma per anni non era riuscito a farsela raccontare. Perché a volte chi è passato da certi crepacci della Storia, chi ha vissuto l'assurdo e l'orrore, non ha molta voglia di scendere nei dettagli. Finché un giorno finalmente lo ha convinto, si è seduto davanti a lui e si è messo ad ascoltare. Ne è nato questo libro: la storia di una famiglia di ebrei italiani, era il 1938, che come molte altre fu colta di sorpresa dalle leggi razziali. Di un ragazzino che non capisce perché deve lasciare la propria scuola, la propria casa, mettere tutto quello che può dentro uno zaino e fuggire. Una storia di paure, di scelte fatali, di umiliazioni. Ma anche di lampi di inaspettata bontà umana, di angeli all'inferno. Di fiducia, speranza, ostinato ottimismo. Una storia di emozioni, di affetti, che in mezzo alla tragedia diventano più forti e forse più puri. La storia di un padre e di un figlio, raccontata da un padre a un figlio. E che senza volerlo diventa una lezione di Storia e di vita.
Siamo, dunque, alla fine della leggenda sulle origini di Roma, quando Tito Tazio prima e Romolo dopo scompaiono dalla scena: ucciso, il primo, il Sabino, dai parenti inferociti di quegli ambasciatori di Lavinio che erano stati ammazzati da briganti amici di lui (ma il sospetto ricadde su Romolo, che poco dolore aveva mostrato per la morte dell'uomo che s'era associato nel governo); sparito, il secondo, dopo aver sconfitto Fidene e Veio, nel buio di un'eclissi o di un temporale: forse eliminato dai senatori irritati dal fare sempre più monarchico del fondatore, dalla sua arroganza tirannica; oppure asceso in cielo e divenuto un dio, Quirino: come Giulio Proculo dichiarò in pubblico gli avesse rivelato Romolo stesso, apparendogli dopo la morte sul Quirinale. Se "scomodissimo" fu per i Romani ricordare "il modo della nascita della città, fra inganni, uccisioni e gentaglia", non tanto più comodo deve essere stato per loro consacrare alla leggenda la fine delle origini. Il quarto volume della Leggenda di Roma porta a conclusione il grande lavoro di raccolta e interpretazione dei miti che i Romani stessi si sono tramandati per generazioni sull'inizio e i primi sviluppi della loro città: miti che costituiscono un aspetto essenziale della storia culturale, e perciò della storia tout court, dell'antica Roma. L'architettura del volume ha però struttura circolare: perché dopo esser giunto alla fine di Romolo, ritorna al principio, alla fondazione, e ne elenca gli artefici secondo le fonti.
Un piccolo villaggio, i fratelli, gli amici, le corse nei campi, il bagno in un fiume limpido: questa è la storia vera di Leon, quella di un mondo spazzato via all'improvviso dall'invasione dei nazisti. Quando nel 1939 l'esercito tedesco occupa la Polonia, Leon infatti ha soltanto dieci anni. Ben presto lui e la sua famiglia vengono confinati nel ghetto di Cracovia insieme a migliaia di ebrei. Con coraggio e un pizzico di fortuna Leon riesce a sopravvivere in quello che ormai sembra l'inferno in terra e viene assunto nella fabbrica di Oskar Schindler, il famoso imprenditore che riuscì a salvare e sottrarre ai campi di concentramento oltre milleduecento ebrei. In questa testimonianza rimasta a lungo inedita, Leon Leyson racconta la propria storia straordinaria, in cui grazie alla forza di un bambino l'impossibile diventa possibile. Età di lettura: da 10 anni.
Chi non ha mai sentito parlare dei cavalieri templari, della loro tragica fine, dell'inesauribile leggenda e del loro favoloso tesoro? Eppure, l'esuberante bibliografia sui "Poveri cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone", nati a Gerusalemme nel 1120, ha pressoché tralasciato la storia della loro nascita. Attraverso gli indizi storici, filologici, codicologici, testuali che si trovano nei nove manoscritti superstiti della regola del Tempio, Simonetta Cerrini ricostruisce l'ideale che animò la prima comunità templare, con l'obiettivo di sfatare le leggende fiorite nel corso dei secoli, di abbandonare i luoghi comuni storiografici e soprattutto di intraprendere nuove vie di ricerca. Proprio quando si era ormai affermata la separazione tra chierici e laici, e i chierici avevano assunto il monopolio del sacro, i templari sostennero la loro piena appartenenza al mondo dei chierici pur restando assolutamente laici. Al di là dell'impegno militare nell'esercito crociato, questa loro autonomia spirituale - di cui ancora non si sapeva nulla - si attuerà nella diffusione della cultura religiosa in lingua volgare e nel confronto con altre esperienze religiose, come l'islam o il cristianesimo d'Oriente.
All'inizio di agosto del 1914 scoppia la prima guerra mondiale. L'Italia rimane estranea alle ostilità fino al 24 maggio 1915, ma le sue responsabilità in relazione al conflitto sono molto gravi e risalgono a qualche tempo prima. Nel 1911 l'Europa è infatti in un sostanziale equilibrio, lo sviluppo economico è tumultuoso e le grandi potenze hanno risolto quasi tutti i loro contrasti coloniali: l'unico elemento di instabilità viene dall'impero ottomano, il cui collasso porterebbe a conseguenze imprevedibili. In particolare è preoccupante la situazione nei Balcani, dove i nazionalismi serbo, bulgaro, greco e rumeno aspirano a un riassetto generale della regione a spese dei territori appartenenti a Costantinopoli. Dopo oltre un quarantennio di pace fra le potenze del continente, è l'Italia che riapre la stagione dei conflitti, invadendo le province ottomane di Tripolitania e Cirenaica. Giolitti, indifferente ai problemi continentali, è alla ricerca di una vittoria militare di prestigio che taciti le opposizioni di destra e rifiuta ogni offerta di cessione di fatto dei territori avanzata da Costantinopoli, conservandone la sovranità nominale, sull'esempio dell'Egitto e dell'Algeria, da anni protettorati inglese e francese. Nasce così l'impresa di Libia, inutile e proditorio attacco all'impero ottomano.
In questo secondo volume della sua monumentale opera di ricostruzione della presenza ebraica in Italia, Riccardo Calimani ripercorre i tre secoli cruciali che vanno dall'espulsione nel 1492 degli ebrei dalla Penisola iberica e da tutti i domini spagnoli alla Rivoluzione francese (1789) e all'Impero napoleonico, fino alla Restaurazione di inizio Ottocento. Una storia contrassegnata da una radicale redistribuzione territoriale degli insediamenti ebraici - presenti, dal Cinquecento, quasi esclusivamente nelle regioni centro-settentrionali del nostro Paese - e, dal punto di vista politico e religioso, dalla poderosa influenza dell'Inquisizione e dai rigori della Controriforma. Punto di svolta decisivo di questa fase della storia della comunità ebraica italiana è l'istituzione del ghetto romano ("il serraglio degli ebrei") sancita dalla bolla di Paolo IV Cum nimis absurdum del 1555. Una scelta di segregazione, quella del ghetto, ideata a Venezia nel 1516, che si sarebbe estesa da Roma a numerose città della Penisola. E se è vero che fu applicata in modi diversi dai principi e signori locali, che agivano in funzione della loro autonomia dalla Santa Sede o per semplice convenienza di potere, a rimanere invariato fu invece il rapporto contraddittorio tra mondo cristiano e mondo ebraico, in bilico tra bisogni e interessi concreti (i banchi di prestito, le tasse e le contribuzioni forzose) e le ricorrenti pulsioni teologiche contro il "popolo maledetto"...
Il cibo, i modi di cucinarlo e consumarlo possono narrare un paese meglio di tante cronache storiche. E proprio oggi che in Italia la cucina è la regina della programmazione televisiva, è importante ritrovarne la memoria. Perché la (buona) tavola è un fatto sociale e culturale, è appartenenza e ricordo, la rappresentazione più intima della nostra identità, tanto che non è azzardato affermare che molti mutamenti del nostro paese possono essere letti attraverso il cibo e la sua preparazione. "Fornelli d'Italia" è un viaggio nel tempo e nei tempi della nostra terra, alla scoperta di come e quanto sia cambiata l'Italia da quel fatidico 1861 in cui siamo diventati nazione. Un viaggio raccontato da un punto di vista originalissimo, quello delle molte straordinarie cuoche che si sono avvicendate nelle cucine delle nostre case. Infatti, mentre la gastronomia, colta e raffinata, è da sempre descritta da quegli stessi uomini che la interpretano (i grandi chef che oggi spopolano come vere star), il quotidiano "far da mangiare", costruito silenziosamente e meticolosamente dalle donne, non ha mai avuto celebri cantori. Con occhi femminili, quelli delle padrone dei fornelli, Stefania Aphel Barzini riscrive la storia d'Italia attraverso il cibo. Una storia che, come in un gioco di scatole cinesi, ne racchiude molte altre, ricche di personaggi sorprendenti, di aneddoti, di ricette narrate anche grazie all'aiuto della pubblicità, dei film, dei giornali e delle riviste dell'epoca.
Porta d'accesso al "secolo breve", guerra che avrebbe dovuto porre fine a tutte le guerre, "inutile strage": il primo conflitto mondiale fu una tragedia che costò la vita a oltre nove milioni di persone. La Grande guerra fu lo sbocco finale della corsa agli armamenti perseguita dalle principali potenze europee (in particolare dalla Germania), il frutto avvelenato dell'imperialismo. Ma davvero il Reich tedesco rappresentava una minaccia per l'ordine e la stabilità dell'Europa? Davvero si trattò di un conflitto inevitabile? A queste e altre domande risponde lo storico Niall Ferguson. Muovendosi in una interdisciplinare "terra di nessuno", confrontando dati economici e finanziari, rileggendo i testi dei "poeti di guerra", gli articoli dei principali quotidiani dell'epoca, come pure i libri di memorie o i documenti diplomatici, Ferguson fa piazza pulita di tanti miti e luoghi comuni e solleva questioni cruciali che intaccano alla radice la nostra percezione e conoscenza della prima guerra mondiale: è vero che l'opinione pubblica accolse la guerra con entusiasmo? Chi vinse la pace, o meglio, a chi toccò di pagare il prezzo della guerra? E soprattutto: ne valse la pena? Alla fine "Il grido dei morti", nelle sue conclusioni, ci consegna un'unica, terribile verità: la prima guerra mondiale non fu soltanto una tragedia. Fu il più grave errore della storia moderna.