
L'irregolarità del processo intentato a Galileo è un fatto. Nonostante l'Inquisizione si attenesse a una procedura codificata, sulle inesattezze formali del processo la storiografia moderna tedesca ha versato fiumi d'inchiostro. Ma lo sguardo dello storico passa qui dalle inesattezze formali, dalla falsificazione di documenti e dalle lacune del procedimento giudiziario, all'analisi delle stesse basi canoniche di cui si sarebbe avvalsa la sentenza di condanna. Non sono in gioco solo la violazione del diritto e la falsificazione di documenti, ma gli stessi argomenti teologici. Non è mai esistito, in realtà, un decreto di condanna dell'astronomia copernicana come dottrina eretica né un decreto di censura teologica dell'eliocentrismo - per il quale Galileo di fatto fu condannato. Così, si annoda ancora di più l'intreccio di quel processo, ove - commenta l'autore "il falsario è rimasto vittima del falso da lui stesso prodotto". A sfumare sono i contorni fra un'autorità ecclesiastica regista del processo ingannevole contro uno dei fondatori della scienza moderna, e una istituzione vittima dell'aver prestato fede per secoli a questa grande menzogna fondata su presupposti inesistenti. Il seguito della storia è ancora da scrivere, perché nell'imponderabile oscillano conseguenze e giudizi ideologici. I documenti conducono fin qui, ma la ricostruzione di questo grande equivoco spalanca nuove piste di ricerca.
Dopo il successo della prima edizione (1995) e la sua traduzione in varie lingue, questa Storia della letteratura cristiana antica, riveduta e ampliata, intende mettere in rilievo precipuamente gli aspetti letterari che caratterizzano gli scritti dei primi secoli cristiani e che spesso vengono trascurati dalle analoghe opere esistenti. La produzione letteraria cristiana è stata considerata quasi sempre o come strumento per la storia della Chiesa antica o come aspetto particolare della storia del pensiero patristico. Quest'opera, invece, vuole considerare l'insostituibile apporto che il cristianesimo ha arrecato alla formazione della cultura occidentale. Il termine "cultura" deve essere inteso in senso lato, e non esclusivamente come se si identificasse con i raggiungimenti artistici; essa comprende il pensiero, le problematiche, le soluzioni che l'antico cristianesimo produsse e visse al proprio interno. In tal modo si recupera, pur osservandola in un suo ambito specifico, la peculiarità del messaggio evangelico, che costituisce il nucleo insostituibile di ogni forma letteraria cristiana. Antichi e nuovi contemporaneamente furono i contenuti e i generi di questa letteratura, che costituì il passaggio dalla civiltà antica a quella medievale.
Nel novembre del '45 a Tubinga, in una Germania distrutta materialmente e spiritualmente alla fine della Seconda Guerra Mondiale, fu chiesto a Guardini di ricordare il gruppo di resistenza «La Rosa Bianca». Nel 1958 un'altra commemorazione gli fu affidata dall'Università di Monaco, dove i fratelli Scholl e i loro amici avevano studiato e maturato la scelta antinazista. Per la prima volta sono qui raccolti i due discorsi: non semplici orazioni accademiche, ma impegnate meditazioni sul senso di una esistenza cristiana di fronte alle situazioni-limite della vita politica. I giovani della «Rosa Bianca» divengono modello di quella che deve essere la concezione cristiana dell'azione politica: rispondere alla coscienza fino al «martirio» quando il potere, facendosi totalitario e assoluto, usurpa lo spazio della trascendenza e l'inalienabile libertà della persona. Un rischio che Guardini vede persistente nelle nostre società secolarizzate.
"Il libro di Fiano è un colpo al cuore perché lui non racconta di numeri, ma di persone con nome e cognome. Eppure, anche se è un libro che parla di morte, Fiano lo riempie di vita, di colori, di profumi. Questo è un libro indispensabile" (M. Renzi). "Questo libro porta un messaggio che oggi più che mai è importante: non bisogna mollare. Mai. Bisogna amare disperatamente la vita, la propria e quella degli altri" (G. Pisapia). Nedo Fiano ebreo, nasce a Firenze nel 1925 e nel novembre del 1943 comincia il viaggio nell'orrore della Shoah. Detenuto ad Auschwitz è liberato l'11 aprile 1945.
La caduta di Costantinopoli è uno degli eventi leggendari della storia universale : come l'assedio di Troia, la servitù babilonese, l'incendio di Gerusalemme, la conquista di Città del Messico. In un ristretto spazio di terra, abbiamo di fronte due eroi: il giovanissimo Maometto II, ora violento e avido di potere, ora consapevole della vanità di ogni gloria umana; e l'ultimo imperatore di Bisanzio, Costantino XII, malinconico e solitario, conscio che il suo destino e il destino della sua città sono ormai segnati. Intorno a loro, echeggia un fittissimo coro : il coro dei greci che stanno per perdere la loro patria, dei turchi che vanno all'assalto accompagnati da una musica furiosa di tamburi e trombe, dei mercanti europei che vedono minacciati i loro privilegi commerciali, e dei prelati cattolici che temono l'Islam ma continuano a scorgere nella Chiesa Ortodossa l'antica rivale.
La raccolta in due volumi, curata da Agostino Pertusi, non ha paralleli in alcun paese del mondo. Essa comprende racconti in ogni lingua e di ogni specie: i diari dei mercanti veneziani e genovesi, le epistole del cardinale Isidoro di Kiev, le memorie dei greci sopravvissuti alla catastrofe, dei giannizzeri serbi, del patriarca di Costantinopoli, il testamento di papa Nicolò V, le lettere degli umanisti occidentali che vedono in pericolo la rinata religione delle lettere cristiane. Tra tutti i testi emergono i racconti di tre scrittori grandissimi : Nestore Iskinder, il fosco e apocalittico storico russo, che considera la sua patria come l'erede di Bisanzio; Tursun Beg, lo scrittore turco che trasforma gli orrori della conquista in una colorata favola da "Mille e una notte", e Ducas, il greco che piange sulla città caduta, sull'imperatore scomparso, sui giovani morti, sulle donne violate, su santa Sofia profanata.
Quando chiudiamo il grande libro di Pertusi e tutte le testimonianze discordanti si combinano nella nostra me- o moria, abbiamo un'impressione indimenticabile. Crediamo di aver partecipato anche noi all'assedio: con tale minuzioso amore erudito il commento di Pertusi ricostruisce ogni particolare e ogni istante delle giornate terribili ; e tutti i difensori della città sembrano ancora fermi al loro posto, dietro le porte o sopra le mura, nei loro inutili gesti di eroi condannati.
Indice - Sommario
Introduzione
Nota bibliografica
Cronologia
Parte prima - I TESTIMONI DELLA CADUTA DI COSTANTINOPOLI
NICOLÒ BARBARO, Giornale dell'assedio di Costantinopoli
ANGELO GIOVANNI LOMELLINO, Lettera sulla distruzione di Costantinopoli
ISIDORO DI KIEV, lettere a Nicolò V, al cardinal Bessarione, ai fedeli di Cristo, al doge di Venezia, a Filippo di Borgogna
"FAMILIARIS" DI ISIDORO DI KIEV, Lettera al cardinal Capranica
LEONARDO DI CHIO, Lettera sulla presa di Costantinopoli
JACOPO TEDALDI, Informazioni sulla conquista di Costantinopoli
GIACOMO CAMPORA, Orazione al re Ladislao d'Ungheria
UBERTINO PUSCULO, Costantinopoli
GIORGIO SPHRANTZÈS, Memorie
SAMILE, Lettera a Osvaldo, borgomastro di Hermannstadt
TOMMASO EPARCHOS E GIOSUÈ DIPLOVATATZES (?), Relazione sulla presa di Costantinopoli
GENNADIO SCOLARIO, Lettera pastorale sulla presa di Costantinopoli
COSTANTINO DI OSTROVICA, Memorie di un giannizzero
NESTORE ISKINDER, Racconto di Costantinopoli
AQ SEMS ED-DIN, Lettera a Mehmed II
TURSUN BEG E IBN KEMÂL, Storia del signore della conquista
Cartine
COMMENTO
- Elenco delle abbreviazioni usate nel Commento
- Nicolo Barbaro
- Angelo Giovanni Lomellino
- Isidoro di Kiev
- "Familiaris" di Isidoro
- Leonardo di Chio
- Jacopo Tedaldi
- Giacomo Camperà
- Libertino Pusculo
- Giorgio Sphrantzès
- Samile
- Eparchos
- Gennadio Scolano
- Costantino di Ostrovica
- Nestore Iskinder
- Aq Sems ed-Din
- Tursun Beg
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. La grande paura del mondo
I turchi erano una vecchia conoscenza, sia dei bizantini sia degli occidentali, ma soprattutto dei bizantini. Dai tempi della prima espansione dei Seldjukidi in Asia Minore (c. 1065) alla grave sconfitta subita dai bizantini a Mantzikert (1071) e alla costituzione del Sultanato di Rûm (1080), fino e oltre i tempi delle crociate, le conquiste turche costituirono una fonte di grave preoccupazione per l'impero bizantino e per gli occidentali. Ma il problema si fece quanto mai pressante quando la forte dinastia degli Osmani si impossessò del potere. L'avanzata di Urkhan verso le regioni europee avvenne in poco più di un trentennio: 1331, assedio e caduta di Nicea; 1336-7, assedio e caduta di Nicomedia e di Pergamo; 1340, arrivo sulle coste del Bosforo; 1344-6, battuta d'arresto: alleanza di Urkhan con l'imperatore Giovanni VI Cantacuzeno, fidanzamento e matrimonio di Teodora, figlia di Giovanni VI, con lo stesso Urkhan; 1346-8, bande turche in Tracia e in Macedonia; 1352, nuova alleanza di Giovanni VI con Urkhan, il figlio del quale mette in fuga Giovanni V Paleologo ; 1352-4, i turchi saccheggiano la Tracia, si impossessano della fortezza di Tzimpé e poi, approfittando di un terremoto, conquistano Gallipoli, che domina lo stretto; 1358, Giovanni V Paleologo, fallita una dimostrazione navale davanti a Focea, è costretto a riconoscere al sultano osmano le città della Tracia da lui conquistate; 1359, i turchi giungono fin sotto le mura di Costantinopoli; 1361, occupano Tchorlu, Didimoteichos, Kir Kilisse, vincono la battaglia di Lulle Burgas, conquistano Andrinopoli; 1364-5, la capitale turca è trasportata da Brussa, in Asia Minore, a Didimoteichos e poi ad Andrinopoli (Edirne). L'impero bizantino - o meglio, quello che rimaneva ancora dell'impero bizantino - era ormai chiuso in una morsa di ferro. Demetrio Cidone, ministro di Giovanni V (dal 1356 al 1358), vede già a quell'epoca con molta chiarezza la situazione. Egli non riesce a comprendere l'atteggiamento degli occidentali, sordi all'appello del papa Urbano V. Scrivendo all'amico Simone Atumano nel 1364, lo ragguaglia sulle opinioni che corrono negli ambienti di Costantinopoli: nessuno spera nell'aiuto occidentale; le promesse del papa sono considerate parole vane; gli stessi turchi chiedono, facendosi beffe dei bizantini, se hanno qualche notizia della crociata; anche lui, Cidone, teme di doversi associare all'opinione generale. È profondamente angosciato, e con grande lungimiranza politica scrive:
"Sappi comunque che, se essi non pongono in atto ora le loro minacce contro gli infedeli e tutto l'anno se ne va in risoluzioni e in preparativi, la capitale sarà presa: questo insegnano i fatti, come se fossero dotati di parola. E una volta che la [nostra] città sarà presa, essi saranno costretti a fare la guerra contro i barbari [= i turchi in Italia e sul Reno, e non soltanto contro di questi, ma anche contro coloro che abitano la Meotide [= Mar d'Azov], il Bosforo [Cimmerio = stretto di Kertch] e tutta quanta l'Asia. Quando infatti l'impero [bizantino] sarà scomparso, tutti questi popoli diventeranno gli schiavi dei vincitori, e questi [= gli asiatici] non saranno contenti se, caduto l'Oriente in schiavitù, vedranno gli altri popoli che stanno in Occidente vivere felicemente; si vendicheranno assieme ai barbari contro coloro che, pur avendo avuto la possibilità, non vollero impedire la sciagura, e faranno di tutto perché anch'essi siano fatti schiavi assieme a loro..."
Le idee che Cidone esprime all'amico, perché se ne faccia interprete presso i latini, sono da lui largamente sostenute in patria contro le diffidenze dei suoi connazionali, sia nella "Esortazione ai bizantini" nell'autunno del 1366, alla vigilia della inconcludente spedizione di Amedeo VI di Savoia, sia nella "Esortazione a non restituire Gallipoli", nel 1371. Quando infine, tornato da Venezia, trova sul trono Manuele II, successo alla morte del padre (1391), Cidone è sempre più allarmato della situazione politica e sociale, e scrivendo a Teodoro Paleologo, despoto di Morea, dice:
"Tutto qui è sconvolto e difficilmente si troverebbe quaggiù in terra un esempio simile di caos: i barbari [= turchi] si sono impadroniti di tutto, fuorché le mura della città, sono per sé stessi la causa della sua miseria, impongono tributi così gravi che le entrate tutte insieme non sarebbero sufficienti a pagarle, per cui occorrerà colpire di tasse anche la povera gente, se vorremo soddisfare, almeno in parte, l'ingordigia dei nostri nemici. Tutti però pensano che ciò sia impossibile e che non riusciremo mai a porre un freno alla loro cupidigia; guardano ormai alla schiavitù come all'unica cosa che sia in grado di liberarli dai mali interni... Inoltre continua ad infierire l'antico male che tutto ha distrutto: la lotta tra gli imperatori per questo spettro di potere, e la necessità, per loro, proprio a causa di tale lotta, di porsi a servizio del barbaro, perché solo così hanno la possibilità di sopravvivere..."
In questi anni anche il rappresentante di Venezia a Costantinopoli informa il suo governo sulla possibilità che l'impero passi in mano turca e sul generale malcontento della popolazione della città che desidererebbe un aiuto concreto da parte dell'Occidente. In effetti, i tentativi di parte turca di impossessarsi della capitale bizantina non mancarono, sia nel 1397-9, quando Bajezid Ilderim, dopo la vittoria di Nicopoli, pose il blocco a Costantinopoli - e lo storico Ducas ci informa che la popolazione presa nella morsa della fame desiderava che la città fosse conquistata -, per fortuna senza gravi conseguenze; sia più tardi, nel 1422, quando Murad II, per vendicarsi dell'appoggio dato da Manuele II al pretendente Mustâfa, pose l'assedio attorno a Costantinopoli e cercò di impossessarsene dando l'assalto alle mura, con un esercito, per buona sorte dei bizantini, troppo esiguo. Un testimone oculare di quest'ultimo tentativo, Giovanni Canano, così descrive - dopo la vittoria - l'arrivo di Murad II davanti alle mura:
"Venne furibondo, selvaggio, smargiasso, superbo, altero, orgoglioso; sollevando sprezzantemente al cielo il sopracciglio, egli riteneva di stare al di sopra di tutti, presumeva che ogni cosa dipendesse da lui e che l'universo intero fosse soggetto al suo comando..."
Durante l'ultimo assedio di Costantinopoli, segni funesti prostrarono la resistenza dei difensori. La notte del 24 maggio 1453 un'eclisse di luna oscurò il ciclo per tre lunghe ore, così come per tre ore, il giorno in cui Cristo morì, "si fece buio su tutta la terra". Poi i segni nefasti si moltiplicarono: nel corso di una processione solenne, la sacra icona della Madonna scivolò a terra; una pioggia torrenziale allagò la città; una nebbia fittissima, mai vista in quella stagione, l'avvolse ; e una strana luce, interpretata come quella dello Spirito Santo, cominciò a scintillare sopra la cupola di santa Sofia, brillò e scomparve, come un fuoco fatuo, nelle campagne.
La mattina del 29 maggio 1453, Costantinopoli cadde nelle mani dei turchi. L'imperatore Costantino XII morì combattendo, e il suo corpo non fu mai ritrovato. La chiesa di santa Sofia, "il paradiso terrestre, il secondo firmamento, il Veicolo dei cherubini, il Trono della gloria di Dio", fu spogliata delle offerte dei secoli. I saccheggi, le uccisioni e i pianti degli schiavi risuonarono tra le mura della città. Bisanzio non esisteva più: quella straordinaria mescolanza di superba ostentazione terrena e di umile fede in Dio, quei palazzi e quei monasteri, la crudeltà atroce e la delicata pazienza, tanto genio ardente, tanta intelligenza squisita ed estenuata; tutto quello che aveva rallegrato lo sguardo dei secoli era morto per sempre. Per qualche anno l'umanità avvertì quel vuoto, quel brivido che si produce quando qualcosa di grande lascia la terra. I cantastorie ricordavano le parole di Geremia : "Colei che era una principessa tra i pagani e una regina tra le nazioni, ora deve servire". Il secondo volume della raccolta curata da Agostino Pertusi è diviso in due parti. La prima raccoglie i molteplici echi, racconti e testimonianze che la caduta di Costantinopoli risvegliò in tutto il mondo, dall'Occidente alla Grecia, dalla Turchia alla Russia. La seconda comprende i lamenti in prosa e in poesia che la scomparsa di Bisanzio ispirò ai poeti greci, veneti, francesi, tedeschi, slavi, armeni, e ai poeti popolari della Grecia e del Ponto.
Nato a Cividale tra il 720 e il 730, Paolo Diacono ebbe rapporti con la corte dei duchi friulani e poi con quella regia di Pavia. Studiò il greco, insegnò il latino: aveva un'ottima cultura classica, sia letteraria che storiografica. A Pavia si dedicò agli studi sacri, diventò monaco a Montecassino; e infine visse alla corte di Carlo Magno, che consigliò e per il quale scrisse. La sua "Storia dei Longobardi" è uno dei capolavori della storiografia d'ogni tempo. Nelle oscure popolazioni discese dal Nord, alle quali deve la sua origine. Paolo Diacono scorge una forza potenziale, quasi priva di contenuto, che si adatta alla tradizione romana, e la rinnova dall'interno. La sua fedeltà alla propria gente si concilia, in equilibrio perfetto, con l'amore per la storia romana e cristiana, la cultura e la lingua che ha appreso. Pochi altri libri realizzano così meravigliosamente l'ideale di una storiografia totale. La "Storia dei Longobardi" è, in primo luogo, una storia della natura europea: stupendi scorci geografici, paesaggi visti e immaginati, diluvi, incendi, notizie meteorologiche, prodigi. Su questo sfondo, si accampa la storia di un'emigrazione barbarica, un flusso furibondo di genti, episodi di passione e di ferocia, raccontati da uno scrittore posseduto da un forte senso del mito. L'ingenuità di un cronista medievale, l'intuizione acutissima dello storico politico, la fede del cristiano si fondono, nelle sue pagine, con il genio del grande narratore, che racchiude in un episodio minimo il senso della storia universale. La traduzione di Lidia Capo riproduce mirabilmente la mescolanza di cultura e di rozzezza, che è propria dello stile di Paolo Diacono. L'ampio e meticoloso commento lascia affiorare, attorno alla storia tragica dei Longobardi, l'ampio respiro della storia d'Europa e di Bisanzio. Il volume è completato da una suggestiva rassegna di immagini, che rivelano i vertici dell'arte longobarda.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
Nota al testo
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
COMMENTO
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
Indice dei nomi di persona e di luogo
Indice delle fonti citate nell'introduzione e nel commento
Prefazione / Introduzione
Nell'Europa rivoluzionata dalle invasioni germaniche, nell'inaudita realtà di regni guidati da popoli "barbari", venuti a rompere e sostituire l'unità e la tradizione dell'impero di Roma, maturò presto il bisogno di integrare il passato e il presente in una prospettiva storica che riuscisse a conciliare vecchio e nuovo e a rendere accettabile culturalmente quello che era inevitabile sul piano politico. Si trattò di un vero e proprio tentativo di interpretazione e di riconversione delle tradizioni storiche germaniche nel linguaggio e negli schemi della storiografia mediterranea: un'opera compiuta ovviamente da Romani, e non da letterati o storici "puri", bensì da personaggi in qualche modo vicini al potere, disposti ad accettare la presenza e il predominio dei Germani. La prima fase della storiografia europea dopo la dissoluzione dell'impero in occidente - quella rappresentata da Cassiodoro, da Gregorio di Tours, da Isidoro di Siviglia - nacque appunto dalla volontà di collaborazione dell'elemento romano con lo strato politico germanico e dal suo conseguente sforzo di romanizzare, cioè rendere comprensibili per il pubblico romano perché omogenee alla sua cultura, le vicende e le tradizioni, in sé molto diverse, dei singoli popoli germanici: un'operazione compiuta partendo dalla storia, perché è la storia che, in un mondo dominato dall'intervento umano e dalla memoria scritta come quello romano, distingue e definisce gli uomini, e soprattutto li redime dalla barbarie. Per questo Gregorio di Tours ha tanto cercato nelle vicende dei Franchi la comparsa dei re - primo embrione di uno stato - ed ha esaltato nell'opera di Clodoveo (quintessenza di grande barbarie) le linee di forza di un futuro civile. E per questo Cassiodoro ha manipolato le tradizioni dei Goti, combinandole con quelle di altri popoli da più tempo noti al mondo classico, compiendo un lavoro di adeguamento ed equiparazione culturale (in realtà trasformazione), che egli stesso ha definito con assoluta precisione e consapevolezza: "Originem Gothicam historiam fecit esse Romanam".
Questa collaborazione dei Romani, che aveva in fondo lo scopo di adattare a sé le novità, mantenendole sotto il proprio controllo, ebbe un successo variabile (solo in Francia poté dare frutti duraturi), ma l'ingresso dei popoli germanici nella "storia romana", come protagonisti, era ormai una conquista definitiva. Nel VII-VIII secolo nell'ambito del regno franco, nella prima metà dell'VIII nell'Inghilterra anglosassone, nel VII e VIII nell'Italia longobarda altri scrittori si posero di fronte allo stesso problema, l'inserimento dei nuovi popoli e regni nella storia "civile". Nonostante il tempo intercorso e nonostante il fatto che fossero, stavolta, Germani (meno, forse, il cosiddetto Fredegario), anche questi scrittori utilizzarono gli schemi della storiografia romano-cristiana. Si trattò dunque di una vittoria della cultura latina: la storia che viene scritta (e ovunque, meno che in Inghilterra, la storia sarà ancora a lungo scritta solo in latino) non è concepibile che attraverso le strutture portanti - tempo, spazio, scansioni di regni e pontificati, forme di organizzazione stabile - datele dalla cultura antica, integrata e riveduta dalla Chiesa.
Ma la vittoria non fu completa, perché dietro queste opere non esisteva più la stessa cultura di prima. Il mondo romano non era più una realtà concreta e la sua capacità di unificare e di uniformare era ormai affidata solo alla Chiesa, che non era in grado di esercitarla ovunque con la stessa intensità. Gli storici quindi, anche quelli forniti di migliore scuola, non avevano più i mezzi per integrare passato e presente in una prospettiva realmente romana; potevano al massimo utilizzare l'immagine che della storia romana si erano creati sulla base delle proprie esperienze e della propria cultura: un'immagine, ovviamente, che con l'effettiva realtà romana poteva avere pochissimo in comune e che in ogni caso era sempre un'interpretazione. E la distanza con la fase storiografica di Cassiodoro era ancora maggiore, perché gli storici della seconda ondata - e soprattutto i più colti e consapevoli, come Beda e Paolo Diacono - non volevano affatto trasformare la propria realtà in senso romano, ma solo darle una leggibilità e una dignità storica, grazie a certi parametri ricavati dalla cultura antica. "L'historia Romana" non significava dunque più adeguamento dei nuovi popoli ai valori e alle forme culturali del mondo classico, bensì impiego, per scrivere la loro originale vicenda, del "reticolo latino", cioè delle coordinate di spazio, tempo e relazioni. Perciò, nonostante la forma latina che le accomuna, il carattere autonomo, germanico, è essenziale nelle opere del VII-VIII secolo: esse sono anzi un primo bilancio che i Germani stessi ricavano dal loro incontro con la grande storia.
Ma nemmeno questo germanesimo è più allo stato puro, un inalterato principio di spiegazione e rappresentazione, sebbene sotto una veste altrui. Al contrario anch'esso è storico: ha subito un processo di crescita e di modificazione a contatto con un mondo estraneo. I nostri testi non sono più la testimonianza di un primo passo nell'incontro tra popoli diversi, bensì il frutto di percorsi storici ormai lunghi, compiuti con apporti variabili degli uni e degli altri: documenti preziosi della travagliata costruzione di un mondo nuovo, che crea e rielabora sulla base delle esperienze di culture differenti, in utile anche se non sempre facile confronto.
E questa vicenda, particolare per ogni paese, che gli autori hanno alle spalle: essa li forma, determina in senso materiale e spirituale il loro rapporto con il proprio passato e con la cultura latina, influisce sulla loro coscienza di sé e sulla loro visione del mondo. Essi riflettono così la qualità e il senso di queste vicende, gli equilibri raggiunti o falliti, gli specifici problemi delle singole realtà, offrendo una sintesi culturale che è un prodotto e uno specchio della loro storia.
Di questi testi "L'Historia Langobardorum" di Paolo Diacono è probabilmente il più complesso: quello che nasce da più intricate motivazioni e da più irrisolte difficoltà, logico riflesso di una storia mai arrivata a sciogliere i nodi essenziali alla sua stessa sopravvivenza.