
In un'esperienza di viaggio confluiscono esigenze anche molto diverse, come differenti possono essere gli esiti che da essa scaturiscono. Il viaggio che Patrizia Runfola ci propone è molto particolare: sul filo di un racconto suggestivo e intenso rivive un momento preciso nella storia di Praga, cioè quelli che potremmo definire gli anni di Kafka. Si tratta di un periodo di grande vivacità creativa, nato dalla magia dell'incrocio di lingue e tradizioni diverse (ceche, tedesche ed ebraiche), e dall'interesse appassionato per quanto avviene nel resto d'Europa in ambito letterario, artistico e poetico. Insieme a Kafka, Max Brod, ai fratelli Capek, a Jaroslav Hasek, a poeti come Nezval e Werfel, ma anche ad architetti, pittori e scenografi, entriamo nelle case, nei circoli letterari, nelle redazioni delle riviste, nei caffè e nei teatri della città, diventando spettatori partecipi di amicizie, amori e storie, molto spesso destinate a concludersi con la morte o la fuga in Palestina e in America. Il tramonto dell'impero austro-ungarico, la prima guerra mondiale e il montare della furia devastatrice di Hitler incombono infatti sulla vita di tutti. Quella che l'autrice ci propone è una felice immersione in un mondo che sarà presto cancellato dalle tragiche vicende della storia. Con una conversazione con Claudio Magris e un testo di Gérard-Georges Lemaire.
Nelle società contemporanee, la parola "popolo" sembra più che mai rappresentare il fondamentale termine di riferimento del discorso politico-istituzionale. Nessun attore politico appare, infatti, disposto a rinunciare alla pretesa di parlare "del" popolo e "per il" popolo, giacché è proprio la volontà di quest'ultimo ad attribuire legittimità a decisioni cruciali su confini, costituzioni, regimi e politiche pubbliche. Ma chi è il popolo che rappresenta la fonte ultima dell'autorità politica e quali sono le forme attraverso le quali fa sentire la sua voce? Il percorso di approfondimento storiografico qui proposto vuole dare una risposta a queste domande, addentrandosi in un campo ideologico e discorsivo complesso, nel quale continuano a riproporsi gli elementi costitutivi delle democrazie contemporanee.
Il crollo del Muro di Berlino nel novembre del 1989 fu al tempo percepito da alcuni come tragica fine di un'illusione, da altri come avvio di un processo di liberazione dei paesi dell'Est dal comunismo, che si sarebbe concluso nel dicembre 1991 con la dissoluzione dell'Unione Sovietica. A distanza di trent'anni è giunto il tempo di guardare a quanto accadde nell'89 nell'Europa dell'Est, considerandolo non come un evento epocale conchiuso ma come un processo, i cui antecedenti rimontano al 1956 polacco e ungherese e le cui conseguenze si prolungano fino a oggi negli equilibri politici di quei paesi e non solo. Il crollo del Muro ha assunto negli anni molteplici valenze simboliche: rivoluzione anti-utopica, emblema di una transizione non violenta alla democrazia, ma anche momento fondativo del mondo globalizzato. Jacques Rupnik esplora queste possibili letture e solleva la domanda sugli esiti di quel processo, che sembrava aprire a un mondo democratico senza confini, incarnato dall'Europa unita, e invece ha avuto quale esito nuovi confini, nuovi muri e diffuse chiusure nazionalistiche. Dai saggi raccolti in questo volume emerge la parabola dei tre processi che da quel fatidico '89 si sono innescati: dalla transizione democratica a sintomi evidenti di «stanchezza» della democrazia, con classi dirigenti logorate e cittadini disillusi; dalla trasformazione economica alla crisi del modello del libero mercato; dall'idea di una «democratizzazione attraverso l'europeizzazione» alla scoperta drammatica dei limiti geopolitici del potenziale di trasformazione della governance europea. L'Europa dell'Est, dopo l'89, imitò un modello entrato poi in una profonda crisi. E ora, come il resto del mondo, è anch'essa alle prese con la ricerca di un nuovo paradigma democratico. Ricordare il crollo del Muro a distanza di trent'anni impone di fare i conti con le difficoltà e il futuro dell'Europa.
Marlene Dietrich e Leni Riefenstahl sono state due icone del cinema del loro tempo, dalla Germania di Weimar all'America di Hollywood. Interpretando a modo loro "la donna nuova" hanno incarnato due differenti tipi di erotismo e di seduzione, mettendoli in scena sullo schermo, come attrice e cantante Marlene, come regista Leni. I loro destini speculari, incrociati e opposti attraversano un periodo cruciale della storia. Marlene, dopo il successo de "L'angelo azzurro", si trasferisce presto in America diventando una diva internazionale. Leni invece in Germania mette la sua straordinaria creatività registica al servizio del nazionalsocialismo (Il trionfo della volontà, Olympia) e alla seduzione di massa esercitata dal suo Führer. Con lo scoppio della guerra la Dietrich, antinazista dichiarata, usa la sua arte a favore della truppa combattente, ritornando nella sua Berlino in divisa americana. La Riefenstahl, invece, in nome della "apoliticità" dell'arte continua a inseguire i suoi modelli di estetica cinematografica. Ricostruirne, come fa Gian Enrico Rusconi in questo libro, i percorsi biografici consente di scoprire le molte espressioni del loro erotismo. Ironico e tenero ma anche sfacciato quello di Marlene; distaccato, estetizzante, opportunistico quello di Leni che come regista non perde mai di vista la sua performance professionale. Il saggio così getta luce sull'altra faccia, apparentemente "minore", della cultura del Novecento tedesco, e non solo.
L'entrata in guerra dell'Italia contro l'Austria nel maggio del 1915 fu un atto sorprendente: il nostro paese era alleato degli imperi centrali e, dopo un anno di neutralità, scendeva in guerra contro di loro. La decisione fu un azzardo basato su calcoli politici e diplomatici, in cui l'aspirazione alle terre irredente entrava ben poco. Fiumi di retorica patriottica hanno messo la sordina su quell'inizio del conflitto, sui piani che pure c'erano per la guerra a fianco di Germania e Austria, sull'ansia italiana di partecipare da grande potenza alla ridefinizione dell'area adriatico-balcanica, sull'errata valutazione della durata del conflitto, sulle mancanze della strategia. Su tutto ciò riflette Rusconi restituendo alla sfera dell'analisi politica l'interpretazione della condotta dei dirigenti italiani che scelsero la guerra.
Camillo Cavour e Otto Bismarck sono i costruttori degli Stati nazionali italiano e tedesco, e due grandi modelli di leadership politica. Esercitando una guida politica secondo la logica parlamentare liberale, in una dinamica politica carica di contrasti, dura e vivace, Cavour è leader risoluto nel parlamento e in forza del parlamento. Si crea così il "modello Cavour" che diventa attraente per i liberali tedeschi. Ma l'unità tedesca segue altre strade grazie a Bismarck che incarna il principio d'autorità monarchica, pur utilizzando in modo spregiudicato strumenti democratici. In costante tensione e conflitto con il parlamento, dispone del formidabile strumento militare dell'esercito prussiano. Sullo sfondo degli avvenimenti italiani del 1859-61 e di quelli tedeschi del 1866-67, il volume ripercorre i processi di decisione politica di Cavour e di Bismarck, i loro stili di governo tra liberalismo e cesarismo in una dialettica tuttora presente nella vita politica contemporanea.
Gian Enrico Rusconi è professore emerito dell'Università di Torino, Gastprofessor nella Freie Universität di Berlino ed editorialista della "Stampa". Con il Mulino ha pubblicato tra l'altro "Rischio 1914" (1987), "Se cessiamo di essere una nazione" (1993), "Resistenza e postfascismo" (1995), "Patria e repubblica" (1997), "L'azzardo del 1915" (2005).
Era inevitabile la Grande Guerra? Dall'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo doveva necessariamente scaturire un conflitto mondiale? O si è trattato di una guerra "improbabile", scoppiata per una serie di malintesi e di errori di valutazione? Rusconi ricostruisce il febbrile lavorio politico-diplomatico del luglio 1914 e analizza le vicende belliche sino alla battaglia cruciale della Marna. Il conflitto si configura come una "guerra tedesca" per rompere l'accerchiamento di cui la Germania si sente vittima da parte dell'Intesa russo-francese e inglese. Ma la lotta per l'egemonia sul Continente assume i tratti di una "guerra di civiltà" all'interno dell'Occidente stesso. Gli effetti sono di lunga durata, anche in termini strategico-militari: il secondo conflitto mondiale inizierà infatti con l'attacco alla Francia nel 1940 inteso come replica e rivincita del 1914.
"Dobbiamo convincere il mondo che un'egemonia tedesca in Europa agisce in modo più utile, imparziale e meno dannoso per la libertà che un'egemonia di altri": così scriveva Otto von Bismarck. Per il "cancelliere di ferro" si trattava di un'egemonia consapevole della forza e dei limiti della "potenza di centro" tedesca e quindi della sua vulnerabilità. Oggi naturalmente la Germania agisce in un contesto storico e politico inconfrontabile con quello bismarckiano, innanzi tutto per l'esistenza dell'Unione europea di cui è parte integrante e insostituibile. Ma proprio nel corso dell'attuale crisi economico-finanziaria si è delineata una nuova (sia pur controversa) egemonia tedesca. Di nuovo una "sindrome Bismarck"? La crisi dei rifugiati rischia di portare l'Unione verso la paralisi decisionale e di far perdere a Berlino la capacità di svolgere il suo ruolo di orientamento. "Tutto quello che facciamo in Europa è infinitamente faticoso" dice Angela Merkel. Ancora una volta la Germania si trova a fare i conti con la vulnerabilità della sua egemonia.
Da 2000 anni a questa parte la presenza del papa sulla scena mondiale e il suo ruolo al vertice della chiesa cattolica sono profondamente cambiati, ma il papa resta una figura conosciuta a livello planetario, con un'autorità morale di rilevanza universale. Chi è colui che si presenta come l'ultimo successore dell'apostolo Pietro? Quale peso ha avuto il papato nella storia? In che modo questa istituzione millenaria si confronterà con i mutamenti del complesso mondo globale?
Per secoli epidemie di diversa natura hanno falciato l'umanità. Sin dall'esodo del popolo ebraico guidato da Mosè, si è adottato un semplice schema interpretativo: la "pestilenza" - di volta in volta identificato con la peste, la lebbra, il collera, etc. - è una punizione divina per i peccati degli uomini, che devono pentirsi ed espiare le proprie colpe con appositi riti. Pontefici e cardinali hanno guidato processioni, penitenti laici e religiosi dei diversi Ordini si sono sacrificati per assistere malati e moribondi, senza peraltro impedire che ci si scagliasse contro il capro espiatorio del momento, come gli ebrei nel medioevo e gli untori nell'età moderna. Papi e santi sono stati invocati per arginare il fenomeno. La pandemia del coronavi ha richiamato in auge rituali tradizionali e antiche spiegazioni, mettendo però in discussione la praticabilità dei primi e il senso delle seconde. Come mostrano le parole e i gesti di papa Francesco.
Roberto Rusconi, già professore di Storia del cristianesimo e delle Chiese all'Università Roma Tre, è tra i fondatori della "Rivista di storia del cristianesimo". Tra le ultime pubblicazioni per Morcelliana: Storia del cristianesimo e delle Chiese. Dalle origini ai giorni nostri (2019).