
Il test dei colori è stato ideato nel 1949 dallo svizzero Max Lüscher. Ha trovato subito una larga diffusione su scala mondiale per i pregi specifici che lo contraddistinguono da altri test proiettivi: rapidità e semplicità di somministrazione, validità universale, ricchezza e completezza dei dati forniti, buona attendibilità. I settori di utilizzazione sono svariati: clinica, selezione del personale, orientamento professionale, etnologia, pedagogia. In medicina psicosomatica il Lüscher test trova senz'altro una collocazione di preminenza; è infatti in grado di segnalare le zone di tensione sia fisiologica sia psicologica anche quando non abbiano ancora raggiunto l'espressione sintomatica, permettendo così al medico e allo psicologo di formulare una diagnosi più precisa e di intervenire nel modo più idoneo. Ed è proprio nel senso della terapia che, a nostro giudizio, il test dei colori trova la sua più felice utilizzazione. Ogni psicologo che intenda impostare una psicoterapia fa ricorso a tutta una serie di tecniche e di strumenti per inquadrare il caso, comprenderne le dinamiche, scegliere il tipo di intervento opportuno. È noto che più una psicoterapia è direttiva e più l'operatore deve essere in possesso di dati che gli permettano di agire con chiarezza ed efficacia sulla personalità del paziente.
Il pensiero individualista e libertario che dagli anni Settanta disegna l’uomo come artefice di se stesso, guidato solo dalle proprie scelte e dai propri desideri, si rivela oggi più pericoloso di quanto potevamo immaginare. Conquiste importanti, come la fine dell’autoritarismo, il venir meno della distanza incolmabile tra le generazioni o l’affrancamento delle donne da un destino gregario, hanno finito per scorrere lungo una deriva che, da acquisizioni di civiltà, le ha trasformate in gabbie di solitudine e fragilità. Un nuovo imperativo, sociale ed economico, all’autodeterminazione a tutti i costi si è sostituito alle regole del passato, sulle cui macerie l’individuo si ritrova oggi disorientato e incerto. La sua stessa consistenza è in discussione. Lo testimoniano le nuove ansie e le inedite forme depressive, ben note a psichiatri, psicanalisti, medici generici, e a chiunque stia in ascolto della sofferenza umana. Forme di disagio che non riguardano solo la precarietà sociale o le vere e proprie patologie psicologiche. Il suolo umano si è impoverito, si è svuotato del suo humus di relazioni, legami, responsabilità, è divenuto friabile, inconsistente. Su questo terreno incerto l’uomo stesso diventa ‘di sabbia’. Una figura inafferrabile e impastata di contraddizioni, ma con un tratto distintivo che si staglia nitido sotto lo sguardo attento di Catherine Ternynck: la sensazione di una stanchezza. È un uomo che fatica a portare la sua vita. Costantemente dubita del tragitto e del senso. Chiede riconoscimento e rassicurazione. È per questo che Ternynck sceglie di affiancarlo attraversando «quei luoghi deteriorati dall’individualismo, dove le fondamenta umane sono in difficoltà»: in famiglia, all’interno della quale i bambini vengono spinti a un’autonomia troppo precoce, adorati e minacciati nello stesso tempo, e i rapporti tra le generazioni si trovano a fronteggiare le metamorfosi dei legami; nel sociale e nel mondo politico, con la crisi di legittimazione di chi ha il compito di riscrivere le regole o aiutare la coesione della vita in comune; nell’universo simbolico, dove l’identità stenta a costruirsi nel luccicante mercato del tutto e subito. Quest’uomo smarrito, dai contorni fluttuanti, ci parla di sé attraverso le tante voci che Catherine Ternynck ha ascoltato nel suo lavoro di terapeuta. Un racconto collettivo, una trama di esperienze che l’autrice tesse con una scrittura avvincente, limpida ed emozionante al tempo stesso, di grande empatia verso tutte le sfumature dell’umano e insieme lucida nel denunciarne le derive. Un’avventura dello spirito cui è invitato non solo lo specialista, lo psicanalista, ma l’uomo curioso, e forse preoccupato, della nostra epoca.