
Arthur Rimbaud, il poeta che ha rivoluzionato la poesia, finalmente liberato dai facili schematismi di molta critica presente e passata: è qui non solo il poeta maledetto per eccellenza,ma il protagonista di un viaggio nella parola che ha costituito una frattura radicale, una svolta decisiva capace di ridefinire la poesia stessa.
Yves Bonnefoy, il maggiore poeta francese vivente e una delle più illustri personalità della cultura mondiale, ripercorre in questo libro – appena uscito in Francia e frutto del lavoro di un cinquantennio – le tracce di una passione e di un dialogo con l’opera del grande poeta di Charleville: dallo storico e fortunatissimo Arthur Rimbaud (1961) al recente e inedito Notre besoin de Rimbaud (2008), i saggi di Bonnefoy appaiono in una nuova versione, che rappresenta un’estrema messa a punto della sua visione. Pagine da leggere come un diario, come il racconto di un lunghissimo amore mai sopito: l’amore per i versi di Rimbaud che, in ultima analisi, sembra coincidere con quello per la poesia. Dalla ricostruzione minuziosa dell’ambiente provinciale d’origine, che attinge alla corrispondenza familiare, al rapporto controverso con la madre e i fratelli, fino alla relazione con Verlaine e all’attraversamento della Stagione in inferno, il saggio di Bonnefoy ricolloca Rimbaud al centro del dibattito poetico, riscoprendo la grandezza di una poesia che nella sua immediatezza e intensità non ha mai smesso di essere necessaria per il nostro presente. La voce di Rimbaud, scrive Bonnefoy, è capace di sintetizzare nel suo errare le due grandi forze che ci permettono di essere al mondo: «Da una parte la speranza, che ci consente di credere che la vita abbia un senso, dall’altra la lucidità, che decostruisce le illusioni in cui la speranza si incaglia. Leggere un grande poeta non è aver deciso che è un grande poeta, è chiedergli di aiutarci. È attendersi dalla sua radicalità una guida».
Yves Bonnefoy è uno dei maggiori poeti contemporanei. Nato a Tours nel 1923, ha pubblicato nel corso di cinquant’anni numerose raccolte dei suoi versi. Eletto nel 1981 al Collège de France, vi ha tenuto per dodici anni l’insegnamento di Etudes comparées de la fonction poetique, oggi è professore emerito. Il 31 maggio 2004 ha ricevuto la Laurea Honoris causa dall’Università degli Studi di Siena, su proposta della Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo. Nel 2005 gli è stato conferito il Premio Internazionale di Poesia «Pier Paolo Pasolini». Per i tipi della Donzelli ricordiamo: Osservazioni sullo sguardo (2003), L’Entroterra (2004), La civiltà delle immagini (2005), Goya. Le pitture nere (2006)
Ogni tanto nella storia si combinano strane costellazioni di eventi e incontri. A guardare indietro, con gli occhi smaliziati di chi sa com'è andata a finire, sembrano quasi impossibili. Così nel 1925, in quella Germania che è ancora il cuore della cultura europea, ma sta rapidamente correndo verso il baratro della catastrofe nazista, Günther Anders, fresco della sua dissertazione con Edmund Husserl, e la giovane studentessa di filosofia Hannah Arendt si conoscono a Marburgo, dove seguono entrambi il seminario di Martin Heidegger sulla Critica della ragion pura. Si incontrano di nuovo solo nel 1929, questa volta a Berlino, in occasione di un ballo in maschera. Si sposeranno subito dopo, precipitosamente, per separarsi poi già nel 1937. Lei avrebbe in seguito ricordato il matrimonio con Günther come la fuga dal grande e impossibile amore della sua giovinezza, quello per Martin Heidegger. Per Günther, invece, Hannah sarebbe sempre rimasta il primo, forse l'unico vero amore di tutta una vita. Nel Natale del 1975, all'indomani della morte di Hannah, Günther riprende in mano gli appunti degli anni berlinesi trascorsi con lei; è soltanto tra il 1984 e il 1985 che prende la sua forma definitiva questo testo. Scritto sull'onda del dolore per una perdita che la lunga separazione non ha reso meno amara, e rimasto da allora nel segreto delle carte andersiane, questo piccolo, unico gioiello è qui pubblicato per la prima volta in edizione italiana, pressoché in contemporanea con l'uscita tedesca.
Il volume è la testimonianza di un medico che ha dovuto affrontare innumerevoli sfide fin dall'inizio della carriera per preservare la propria integrità. L'autore rivela le umiliazioni subite in un sistema sanitario permeato da favoritismi e ingiustizie, alimentati da interessi e relazioni non sempre trasparenti. Queste difficoltà hanno continuato ad affliggerlo nel corso degli anni, sia durante il lavoro in ospedale sia nelle attività di consulenza giudiziaria, esperienze segnate da ripetute e gravi forme di intimidazione. Il racconto illustra i rapporti con valorosi magistrati che hanno sacrificato tutto nella lotta contro la criminalità organizzata. Inoltre, mette in luce la prepotenza di una parte del mondo sanitario, determinata a mantenere i privilegi e a ostacolare l'integrazione di una nuova generazione di professionisti che non si piega al sistema esistente. Alla fine, emerge la sensazione di solitudine di un individuo che, nonostante opportunità allettanti, è rimasto saldo nel difendere i suoi principi e la sua integrità.
Il libro racconta la storia di Federico Del Prete, commerciante ambulante ucciso dalla camorra a Casal di Principe il 18 febbraio 2002. Per difendere la categoria dei venditori dei mercati, vessati e taglieggiati dalla camorra, Del Prete aveva fondato il Sindacato Nazionale Autonomo Ambulanti. Nonostante minacce e intimidazioni di ogni genere egli aveva denunciato estorsori e criminali e alla vigilia di un processo contro il feroce clan La Torre, il giorno prima della sua deposizione in tribunale, venne ammazzato. Del Prete fu un cittadino esemplare e coraggioso al quale lo Stato non seppe garantire protezione adeguata se non concedergli dopo morto la medaglia d'oro al valore civile. Questo libro, in una Italia di pavidi, di faccendieri, di corrotti e di collusi, restituisce per la prima volta la memoria di un uomo che seppe resistere e presenta l'azione di quanti, dopo la sua morte, si impegnarono efficacemente nella ricerca di esecutori e mandanti. Con una prefazione del magistrato Raffaele Cantone e una testimonianza di Gennaro Del Prete, figlio di Federico.
A metà degli anni Settanta, Leonardo Sciascia pubblicò un saggio sulle donne siciliane che gli procurò molte polemiche. Appassionato al gioco pirandelliano della realtà e dell'apparenza, Sciascia invece scriveva che le donne siciliane erano, insieme, comandiere e subalterne, piegate, cioè, da una secolare sottomissione, eppure forti e padrone in casa. Questo libro di Giacomo Pilati è l'ideale prosecuzione del saggio di Sciascia. Non è una valutazione esagerata, anche se quello era un saggio dal sapore fortemente pamphlettistico e questa è una raccolta di storie narrate dalle stesse protagoniste. Ci sono tre elementi che accomunano le donne così diverse che Pilati ha voluto incontrare: il dolore, la consapevolezza e il coraggio. Giacomo ha colto, e ha saputo descrivere, la fondamentale differenza tra uomini e donne siciliani. Gli uomini credono che tutto sia destino. Le donne pensano che il destino si può cambiare.
Peppino Impastato, assassinato a trent'anni dai mafiosi di Cinisi nel 1978, non era un "eroe solitario" in lotta contro le cosche: era un militante politico dell'estrema sinistra che aveva coagulato intorno a sé, nella Cinisi del capomafia Tano Badalamenti, un gruppo di giovani e di collaboratori che, in tempi e modi diversi, lo hanno affiancato sino alle ultime ore di vita, continuando dopo la battaglia per riabilitarne la memoria, contro il depistaggio delle indagini. Salvo Vitale, che ha condiviso il percorso politico e culturale di Peppino, ha raccolto, inquadrandoli nel loro momento storico, ricordi e testimonianze di alcuni compagni, ai quali la vicenda umana e politica del militante siciliano dell'Antimafia ha lasciato un segno indelebile.
Ci sono storie che vanno raccontate. Per senso della memoria, perché rappresentano un pezzo importante della nostra storia. Vanno narrate anche quando accadono a Casal di Principe o a Castel Volturno. È terra del clan dei casalesi che, in un capovolgimento semantico e culturale, ha scippato il nome ad una comunità. Ma questi sono luoghi in cui vivono soprattutto tante persone perbene. Domenico Noviello era una di queste. Uno degli “altri Casalesi”. Uno dei veri Casalesi.
In questo volume, Paolo Miggiano ne ripercorre l’impegno antiracket e la rettitudine morale, testimoniata oggi dai figli, che mostrano, con fragile fierezza, il loro dolore di sopravvissuti all’immane tragedia. L’altro Casalese è un libro sulla camorra e l’anticamorra, ma restituisce dignità narrativa a una persona che non si è chinata alle imposizioni dei clan. Quella di Domenico Noviello è una storia importante. Una storia non proprio troppo comune, ma che può ripetersi e accadere ovunque. La sua è la storia di un uomo che non voleva affatto diventare un eroe, ma essere solo un uomo normale. Noviello fu ucciso perché lasciato solo. Per la sua morte ci dobbiamo sentire tutti un po’ vittime, ma anche un po’ carnefici. Per questo la sua è una storia che dobbiamo conoscere.
Francesco Renda prende come punto di riferimento il 1961, anno in cui viene realizzato il film di Rosi su Salvatore Giuliano, e scrive quella che più volte definisce "una biografia storica" analizzando le fonti con l'obiettivo di proporre al lettore la verità storicamente determinata sul bandito di Montelepre. Intorno a Salvatore Giuliano trasformato in mito tornano ad addensarsi le nebbie sentimentali che lo promuovono a bandito sociale, una sorta di Robin Hood siciliano. Renda lo riporta invece nel quadro temporale della Sicilia del secondo dopoguerra, e bastano i numeri a tracciarne il profilo perché, come scrive lo storico, "i morti ufficialmente attribuiti a Giuliano assommano alla cifra impressionante di 430, per lo più povera gente, contadini innocenti, battaglieri sindacalisti, carabinieri e poliziotti". Questo saggio, proposto nel 2020 in cui cadono i 70 anni dall'uccisione di Salvatore Giuliano, è arricchito da un contributo di Francesco Giuffrida e dalla postfazione di Rosario Mangiameli.
Uno straordinario racconto scritto da un testimone diretto delle stragi del 1992. Ripercorrendo le idee-guida che Falcone e Borsellino hanno lasciato come testamento politico-culturale, il volume ne sottolinea l'attualità a 30 anni dalla morte dei magistrati. Un bilancio di ciò che in questi anni è avvenuto, di positivo e di deludente, nella storia dell'antimafia in Italia. La mafia come soggetto militare è in forte difficoltà; non altrettanto come soggetto politico, economico e culturale dal momento che i circa cinquemila affiliati a Cosa Nostra possono contare su un'ampia area di sostenitori e simpatizzanti per convenienza o per paura. La diagnosi, impietosa, si intreccia con alcune indicazioni terapeutiche affinché questa lunga battaglia per la giustizia e la democrazia possa essere finalmente vinta.
Per la stragrande maggioranza delle persone il carcere è un universo sconosciuto. La paura che esso evoca genera un meccanismo di rimozione. E così il carcere si sottrae allo sguardo pubblico e alla critica della sua funzione, supposta, di risocializzazione. Da qui la necessità di provare a spiegare "cos'è il carcere", e di discutere la "possibile utopia" della sua abolizione. Questo tentativo riesce bene a Salvatore Ricciardi, che il carcere ha conosciuto a fondo per averci trascorso un lungo tratto della sua esistenza. Con una narrazione essenziale, Ricciardi racconta in cosa consiste "la casa del nulla", una delle tante definizioni coniate dai prigionieri per nominare l'inferno che sono costretti ad abitare. Una realtà regolata da una violenza quotidiana dispotica e crudele, dai parametri di una pena affatto "rieducativa". Come in un lucido sogno, Ricciardi si addentra nella vita passata, si ricala nei gironi dell'inferno, ne ripercorre i meandri raccontando i corpi e le menti sofferenti che lo abitano, le loro condizioni materiali di vita, le loro tecniche di resistenza all'annientamento psicofisico che fa registrare centinaia di suicidi e migliaia di atti di autolesionismo all'anno. Prefazione di Erri de Luca.
Antonio Canova e uno di quegli artisti che porta lustro e fama dell'Italia in tutto il mondo. Fu un artista sopraffino, richiesto e stimato da clerici, da nobili, da potenti d'Italia e d'Europa, ma seppe mantenere una assoluta indipendenza artistica, culturale e politica. Le figure che seppe scolpire, mordbite ma dal tratto incisivo e personalissimo, rimangono ancora oggi un esempio per tutti gli scultori.