
Nella notte del 6 aprile 2009 un terremoto di magnitudo 5.9 della scala Richter colpisce L'Aquila: il bilancio è di oltre 300 vittime, 1.600 feriti e miliardi di euro di danni. Pochi mesi dopo, il Santo Padre invia sul posto monsignor Giovanni D'Ercole, pastore assai apprezzato e volto noto al pubblico televisivo che lo segue da anni nella trasmissione "Sulla via di Damasco". Ma don Giovanni - così ama farsi chiamare - è anche e soprattutto uomo d'azione. E quando, a oltre un anno di distanza dal terremoto, coglie le lamentele della gente per le macerie non ancora rimosse, non ci pensa un attimo: rimboccatosi le maniche, imbraccia una pala e comincia a darsi da fare. Perché, spiega, proprio questo deve fare la Chiesa oggi: darsi da fare affinché, tra le problematiche della postmodernità, gli uomini possano sentire che la Chiesa è accanto a loro, ne incoraggia il cammino. Quello odierno è uno scenario inquietante, e il terremoto dell'Aquila ne è una metafora quanto mai efficace.
"Oggi d'amore si parla troppo. Una colossale ipocrisia ha deturpato il senso di questa parola nella dimensione privata delle relazioni e in quella pubblica delle istituzioni, della Chiesa e della comunicazione. Forse è arrivato il momento di non nominarla più, di lasciarla stare un po' in pace". Inizia così la sferzante riflessione di suor Giuliana Galli, una vita dedicata ad aiutare minori e madri in difficoltà, barboni e immigrati, persone sole e coppie in crisi. Protagonista per quasi trent'anni del mondo del volontariato torinese, oggi impegnata nel campo dell'etnopsichiatria, suor Giuliana denuncia l'urgenza di un "undicesimo comandamento" laico "Non nominare amore invano" per recuperare la radicalità di significato di una parola abusata e bistrattata. Poco abituata a far prediche, donna schietta, preferisce in questo percorso raccontare storie, invitare testimoni, rievocare immagini. Sono pagine delicate e profonde, ottimiste ed esigenti, in cerca di un nuovo umanesimo scandito intorno a sei passi precisi: coltivare l'interiorità, onorare l'esistenza, tessere il quotidiano, abbracciare l'umano, sentire la res publica, vivere il Mistero. "Perché amare è un lavoro 'a giornata' dice suor Giuliana - e la disperazione non arriva quando c'è la sofferenza fisica o la povertà materiale, ma quando a esse si aggiunge la solitudine, la mancanza di legami affettivi forti, autentici, carnali".
Quando si cade nell’abisso della disperazione è possibile risorgere a vita nuova e credere ancora nel futuro? Chiara Amirante – da vent’anni in prima linea con la comunità “Nuovi Orizzonti” per aiutare giovani e persone che vivono disagi di ogni genere – ne è convinta: nella sua lotta quotidiana a sostegno di chi soffre, ha incontrato ragazzi sbandati, alcolisti, barboni, disoccupati, manager affermati ma infelici, e tante persone impaurite e sole, che patiscono il peso di una società disumanizzata che ha smarrito la preziosità delle relazioni autentiche. Molti di loro sono riusciti a cambiare vita e a rinascere.In questo dialogo diretto e interlocutorio con il lettore – ricco di condivisioni personali – l’autrice invita a intraprendere un percorso di crescita interiore per vincere le proprie paure, le assuefazioni a droghe e sostanze, le tante forme nocive di dipendenza dal giudizio altrui, le sfide quotidiane che impone la crisi economica e culturale del nostro Paese e dell’intero Occidente.In ognuno di noi c’è un potenziale inespresso – ci confida Chiara – e la felicità dipende da come decidiamo di utilizzarlo per non fuggire di fronte a tutto ciò che di doloroso e meraviglioso la vita ci regala.
Per tutti era "la piccola matita di Dio". Per i cristiani un gigante della fede. Fu santa per acclamazione di popolo il giorno stesso della morte, quando per le strade di Calcutta schiere di indù, musulmani, buddisti e fedeli di ogni religione si inginocchiarono davanti ad altarini improvvisati, decorati con le sue foto, piangendo e pregando per lei. Oggi Madre Teresa è ufficialmente santa anche per la Chiesa cattolica, grazie al riconoscimento del secondo miracolo da parte di papa Francesco. La missionaria - che alla fine del Novecento divenne un'icona internazionale per le sue opere umanitarie in India ricevendo il Nobel per la pace - rilasciò per tutta la vita interviste e colloqui, discorsi e meditazioni pubbliche. Gli archivi dei suoi scritti sono stati inaccessibili per molto tempo, ma di recente è stata data l'autorizzazione alla pubblicazione - nel 2014 - di queste riflessioni spirituali che John Scally, docente del Trinity College e amico di Madre Teresa, raccolse in una serie di incontri personali avvenuti a Dublino nel 1993. Sono schegge di pensiero, folgoranti illuminazioni, sul grande mistero dell'Incarnazione di Dio e sul rapporto fra miseria e misericordia. Madre Teresa spiega come mettere in moto quella "speranza attiva" che non si lascia abbattere nelle situazioni più disperate, regalando uno spirito che non si indurisce, una mente che non si stanca, una mano che non smette di accarezzare. In questi inediti assoluti per l'Italia si resterà contagiati dalla forza di una donna, che non si arrese mai di fronte alla desolazione, alla sporcizia, alle carestie delle baraccopoli e che non si stancava di ripetere a tutti: «Allargate il vostro cuore, scoprirete che è infinito».
Sarebbe un errore considerare l'umiltà una virtù di dettaglio, come se fosse un ornamento prezioso, ma non necessario. Eppure, nonostante sia una caratteristica fondamentale del Figlio di Dio, essa non gode la fama di altre virtù ritenute più eccellenti. In realtà è il terreno sul quale crescono tutte le altre, tanto da poter dire che l'umiltà è la misura della santità. Infatti, se è vero che la carità è la regina di tutte le virtù, è per la presenza dell'umiltà che essa "non si gonfia", rischiando di corrompere se stessa. Il direttore di Radio Maria rileva la messa ai margini di questa virtù da un contesto sociale che esalta l'arroganza e l'arrivismo, ma mette in guardia anche dalla "falsa umiltà", quella di coloro che fanno finta di sminuirsi per fare carriera, per compiacere il potente di turno, per piegarsi servilmente agli interessi altrui e ottenere guadagni personali. Le riflessioni che si snodano nei vari capitoli hanno come scopo quello di portare il lettore nel santuario della propria interiorità, per conoscerne miseria e grandezza, per giungere a uno sguardo di verità su se stessi. L'uomo non è mai così grande come quando riconosce di essere un peccatore, guardando se stesso e gli altri con lo sguardo della compassione. Ma non è mai così in pericolo come quando si crede superiore ai suoi simili e si indurisce nell'incapacità di chiedere perdono. Solo la virtù dell'umiltà è la medicina che consente all'uomo di liberarsi dalla tirannia dell'"io" e di gustare la pace del cuore.
Sarebbe un errore considerare l'umiltà una virtù di dettaglio, come se fosse un ornamento prezioso, ma non necessario. Eppure, nonostante sia una caratteristica fondamentale del Figlio di Dio, essa non gode la fama di altre virtù ritenute più eccellenti. In realtà è il terreno sul quale crescono tutte le altre, tanto da poter dire che l'umiltà è la misura della santità. Infatti, se è vero che la carità è la regina di tutte le virtù, è per la presenza dell'umiltà che essa "non si gonfia", rischiando di corrompere se stessa. Il direttore di Radio Maria rileva la messa ai margini di questa virtù da un contesto sociale che esalta l'arroganza e l'arrivismo, ma mette in guardia anche dalla "falsa umiltà", quella di coloro che fanno finta di sminuirsi per fare carriera, per compiacere il potente di turno, per piegarsi servilmente agli interessi altrui e ottenere guadagni personali. Le riflessioni che si snodano nei vari capitoli hanno come scopo quello di portare il lettore nel santuario della propria interiorità, per conoscerne miseria e grandezza, per giungere a uno sguardo di verità su se stessi. L'uomo non è mai così grande come quando riconosce di essere un peccatore, guardando se stesso e gli altri con lo sguardo della compassione. Ma non è mai così in pericolo come quando si crede superiore ai suoi simili e si indurisce nell'incapacità di chiedere perdono. Solo la virtù dell'umiltà è la medicina che consente all'uomo di liberarsi dalla tirannia dell'"io" e di gustare la pace del cuore.
La recente emergenza planetaria ha messo tutti noi di fronte a una verità ovvia, ma che evidentemente preferivamo ignorare: nonostante il progresso e i risultati straordinari della scienza e della tecnologia, rimaniamo esseri fragili. Anche nei paesi più ricchi può manifestarsi l'imprevisto assoluto di una vulnerabilità che si carica di sofferenza. Riconoscere la nostra comune fragilità appare una straordinaria opportunità per ricomprendere la nostra comune umanità. È la grande lezione da apprendere: riconoscere la dignità della vita vulnerabile e mortale che ci accomuna è la via attraverso la quale si riapre il varco per ricostruire legami sociali autentici. Purtroppo, in una società come la nostra, permeata dai valori e dai disvalori di un capitalismo che incalza, dall'ossessione di una vita senza ostacoli e dal consumo di un godimento senza limiti, l'esperienza della vulnerabilità appare come una vergogna da nascondere. Ma se c'è amore per la fragilità non c'è vergogna nella vulnerabilità; e non cresce l'insensibilità per coloro che non ce la fanno: umanità di scarto, incapace di affermarsi. Siamo tutti fragili. Rimuovere la comune fragilità, invece di condividerla con amore, significa preparare una società di solitudini. È nell'alleanza dei fragili la via per un umanesimo universale.
Don Dante Clauser ama definirsi "un vecchio prete di strada". E' l'amico dei poveri e dei barboni. Dopo il grande successo della sua autobiografia, La mia strada, e del piccolo libro Francesco d'Assisi, ambedue pubblicati da Il Margine, ora si presenta con il suo libro più impegnativo e appassionante: un commento al Vangelo di Matteo. Il "prete dei poveri" fa riscoprire a tutti la forza semplice e sconvolgente del Vangelo con pensieri brevi e folgoranti, semplici e profondi, sinceri e diretti, vivissimi e gustosi, che attingono alla vita di tutti i giorni e vogliono parlare al cuore di tutti.
A un anno dalla scomparsa di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, gli autori (attivamente impegnati nel Movimento e con incarichi di grande responsabilità) raccontano cosa ha significato per la loro vita, personale e familiare, l'incontro con Chiara e la sua spiritualità dell'unità fondata sul Vangelo. Dagli anni della gioventù e della contestazione, con la scoperta di "un ideale che non passa", al matrimonio, ai figli (sei); dal ritrovarsi a vivere questo ideale in Parlamento (Lucia) e nello sport (Paolo, medico sportivo di squadre nazionali), fino agli impegni internazionali col Movimento, gli autori ripercorrono la loro avventura con lo stupore di chi non la poteva immaginare.
Raccolta di alcuni dei più significativi contributi di mons. Giancarlo Bregantini, trentino di origine, vescovo prima di Locri-Gerace e attualmente di Campobasso.
I testi presenti nel libro sono organizzati attorno ad alcuni temi chiave: il mestiere di vescovo, testimoni della fede, società e politica, nella Locride, in Calabria, i giovani, chiesa bibbia e spiritualità, la nuova comunità. Ne emerge il profilo di un vescovo la cui profonda spiritualità sostiene il costante impegno per l'affermazione della legalità e della giustizia e per la difesa dell'uomo.
Otto anni dopo la prima pubblicazione, ritorna - con un'appassionata prefazione di Grazia Villa, presidente della Rosa bianca - un testo fondamentale del femminismo filosofico e teologico. Un libro che "scandalizza" i custodi dei sacri poteri maschili attraverso la radicale differenza di genere e di sguardo delle donne che pensano e amano Dio. Forse solo le mistiche sanno vibrare del vento rivoluzionario del Dio che ama gli uomini e le donne. Un testo che disfa e ridisfa a ogni rilettura tutte le immagini di Dio, anzi dello "Sgrammaticato" come lo definisce Muraro, senza mai distruggerne il Volto Santo, l'Assoluto, l'Immanente, proprio perché il Dio delle donne, è Colui/Colei che è raccontato in lingua materna, è l'indicibile delle mistiche, è il non pensato della teologia favolosa delle donne, quella teologia fondata proprio sulla loro relazione unica, libera e personale con il loro Dio. Da Margherita Porete a Simone Weil, da Angela da Foligno a Etty Hillesum, da Giuliana di Norwich a Cristina Campo. Il Dio di queste donne era un Dio che conoscevano con l'esperienza diretta dell'incontro, ma anche attraverso l'accesso libero alla Scrittura Sacra (almeno finché la gerarchia ecclesiastica non intervenne a proibire questa "scuola divina" non autorizzata). Con sferzante ironia l'autrice commenta: "Ben prima della borghesia progressista fu Dio, dunque, che s'incaricò di alfabetizzare le donne, o almeno le sue amiche preferite!".
Il filosofo e viaggiatore si chiama Itlodeo, colui che racconta menzogne... L'isola esplorata Utopia, che può significare sia la contrazione di "Eutopia", luogo felice e ottimo, sia la storpiatura di "Outopia", luogo che non c'è... Il governatore dell'isola è Ademo, il senza popolo. La capitale Amauroto, la città invisibile. Il fiume che la percorre è l'Anidro, il privo d'acqua... È Utopia di Tommaso Moro, un "libello" aureo e ironico, dedicato alla ricerca di quale sia la forma migliore di governo. Un'opera che sta per compiere cinquecento anni (è stata pubblicata nel 1516), ma che non ha perso nulla della sua originaria freschezza, vitalità e forza visionaria. Un manifesto per tutti gli inguaribili sognatori della "città ideale", in cui siano bandite la sopraffazione, la diseguaglianza e l'intolleranza. Un luogo che non si trova sulle cartine geografiche, ma che esiste nella mente e nei cuori di chi si impegna a farla vivere.