
Perché fare storia della filosofia, se la filosofia è morta? La ricerca filosofica si trova in una singolare impasse. Rinsecchisce la sua vena speculativa, cresce a dismisura la cura storiografica. Ma cresce anche la domanda di filosofia, che priva di respiro teoretico e di rigore filologico rimane però allo stato di mera suggestione. Questo libro tenta di coniugare di nuovo storia e teoresi. Da un lato si ritaglia oggetti storiografici precisi: i margini del razionalismo seicentesco e i dilemmi della ragione e della fede (Pascal, Fénelon, Spinoza), ma anche gli esercizi della dialettica (Hegel, Merleau-Ponty). Dall'altro investe con vigorosi sondaggi teoretici un'area più ampia che lambisce anche il '900 e territori solitamente meno esplorati (la fotografìa, il cinema).
Questa raccolta d'interviste con Richard Rorty copre un periodo di circa vent'anni. In generale ognuna è legata alla pubblicazione di uno dei suoi libri, ma alcune sono anche motivate dal particolare momento o evento politico che si è pensato meritasse il commento unico di Rorty. Le interviste ci mostrano una delle proposizioni centrali del suo pensiero: che la ricerca in privato della sublimità deve essere indipendente dalla ricerca della solidarietà pubblica. Rorty si è mantenuto coerente nella sua visione politica, circa il ruolo della filosofia nella politica e il ruolo della politica nella società americana. La sua idea di sinistra è stata abbastanza costante per tutto l'arco della sua vita. Altra cosa patente in queste interviste è che il liberalismo borghese postmoderno di Rorty e la sua politica postfilosofica non sono motivati né da uno spirito conservatore, né da uno spirito anarchico. Né sono le sue vedute frivole o relativistiche. Piuttosto, è chiaro che il lavoro di Rorty è motivato dalla speranza e dall'utopia di una giustizia sociale.
Il libro contiene una certa polemica antiempiricista ed una forte polemica contro Umberto Eco, senza voler minimamente negare il suo acume ed i suoi meriti nel campo ristretto della semantica. Mi sento più vicino non soltanto alla filosofia trascendentale del soggetto, ma anche al Sofiste di Platone e ad Heidegger.
In questo piccolo libro, Étienne Gilson (1884-1978), filosofo cattolico neotomista si occupa di due autori apparentemente lontanissimi dal suo campo di indagine: François Villon, il poeta francese del Quattrocento autore della celeberrima Ballata degli impiccati, ladro, malfattore, bandito, per lo più ritenuto ateo; e François Rabelais, l'autore del Gargantua e Pantagruele, letto generalmente come pre-libertino, carnale, pagano e mondano, fastidito dalla teologia proprio a causa del suo passato di frate francescano. «Bisognerebbe mettersi nelle condizioni di comprendere i testi, prima di commentarli». Sulla base di questo principio, Gilson smonta queste immagini semplificate dimostrando la familiarità di Villon e Rabelais con la Bibbia, la patristica e il lessico filosofico medievale, il che dà ancora più forza alla posizione di eccentricità scelta dai due scrittori. Basta leggere il Gargantua, dice Gilson, grattare appena la superficie delle parole e delle locuzioni, per trovarvi la ripresa di luoghi biblici e teologici, così familiari all'orecchio dell'uomo medievale, da non poter sfuggire nemmeno al più distratto dei commentatori. È una lettura che fa giustizia di tanti facili alibi storiografici, come la "frammentazione postmoderna". Non ci sono frammenti se non dove non si ha voglia di raccoglierli: questa è la sostanza del monito di Gilson, a suo modo progressivo e, nel nostro tempo, anche costruttivamente eretico.
In questo saggio del 1926 Etienne Gilson ci racconta il match tra due pesi massimi della teologia cristiana: san Tommaso e sant'Agostino. Dietro lo scontro, quello tra due visioni opposte, che corrono parallele in tutta la storia dell'Occidente. Da una parte, l'idea di un Dio incommensurabile, unica fonte di conoscenza per l'uomo. Dall'altra, la potenza della speculazione razionale, la filosofia come via sicura per conoscere anche il divino. Tommaso d'Aquino, magister all'Università di Parigi alla metà del Duecento, si trova nella difficile posizione di dover sfidare il più illustre dei Padri della Chiesa, sant'Agostino, per difendere il senso del mestiere filosofico. L'esito finale sarà una vera e propria riscrittura della storia filosofica, in cui le posizioni più diverse verranno ricondotte ai due ceppi originari di Platone e Aristotele. Se dunque il campo ne risulterà bipartito, Tommaso sceglierà per sé la parte degli aristotelici, contro il generale orientamento platonizzante della Chiesa del tempo.
Passare da Wittgenstein per arrivare a san Tommaso non è un percorso a ritroso, filosoficamente parlando. Lo sostengono importanti pensatori britannici della tradizione post-analitica come Peter Geach, Elizabeth Anscombe e Anthony Kenny, i quali propongono una lettura molto originale del Dottor Angelico e dell'autore delle Ricerche filosofiche. Roger Pouivet ricostruisce in "Dopo Wittgenstein, san Tommaso" i percorsi di una nuova e provocatoria corrente filosofica che ha preso il nome di "tomismo analitico" ed è una delle più coraggiose frontiere filosofiche di oggi.
La filosofia è sorta con la celeberrima divisione tra essere e apparenza: un atto che ha separato ciò che sta, immutabile e incontrovertibile, da ciò che da questo essere è retto. Il mondo dell'apparenza, interpretato come luogo del divenire, ha assunto i tratti del non essere, imponendo ai filosofi l'esigenza di mettere in relazione il non essere con l'essere ovvero di trovare una compatibilità tra contraddittori. La soluzione di Severino, qui ripercorsa in sei dense lezioni, ha il pregio della semplicità e il rigore di un ferreo argomentare logico. Egli nega al divenire l'evidenza fenomenologica che comunemente gli si attribuisce. È certamente vero che i fenomeni entrano ed escono dalla percezione della coscienza mortale, ma senza che questo debba essere attribuito a un loro presunto divenire. Che l'apparenza sia il luogo del divenire è piuttosto un modo filosofico per rendere ragione dell'apparire dell'apparenza. Su queste basi la proposta di Severino offre un superamento del dualismo essere-apparenza e aiuta a leggere l'apparenza come manifestazione necessaria ed eterna dell'essere.
Una lettura del pensiero di Emmanuel Lévinas alla luce del confronto con Kant, su un tema quanto mai classico: il male radicale. Non solo assumono nuovi significati i temi fondamentali della filosofia levinasiana, etica come filosofia prima, primato dell'altro, ma la stessa meditazione sulla tragedia della Shoa è riletta alla luce del concetto kantiano di male, come disposizione inscritta nell'animo umano. Disposizione di cui si è sempre responsabili.
I temi della fede e della religione, e del loro conflitto con la cultura laica, sono da qualche tempo al centro di un interesse mediatico crescente, alimentato anche dalle polemiche politiche suscitate dal moltiplicarsi degli interventi e delle "scomuniche" del papa e della Conferenza Episcopale Italiana contro la modernità. Mancava fin qui, tuttavia, un testo di discussione, da punti di vista diversi e reciprocamente problematici, sulle ragioni dell'ateismo e della fede. Un confronto tra gli esponenti di tre posizioni ideologiche molto lontane tra loro, accomunate però dal rifiuto di ogni appartenenza accademica: il cristianesimo nietzschiano del "pensiero debole" di Gianni Vattimo, la saggezza atea di una tradizione antica rilanciata da Michel Onfray e l'empirismo naturalistico-esistenziale della "filosofia del finito" di Paolo Flores d'Arcais. In questo insolito dialogo a tre voci emergono tutti gli interrogativi essenziali legati al problema, a partire da quello più generale: quali devono essere i rapporti tra filosofia e ateismo? L'"ipotesi Dio" deve ormai essere considerata superflua anche dalla riflessione filosofica, visto che le scienze ne fanno metodologicamente a meno? Quali sono le conseguenze etiche e politiche dell'essere atei o, all'opposto, credenti?