
Vivere insieme nella città non è una scelta ma un destino, che da qualche tempo coinvolge la maggior parte degli abitanti del pianeta. Legato agli sviluppi della globalizzazione economica e tecnologica, questo fatto pone problemi nuovi agli urbanisti e a tutti noi. Come vivere insieme nella attuale città plurale, nelle grandi città-mondo che mescolano il sublime e il kitsch, la bellezza e l'orrore? Come fronteggiare la crescita inarrestabile delle disuguaglianze tra la città dei ricchi e la città dei poveri? Come favorire aggregazioni compossibili e risolvere questioni ambientali ed ecologiche di proporzioni mai conosciute? Domande ineludibili e problemi urgenti: la questione urbanistica è oggi la questione stessa del sapere.
La nobiltà di spirito
non è un privilegio di casta.
È la giusta ambizione di ogni
vita degna di essere vissuta.
La vasta cultura dell’autore, il suo impegno incrollabile nella difesa degli ideali liberali e l’agilità della sua penna fanno di questi saggi una guida preziosa.
— Mario Vargas Llosa
Rob Riemen ha scritto uno dei rari libri di cui c’è un disperato bisogno.
— Azar Nafisi
“I valori umanistici classici implicano una fondamentale fi ducia nel potere, sempre imperfetto ma costantemente corroborato, dello spirito umano” aff erma George Steiner. Portavoci, spesso incarnazioni di questi valori furono grandi fi gure come Socrate, Baruch Spinoza, Walt Whitman, Thomas Mann e Leone Ginzburg. La consapevolezza di vivere un’epoca di crisi, segnata dalla guerra o dall’abbrutimento, ma soprattutto la strenua volontà di opporsi alle derive del loro tempo ne accomuna il lascito umano e intellettuale: la determinazione a non perdere di vista la destinazione morale dell’essere umano, anche nelle tenebre della storia, anche nel fondo di un carcere. In La nobiltà di spirito Rob Riemen si sforza di mettere in salvo il messaggio di queste grandi fi gure “inattuali” per legarle al nostro travagliato presente, ricostruendo una genealogia spirituale che va dall’Atene di Pericle all’Europa dei totalitarismi. Ripercorre una catena di esistenze esemplari spese alla ricerca di una libertà che non sia arbitrio, ma aspirazione a una vita giusta; di una saggezza che non sia erudizione, ma inseguimento dell’assoluto pur nell’imperfezione della conditio humana; di un coraggio che non sia vanagloria, ma forza di lottare per gli ideali intramontabili dell’umanesimo occidentale. E ci invita a rifl ettere sulle radici della tradizione europea, per riappropriarci di un’eredità in pericolo, e credere di nuovo nella cultura intesa come unico rimedio all’atrofi a morale e intellettuale.
Rob Riemen (1962), filosofo e saggista, è cofondatore dell’istituto olandese Nexus, che organizza incontri con le principali personalità della cultura mondiale, e di cui dirige l’omonima rivista. La nobiltà di spirito, già tradotto in dieci lingue, è il suo primo libro.
Aaron James è il massimo teorico mondiale della stronzaggine. Come ha dimostrato nel suo libro precedente, "Stronzi". "Un saggio filosofico", si definisce tecnicamente "stronzo" "l'individuo che, nell'ambito delle relazioni interpersonali, si arroga in modo sistematico privilegi che non gli competono, sulla base di un inossidabile (ed erroneo) senso di superiorità che lo rende immune alle recriminazioni di altri soggetti". Oggi James prosegue la sua ricerca filosofica sull'irresistibile ascesa di questa categoria concentrandosi sul nuovo presidente americano, Donald Trump. Come ha fatto a sedurre gli elettori? Perché non riusciamo a staccare lo sguardo da lui, stupiti, sconcertati, scossi e divertiti nello stesso tempo? E ancora: quali caratteristiche specifiche deve avere uno stronzo per ottenere simili risultati in modo tanto spettacolare? Delle molte specie che fanno parte dell'ecosistema degli stronzi, Trump, esattamente, a quale tipo appartiene? E questo gli conferisce o no i requisiti per occupare la più alta carica politica del più potente Stato del mondo? E, soprattutto, che rischi può rappresentare - e magari quali vantaggi può portare - la presidenza Trump per la democrazia? Rispondere a queste domande significa guardare dentro se stessi, riflettere sui fondamenti del nostro contratto sociale, indagare la natura dell'ordine e dell'autorità in una democrazia moderna.
Dobbiamo rassegnarci alla tirannia dell'io, a una celebrazione continua dell'egoismo e dell'apparenza che si traduce in una somma di solitudini e nell'accettazione passiva delle cose come stanno? In un'appassionata discussione guidata da Edoardo Camurri, Matteo Zuppi, presidente della CEI e arcivescovo di Bologna, e Walter Veltroni, politico, scrittore e regista, illustrano le molte ragioni per non arrendersi a un mondo che ci appare sempre più disumano, ma che può essere ancora riscattato dalla nostra azione consapevole. Non arrendiamoci alla paura, soprattutto alle paure indotte: guardiamo invece in faccia le paure reali, e studiamo strategie per liberarci delle loro cause. Non arrendiamoci all'indifferenza e al fatalismo: osserviamo i veri progressi compiuti nel corso di un paio di generazioni e confidiamo nel potere dell'utopia, del sogno, della profezia. Non arrendiamoci all'inevitabilità della guerra e dei confini: diventiamo artigiani di pace e di giustizia. Viviamo in un'epoca cruciale, in cui il mondo è sull'orlo della catastrofe ambientale, climatica, nucleare, e allo stesso tempo disponiamo di risorse tecnologiche e scientifiche inimmaginabili fino a pochi decenni fa. Abbiamo il dovere di batterci per orientare il futuro: verso il bene dell'umanità.
Il primo incontro di Paolo con i filosofi risale al tempo in cui l'apostolo si trova ad Atene. Incuriositi dai suoi strani discorsi, alcuni epicurei e stoici lo invitano a parlare davanti all'Areòpago, ma quando lo sentono argomentare sulla risurrezione dei morti lo deridono e lasciano la platea. Due millenni più tardi, l'attualità delle lettere paoline riecheggia nella riflessione filosofica che si confronta con la nascita del cristianesimo. Questo volume - che colma un vuoto nella saggistica sul tema - prende in esame le riflessioni di Heidegger, Badiou, Zizek, Taubes, Agamben, Foucault, Vattimo e Derrida.
Le note diaristiche tracciate da Simone Weil su un quaderno nei mesi della sua esperienza come operaia tra 1934 e 1935 non erano certo destinate alla pubblicazione. Edite postume nel 1951, fecero da premessa a una raccolta di saggi e lettere sulla condizione operaia, rendendo così evidente la connessione fra un'esperienza di vita tanto anomala e la serie cospicua di analisi, riflessioni e proposte operative parimenti fuori schema per rivoluzionari e conservatori. Tale scelta ha tuttavia condizionato la lettura del Diario di fabbrica, riducendolo a pura registrazione del vissuto dell'autrice o a mero documento sull'oppressione subita dagli operai, e ne ha intralciato la percezione come opera narrativa di straordinario valore artistico per forma e contenuti, a condizione che lo si legga a s~ stante. Questo è per l'appunto l'intento con cui lo si ripropone in una nuova traduzione basata sull'edizione critica delle Oeuvres complètes, arricchita da un apparato di note che fa luce sul contesto storico e sulle procedure di lavoro nell'industria dei primi decenni del XX secolo.
«Che cosa ho guadagnato in questa esperienza? [...1 Un contatto diretto con la vita...».
«Se scrivessi un romanzo, farei qualcosa di totalmente nuovo».
Simone Igéil
Un serrato confronto tra un filosofo e un teologo sul gesto umano del costruire e sul senso dell'abitare. Dialogando con Heidegger, Derrida, Blanchot, Augé, Lévinas, Baudrillard, Benjamin, la Bibbia, ed altro ancora, il saggio riflette sulla differenza tra lo spazio ed il luogo, sulla natura della casa, sul tema della città e sulla perversione della convivenza umana nelle megalopoli contemporanee.
I saggi raccolti in questo volume sono dedicati a insigni rappresentanti della cultura filosofica, teologica e letteraria del Novecento, da Buber a de Waelhens, da Jankélevitch a Leiris, da Marcel a Merleau-Ponty, da Rosenzweig a Wahl. Quasi tutti scritti nel corso degli anni Ottanta, i contributi costituiscono una tappa di grande rilievo nel contesto del lungo itinerario di ricerca di Emmanuel Lévinas e consegnano una panoramica vivida degli sviluppi e degli interessi più recenti e più maturi del pensiero del filosofo francese.
Come spiega nell’introduzione Francesco Paolo Ciglia: «è come se egli regolasse i conti pubblicamente con le sue fonti di ispirazione o con gli interlocutori privilegiati del suo messaggio filosofico, mettendo in chiaro la sua prossimità o la sua distanza da ognuno di essi».
Sommario
Hors Sujet: appunti di lettura (F.P. Ciglia). Prefazione. I. Martin Buber. II. Franz Rosenzweig: un pensiero ebraico moderno. III. Jean Wahl senza avere né essere. IV. Vladimir Jankélévitch. V. Sulla significatività del senso. VI. Sull’intersoggetività. Note su Merleau-Ponty. VII. In memoriam Alphonse de Waelhens. VIII. I diritti umani e i diritti altrui. IX. Le corde e il legno. Sulla lettura ebraica della Bibbia. X. Linguaggio quotidiano e retorica senza eloquenza. XI. La trascendenza delle parole. A proposito delle Biffures. XII. Fuori dal soggetto. Note del curatore.
Note sull'autore
Emmanuel Lévinas (1905-1995), filosofo lituano naturalizzato francese, ha insegnato all’École normale israélite di Auteuil, nelle università di Poitiers e di Paris-Nanterre e infine alla Sorbona. Tra le sue opere Marietti ha pubblicato anche: Dall’esistenza all’esistente (1986), Nomi propri (1990) e Trascendenza e intellegibilità (2018).
«Quando dico “io so” – osserva Wittgenstein – non mi comporto come il solipsista che presume di poter giustificare la propria affermazione mediante l’introspezione e il ricorso a un processo interiore, ma in modo diverso, in quanto ne sono certo. L’unica ragione che posso portare a sostegno di questa asserzione è che ripongo la mia fiducia in ciò che credo e che me ne sento appagato. In virtù di questa disposizione di spirito che ho nei confronti del mondo “che è” e delle forme di vita, il linguaggio è reintegrato entro lo sfondo cui appartiene ed è restituito alla sua funzione originaria di “mostrare” il senso».
Antonio Pieretti ricostruisce il pensiero di Wittgenstein tenendo conto della funzione pratica che la filosofia svolge e della disposizione mentale che occorre per esercitarla in maniera rigorosa. La filosofia diventa così l’attività critica che prepara a meravigliarsi dell’esistenza del mondo e a risvegliarsi al senso nelle diverse forme di vita e nelle molteplici configurazioni del linguaggio.
Post-religiosi, atei, materialisti: nell'infinita gamma degli atteggiamenti dell'Occidente secolarizzato verso la religione sembra manchi solo quello più semplice: credere. È ormai una scelta marginale, in via d'estinzione? Niente affatto, tanto è vero che il bisogno di Dio sembra tornare alla ribalta ovunque nel mondo, in modi anche drammatici. Perché? È opinione comune che la religione sia stata inventata dagli uomini per autoconsolarsi della propria condizione mortale. Ma se le cose stanno così, come mai tutte le religioni hanno sempre offerto ai fedeli e ai non-fedeli scenari inquietanti, dal giudizio finale al paradiso e all'inferno? Il fatto è che la religione, nel momento in cui risponde alla domanda sul senso della vita, riguarda la nostra libertà, perché della libertà è l'ultima difesa e non la soppressione. Ecco perché il ritorno a Dio è necessario al fine di contrastare il totalitarismo in tutte le sue forme. Se è vero che la religione non può essere tenuta fuori dalla sfera pubblica, riflettere sulla sua opportunità significa riflettere sulla giustizia, che è ciò da cui si dispiega, secondo la lezione del pensiero antico da Parmenide in poi, l'ordinamento stesso del mondo e del nostro stare insieme come umani. Uno dei nostri maggiori filosofi si interroga e ci interroga sulla necessità della religione prima ancora che sul bisogno di essa, avendo il coraggio di prendere le distanze da figure mai come ora oggetto di discussione e al centro del dibattito: Nietzsche e Heidegger. E lo fa da laico, consapevole che laico non è chi rivendica la propria indifferenza nei confronti della religione ma al contrario chi la prende sul serio, riconoscendo che i contenuti essenziali con cui è chiamato a fare i conti, le ragioni per cui si vive, vengono proprio da lì. Un percorso incalzante e profondo che fa appello alle conclusioni di poeti e scrittori non meno che a quelle dei filosofi - Hölderlin e Dostoevskij su tutti -, intreccia alla religione il discorso sul sacro e mette in guardia dai pericoli del relativismo e dell'etica utilitaristica. Al cuore, una domanda cruciale: davvero possiamo fare a meno della verità sull'uomo e sul mondo che solo la religione è in grado di comunicare?
Perché l'Occidente ha smarrito gli strumenti concettuali per pensare la pace e non riesce a definirla se non riducendola a un generico rifiuto delle armi o a una mera assenza di guerra? Sergio Cotta, tra i maggiori filosofi del diritto del nostro Paese, pone all'origine di questo fenomeno le teorie che, da Eraclito a Hobbes e a buona parte del pensiero contemporaneo, vedono nel conflitto l'elemento costitutivo di una visione antropologica negativa e come appiattita sulla prospettiva del fare creare distruggere. Per capire la natura della pace occorre guardare a un'altra linea di pensiero che, da Platone ad Agostino, da Leibniz a Husserl e Lévinas, invita a conoscere se stessi, alla ricerca della verità, all'incontro con l'altro. Se l'essenza originaria e universale dell'umano è relazionale, comunicativa, solidale, accogliente, allora la pace è il suo dato primario e la guerra è solo una condizione "parassita", una trasgressione rispetto alla verità della coesistenza civile.