
«Crediamo tutti di conoscere le persone che amiamo»: così Pearlie Cook comincia a raccontarci gli incredibili sei mesi che sono stati, per il suo matrimonio, una sorta di inesorabile lastra ai raggi X. Siamo nel 1953, in un quartiere appartato e nebbioso di ex militari ai margini di San Francisco, e tutto nella vita dei Cook parla ancora della guerra: la salute cagionevole di Holland, i ricordi tormentati di lei, le loro abitudini morigerate e un po’ grigie. Una vita per il resto normalissima, come sottolinea la voce ammaliante di Pearlie – mentre la sua testa scoppia di pensieri che forse, via via che si disvelano, preferiremmo non ascoltare. Eppure li leggiamo con avidità, rassicurati dal fatto che lei, palesemente, ha intenzione di dirci proprio tutto. Perché, allora, ci sentiamo invadere da un’ansia arcana, da un senso di vertigine e di smarrimento, come davanti a certe atmosfere torve di Edgar Allan Poe? Non solo per il susseguirsi di colpi di scena che ci avvincono a ogni riga sino a condurci all’unico finale davvero imprevedibile. Non solo per l’uomo venuto dal passato, per la lettera che colpisce come un pugno, per i terribili segreti che si dischiudono a uno a uno... Sarà allora per la dolorosa lucidità con cui la narratrice riesce a indagare la distanza che separa ciascuno di noi dagli altri? O perché a ogni pagina ci chiediamo: come fa Pearlie a sapere tutte queste cose – di noi?
Appena mette piede, in compagnia della fidanzata, nella sua stanza d'albergo sulla Costa Brava, il giovane Udo Berger ottiene, dopo molte insistenze, che gli venga portato un grande tavolo, sul quale piazza il war game di cui è campione assoluto e di cui intende elaborare nuove e più audaci strategie: Il Terzo Reich. L'atmosfera è delle più beatamente, ottusamente balneari. Eppure, quasi subito, sentiamo che non tutto è luce, e che nell'ombra sono in agguato fantasmi inquietanti. Né ci vorrà molto perché la liscia superficie della routine vacanziera si incrini: e dalle fenditure vedremo apparire qualcosa in cui non potremo che riconoscere il Male. A mano a mano che l'estate si spegnerà, l'albergo, svuotandosi, assomiglierà pericolosamente a quello di Shining - mentre noi, insieme a Udo (sempre più ossessionato dal suo gioco, e risoluto a trovare il modo di portare alla vittoria l'esercito tedesco nella seconda guerra mondiale), cominceremo a interrogarci sugli eventi ominosi a cui andiamo assistendo: a chiederci, per esempio, a che cosa miri davvero Frau Else, l'affascinante ed enigmatica proprietaria dell'albergo; e perché il Bruciato, l'uomo dal corpo e il volto coperti di cicatrici ripugnanti che vive sulla spiaggia, abbia ingaggiato contro Udo una lunghissima partita di Terzo Reich, più simile a un duello o a una resa dei conti - e che potrebbe anche concludersi nel sangue; e soprattutto per quali tortuose vie quel che avviene nel gioco influenzi gli avvenimenti del mondo reale?
«La volta che Itria Panedda Nilis riprese a sognare era un pomeriggio rovente di fine estate, con un sole che abbruschiava la pelle e spaccava le pietre». Da Melagravida i sogni se n'erano andati dopo un terremoto, quando la terra si era spaccata «come una melagrana matura». Ma quel giorno Itria Nilis – «conosciuta a Melagravida e nel circondario col nomignolo di Panedda per via delle sue carni morbide e bianche come il latte appena cagliato» – fu come sopraffatta da «una sonnolenza strana», e sognò, e quando tornò in sé si sentì (lei, vedova da quattro anni) come accesa da un fuoco, e corse verso l'ovile del capraio Martine. Lui, quel fuoco che Itria aveva addosso, glielo spense volentieri – ma la pagò cara. E questo accadeva sulle rive del lago di Locorio, dove da allora hanno cominciato a verificarsi fatti assai strani. Il parroco aveva un bel sostenere che non c'era nessun mistero, che era solo opera del Maligno: tutti lo sapevano, anche se pochi avevano visto Itria Panedda Nilis «che si spogliava e ballava, e cantava e volava sopra le acque del lago». Così comincia questo romanzo di Salvatore Niffoi, che ancora una volta, sin dalle prime pagine, immerge il lettore in un'atmosfera magica e insieme concretissima, in cui la vita quotidiana di un paesino della Barbagia (fatta di fatica e di dolore, di miseria e di ferocia) si illumina di visioni in cui compaiono il diavolo e i morti ammazzati, ma anche madonne con le «tette grosse e dure, labbra alabastrine e capelli di seta» – e, sull'altare maggiore di un santuario abbandonato, finanche un dipinto raffigurante una specie di «grosso ragno meccanico»: lo stesso rappresentato sul frontespizio di un libro stampato da Aldo Manuzio nel 1499...
Quando nel 1973 uscì “I due allegri indiani”, l'aggettivo “demenziale” non ancora entrato nel lessico della critica italiana: il primo film dei Monty Python sarebbe stato distribuito solo un anno dopo, “Hellzapoppin” e “La guerra lampo” dei fratelli Marx erano noti a una sparuta minoranza di cinofili e gli unici esempi di «demenzialità» proposti alle italiche genti erano i personaggi di “Alto gradimento”. Inoltre, Rodolfo Wilcock era un ospite assai singolare della nostra letteratura, quasi un alieno. Cresciuto alla scuola di Borges, già autore di parecchi libri nel suo Paese, si era reinventato come scrittore in una lingua, l'italiano, che aveva a sua volta reinventato con una estrosità, o meglio, una sfrenatezza, paragonabile solo a quella che Nabokov aveva inoculato nella lingua inglese. Forse perciò ci sono voluti anni prima che Wilcock venisse riconosciuto per quello che è: un maestro del fantastico e del grottesco - e un maestro della prosa italiana. “I due allegri indiani” si potrebbe definire un «romanzo rivista» , nel doppio senso della parola: perché è articolato nei trenta numeri della rivista «Il Maneggio» , diretta e redatta dal protagonista del romanzo stesso, che muta continuamente nome; perché ogni numero di questa rivista è come un susseguirsi esilarante di sketch di avanspettacolo, il cui autore fosse però un letterato abilissimo, un genio della satira. Gli indiani del romanzo sono da intendere, infatti, per lo più come italiani e, come scrisse Enzo Siciliano, «i fatti curiosi, i “minima moralia” recitati con ghigno sulfureo, la babele irrefrenabile dei referti, l'insensatezza programmatica dei trenta episodi che dovrebbero comporre il romanzo, concernono il costume italiano, i vizi del vivere all'italiana - vizi politici, letterari, psicologici, sessuali, religiosi» .Ma attenzione: “I due allegri indiani” è soprattutto una fonte continua di divertimento: si ride a ogni pagina, a ogni episodio, a ogni sberleffo, a ogni nuova invenzione verbale.
Perfetto amalgama di poesia e affabulazione, di ricordi lontani e paesi remoti, le prose del Secondo amore ci trasportano in un mondo magico, popolato di giovani violinisti capaci di far danzare le stelle in cielo, agili ballerini col monocolo, clown lillipuziani e macrocefali, zingari accampati fra il bosco e la palude in una distesa di tende bianche. Ma riaffiora, costante, la Storia, evocata da un Natale di guerra sul bassopiano della Podolia, a due passi dal fronte; dalla presenza dell’imperatore («Lui giace sepolto nella Cripta dei Cappuccini, sotto le rovine della sua corona, fra le quali io – vivo – vado aggirandomi»); dal cordoglio per la miseria austriaca al crollo dell’impero e per il tramonto della patria; dalla nostalgia degli esuli e degli emigrati – una nostalgia che può spezzare il cuore. E a ritmare l’intero libro è l’amore, che nel racconto eponimo si fa pura, toccante bellezza: nel bosco incantato, teatro di incontri pudichi, una risata si alza in volo «come un raro, sconosciuto uccello bianco», mentre i giardini esalano il profumo del glicine «con la fresca veemenza di un dolce vento». Un profumo inebriante oggi come allora.
L'AUTORE
Joseph Roth
Jopseph Roth (1894-1939) fu ufficiale dell'esercito austriaco nella Grande Guerra, giornalista (a partire dal 1918) e romanziere. Nel 1933 l'avvento del nazismo lo costrinse ad abbandonare la Germania, dove viveva. Morì a Parigi.
Alla fine degli anni Cinquanta, un giovane italiano di buone letture e nessun pregiudizio passa una stagione a Harvard e un’altra a Broadway. Dunque, corsi e lezioni e incontri importanti nella prestigiosa università: H. Kissinger, A. Schlesinger, J.K. Galbraith, D. Riesman, J. Burnham... Poco dopo, nella capitale dello spettacolo, sensazionali musicals e commedie con leggendari mostri sacri tuttora in scena: Ethel Merman, Mary Martin, Charles Boyer, Claudette Colbert, Lotte Lenya, Paul Newman, Geraldine Page, Lauren Bacall, Elizabeth Taylor, fra Tennessee Williams, Jerome Robbins, Gene Kelly, Woody Allen, Gypsy, Redhead, West Side Story... Intanto, letture e conversazioni coi protagonisti della letteratura: da Edmund Wilson e Saul Bellow e Mary McCarthy a Saul Steinberg e Truman Capote e Jack Kerouac... Incubi e tormentoni metropolitani. Nuovi perbenismi nei suburbia. Gli scapestrati «sabati del Village». Negli anni Sessanta, su e giù per la California, lungo la mitica Highway 101. Soggiorni e scoperte fra San Francisco e Los Angeles, Stanford e Berkeley e Hollywood. Da Alfred Kazin a George Cukor. Panorami e vedute. I primi movimenti dei «figli dei fiori» e le «contestazioni» poi passate più violente in Europa. Quindi, «off-off». Affermazioni vigorose ed effimere delle tendenze e strutture alternative, soprattutto nel cinema e nel teatro controcorrente. Mentre lo spettacolo più convenzionale si abbassa a livelli sempre più infantili e turistici. Visite cool a vari luoghi leggendari, frattanto: New Orleans, New Mexico, Taos, Key West, Cape Cod, Fire Island, Arizona, Disneyland, Honolulu.
Alberto Arbasino è nato a Voghera nel 1930, e ha pubblicato il suo primo racconto nel 1955, su «Paragone». Era Distesa estate, che sarebbe entrato a far parte della raccolta Le piccole vacanze, del 1957. Membro del Gruppo '63, collaboratore di alcune importanti riviste come «L'illustrazione italiana», «Officina», «Il Mondo», «Tempo presente», «Il Verri», e in seguito del quotidiano «la Repubblica», Arbasino ha scritto numerosi saggi, pamphlet e opere di narrativa, che vengono ripubblicati in questi anni da Adelphi (L'Anonimo lombardo, 1959 e 1996; Parigi o cara, 1960 e 1995; Fratelli d'Italia, 1963, 1976 e 1993; Super-Eliogabalo, 1969 e 2001; Specchio delle mie brame, 1974 e 1995; Lettere da Londra, 1997) insieme a nuovi testi (Mekong, 1994; Passeggiando tra i draghi addormentati, 1997; Paesaggi italiani con zombi, 1998; Le Muse a Los Angeles, 2000; Marescialle e libertini, 2004; Dall'Ellade a Bisanzio, 2006). Matinée (1983) è invece, come recita il sottotitolo, Un concerto di poesia.
Il cinema ha un suo modo di affrontare i tempi più difficili, che da sempre consiste nel proporre agli spettatori i più facili fra i soggetti possibili. Così nella Londra degli anni dell’ascesa di Hitler, mentre tutti si preparano all’inevitabile, un volitivo produttore, Chatsworth, ritiene sia il momento giusto per mettere in cantiere un’operetta vagamente mitteleuropea, di quelle che vanno parecchio anche a Hollywood nello stesso periodo. Chatsworth è altresì sicuro che La violetta del Prater sbancherà il botteghino, ma a due condizioni: che a dirigerlo sia il più talentuoso e paranoide fra i registi di lingua tedesca, Friedrich Bergmann, e che a occuparsi della sceneggiatura sia un giovane, promettente scrittore – Christopher Isherwood. Quanto segue è semplicemente la storia veridica (come il suo doppio narrativo, Isherwood prima della guerra aveva effettivamente lavorato alla Gaumont) e non resistibile (a volte, si sa, i making of sono cinema allo stato puro) di come un film nasce e si trasforma, e soprattutto di come giorno per giorno rischia, nei modi spesso più folli e sgangherati, la catastrofe. Per John Boorman, questo piccolo gioiello semidocumentario era il più bel libro in circolazione sul rapporto fra il cinema immaginario e quello reale; per qualsiasi lettore, sarà quantomeno una necessaria e appassionante parafrasi della lapidaria definizione che Bergmann, in un momento di franchezza, largisce a Christopher: «Sa che cos’è un film? ... Un film è una macchina infernale».
Così Sciascia volle presentare questo bellissimo libro di racconti, scritti fra il 1959 e il 1972: «... mi pare di aver messo assieme una specie di sommario della mia attività fino ad ora e da cui vien fuori (e non posso nascondere che ne sono in un certo modo soddisfatto, dentro la mia più generale e continua insoddisfazione) che in questi anni ho continuato per la mia strada, senza guardare né a destra né a sinistra (e cioè guardando a destra e a sinistra), senza incertezze, senza dubbi, senza crisi (e cioè con molte incertezze, con molti dubbi, con profonde crisi); e che tra il primo e l'ultimo di questi racconti si stabilisce come una circolarità: una circolarità che non è quella del cane che si morde la coda» .Resta da dire che il tempo trascorso non ha per nulla intaccato, e anzi esalta, la felicità e l'efficacia delle storie qui riunite come in un breve compendio delle molte voci narrative di Sciascia: scoprirle (o riscoprirle) oggi significa anche lasciarsi sorprendere dalla loro sconcertante, amara lucidità.
"Il vino della solitudine" è il più autobiografico e il più personale dei romanzi di Irene Némirovsky: la quale, pochi giorni prima di essere arrestata, stilando l'elenco delle sue opere sul retro del quaderno di "Suite francese", accanto a questo titolo scriveva: "Di Irene Némirovsky per Irene Némirovsky". Non sarà difficile, in effetti, riconoscere nella piccola Hélène, che siede a tavola dritta e composta per evitare gli aspri rimproveri della madre, la stessa Irene; e nella bella donna che a cena sfoglia le riviste di moda appena arrivate da Parigi in quella noiosa cittadina dell'impero russo - e trascura una figlia poco amata per il giovane cugino, oggetto invece di una furente passione - quella Fanny Némirovsky che ha fatto dell'infanzia di Irene un deserto senza amore. Hélène detesta la madre con tutte le sue forze, al punto da sostituirne il nome, nelle preghiere serali, con quello dell'amata istitutrice, "con una vaga speranza omicida". Verrà un giorno, però, in cui la madre comincerà a invecchiare, e Hélène avrà diciott'anni: accadrà a Parigi, dove la famiglia si è stabilita dopo la guerra e la rivoluzione di ottobre e la fuga attraverso le vaste pianure gelate della Russia e della Finlandia, durante la quale l'adolescente ha avuto per la prima volta "la consapevolezza del suo potere di donna". Allora sembrerà giunto alfine per lei il momento della vendetta. Ma Hélène non è sua madre - e forse sceglierà una strada diversa: quella di una solitudine "aspra e inebriante".
"Della letteratura non abbiamo bisogno per imparare a leggere. Ne abbiamo bisogno per sottrarre il mondo reale alle letture sommarie". E proprio questa la convinzione che ispira ad Alain Finkielkraut l'appassionato esercizio critico di Un cuore intelligente: raccontare nove tra i più notevoli libri della modernità svelando l'immensa sapienza che lì si cela. Perché la risposta alle grandi domande - "Che cos'è la civiltà? Che cos'è l'arte? Che cosa sono l'ideale e la grazia?" - non può che essere "una risposta narrativa". Rileggendo Tutto scorre... di Vasilij Grossman o La macchia umana di Philip Roth, Lo scherzo di Milan Kundera o II pranzo di Babette di Karen Blixen, Lord Jim di Joseph Conrad o Washington Square di Henry James, Finkielkraut, che da anni va smascherando le ingiustificate certezze dell'Occidente, si propone di scrutare la realtà incarnata nei particolari e spesso redenta dall'ironia - e, soprattutto, di trovare una chiave per decifrare gli "enigmi del mondo". E con la sua suite di letture ci invita a svincolarci da molteplici trappole, della ragione e del sentimento, per lasciarci educare, tramite la parola letteraria, alla "perspicacia affettiva". Solo così ci verrà concesso quel "cuore intelligente" che re Salomone invocava dall'Eterno, stimandolo più prezioso di ogni altro bene.
"È una situazione fra le più classiche. Lei decide di tradire il marito con un uomo che giudica affascinante. La tresca funziona fino al giorno in cui i due clandestini hanno la sensazione che il marito tradito abbia scoperto tutto. È un guaio. Anche perché, messa alle strette, l'adultera confessa. Che fare? Si dovrà procedere alla separazione e al divorzio. Sconvolta e piangente, lei si reca dall'amante. Gli dice d'aver confessato: vuole separarsi e andare a vivere con lui. Grande è la sorpresa, a quel punto. Infatti, l'amante non ha intenzione di lasciare la moglie e mettersi con lei. Pensiamo tutto questo ambientato nella colonia inglese di Hong Kong alla metà degli anni Venti e affidato alla penna superprofessionale di W. Somerset Maugham. Sarebbe uno dei suoi romanzi caustici, mondani, un po' cattivi. Ma Maugham, influenzato dalla lettura dell'episodio dantesco di Pia de' Tolomei, pensa di aggiungervi qualcosa in più." (Giorgio Montefoschi)
Nel 1960 Vasilij Grossman porta a compimento Vita e destino, subito confiscato dal kgb, e va incontro alla sorte del reietto. Alla stessa stagione e allo stesso universo di quel capolavoro, che descrive le manifestazioni del male e la sua sconfitta in nome della «bontà illogica» dei singoli, appartengono i racconti qui radunati. I ricordi e le testimonianze di prima mano del periodo bellico, che ruotano intorno al destino degli ebrei, ispirano le note drammatiche del Vecchio maestro e la dichiarazione di fede nella vita e nel «miracolo della libertà» che conclude La Madonna Sistina. Fosforo è una riflessione tristemente autobiografica sul l'amicizia misconosciuta, mentre Riposo eterno, Mam ma, L'inquilina, In periferia fotografano momenti diversi della lunga stagione sovietica, tra gli sconvolgimenti causati dal meccanismo delle repressioni staliniane e la corruzione morale che ne consegue, all'insegna dell’indifferenza e dell’egoismo. La strada, parabola sul modello tolstojano di Cholstomer, è il racconto delle disavventure di un mulo italiano sulle strade della Russia in guerra: la mostruosità di un mondo in cui Treblinka e il Gulag, nazismo e comunismo gareggiano in efferatezza colpisce in modo ancora più brutale se vista con gli occhi di un animale. E infine Il bene sia con voi!, dove le note di un viaggio in Armenia nell'autunno del 1961 si traducono in una sorta di luminoso poema. Al tramonto della vita, Grossman, già malato, disilluso, getta sul mondo e su se stesso uno sguardo insieme ironico e benevolo – e raccontando della gente semplice che incontra, del martirio armeno, scrivendo di fede, arte, poesia, ci consegna il testamento di una vita vissuta «secondo coscienza».

