
"Crediamo tutti di conoscere le persone che amiamo": così Pearlie Cook comincia a raccontarci gli incredibili sei mesi che sono stati, per il suo matrimonio, una sorta di inesorabile lastra ai raggi X. Siamo nel 1953, in un quartiere appartato e nebbioso di ex militari ai margini di San Francisco, e tutto nella vita dei Cook parla ancora della guerra: la salute cagionevole di Holland, i ricordi tormentati di lei, le loro abitudini morigerate e un po' grigie. Una vita per il resto normalissima, come sottolinea la voce ammaliante di Pearlie - mentre la sua testa scoppia di pensieri che forse, via via che si disvelano, preferiremmo non ascoltare. Eppure li leggiamo con avidità, rassicurati dal fatto che lei, palesemente, ha intenzione di dirci proprio tutto. Perché, allora, ci sentiamo invadere da un'ansia arcana, da un senso di vertigine e di smarrimento, come davanti a certe atmosfere torve di Edgar Allan Poe? Non solo per il susseguirsi di colpi di scena che ci avvincono a ogni riga sino a condurci all'unico finale davvero imprevedibile. Non solo per l'uomo venuto dal passato, per la lettera che colpisce come un pugno, per i terribili segreti che si dischiudono a uno a uno... Sarà allora per la dolorosa lucidità con cui la narratrice riesce a indagare la distanza che separa ciascuno di noi dagli altri? O perché a ogni pagina ci chiediamo: come fa Pearlie a sapere tutte queste cose - di noi?
E se "la vita bassa", per i prossimi Lévi-Strauss, diventasse un Segno antropologico tribale ed elettorale non solo giovanile, in un Musée de l'Homme con foto di addomi e posteriori aborigeni di fronte e profilo? O non diventerà una Metafora, nella pubblicistica "easy" satura di cose che sono metafore di altre cose, dai nostri tempi alla condizione umana, al Paese, a tutto?
Sperduto nelle Aride, Nunez viene accolto da una comunità i cui membri sono tutti ciechi. Confuso dalla vita laboriosa e dai sensi fìnissimi dei suoi ospiti, dovrà destreggiarsi fra il proprio senso di superiorità e la loro remota saggezza: anche perché i ciechi si sono prefìssi di guarirlo a tutti i costi dalla sua inspiegabile, perversa ossessione per la vista. Con una nota di Sandro Modeo.
Non sempre un'opera prima segna la nascita di uno scrittore. Ma se si tratta di William Faulkner, e se la materia del romanzo ha il sapore di un regolamento di conti, o di un risarcimento, il miracolo può avvenire. Quando "La paga dei soldati" esce per la prima volta, nel 1926, Faulkner ha trascorso gli otto anni dalla fine della Grande Guerra raccontando episodi del conflitto; e l'impressione che il lettore comune ricava dal libro è che il suo protagonista, il tenente Donald Mahon, sia un alter ego dell'autore. Così non è, dal momento che Faulkner, scartato dall'aviazione americana per un problema di centimetri e poi arruolatosi sotto falso nome in quella canadese, non aveva fatto in tempo a partire per l'Europa prima dell'armistizio: dunque non era stato, come Mahon, orribilmente ferito in combattimento, né aveva dovuto attraversare una tormentosa convalescenza affidandosi alle cure di tre donne la sensuale fidanzata Cecily, "insincera come un sonetto francese", la governante Emmy, sua amante anni prima per una sola notte, e la giovane vedova Margaret Powers. Il dolore e le passioni di Mahon - o di quanto resta di lui si trasformano così in quell'urlo che di Faulkner diverrà più tardi l'emblema: e in un magnifico furore che investe le passioni e le miserie di un intero microcosmo, su su fino alla "muta cacofonia dorata delle stelle".
La prima versione integrale dell'immensa epopea che sta all'assedio di Stalingrado come Guerra e pace alle campagne napoleoniche.
«Un barbone era stato aggredito sotto il pont Marie e gettato nella Senna in piena, ma per miracolo se l’era cavata e il professor Magnin non riusciva a capacitarsi della sua rapida ripresa. «Era un delitto senza vittima, insomma, si sarebbe quasi potuto dire senza assassino, e nessuno si preoccupava del Dottore, tranne Léa la cicciona e, forse, due o tre barboni. «Eppure Maigret dedicava a quel caso lo stesso tempo che avrebbe dedicato a un dramma da prima pagina. Sembrava ne facesse una questione personale, e dal modo in cui aveva appena annunciato il suo colloquio con Keller si sarebbe potuto credere che si trattava di qualcuno che lui e sua moglie desideravano incontrare da tempo».
«Queste storie non avvennero mai, ma sono sempre». Tali parole di Salustio - forse la più bella, certamente la più concisa definizione del mito - si leggono nell'epigrafe delle Nozze di Cadmo e Armonia. E ci ricordano che le storie degli dèi e degli eroi greci non soltanto si trovano all'origine di tutta la letteratura occidentale, ma continuano a vivere sino a oggi: una vita intessuta di parole innanzitutto, ma altrettanto di immagini. Per più di tremila anni, dai sigilli micenei fino a certi quadri del secolo ventesimo, quelle storie sono state raccontate anche per figuras, sotto forma di statue, vasi, stele, monete, dipinti, affreschi, disegni, rilievi. È un immenso corteo di immagini, che mostrano ogni volta come quegli dèi, quegli eroi e le loro gesta sono stati concepiti, di epoca in epoca, in quanto epifanie.
Le nozze di Cadmo e Armonia - libro che appartiene al più antico genere letterario: la mitografia - presuppone non solo il continuum delle fonti scritte del mondo classico, da Omero a Nonno, ma anche le innumerevoli raffigurazioni dei miti greci attraverso immagini di ogni specie. Con questa edizione, che si presenta come una versione a sé stante, a distanza di vent'anni dalla prima pubblicazione, quelle immagini affiorano in superficie, sempre in corrispondenza a certi dettagli - narrativi o esegetici o anche stilistici - del testo. E si calano nella gabbia tipografica più congeniale e azzardata, che è lo specchio di pagina dove vennero disposte le silografie di un libro che apparve nel 1499 e in cui sembra essere confluito il vasto corso della mitologia classica: la Hypnerotomachia Poliphili. Ogni buon lettore sarà sfidato a cogliere i nessi di questo gioco, che mira a espandere le risonanze delle parole e delle immagini, per via di osmosi, contrappunto e controcanto. Al testo delle Nozze di Cadmo e Armonia si giustappone qui un saggio, Lo sguardo sommario, che tratta di quella singolare e inconfondibile ebbrezza a cui le immagini degli dèi greci - attraverso «le opere e i giorni» di molti secoli - invitano ad abbandonarsi.
Nel settembre del 1943 Dante Isella, poco più che ventenne, attraversa fortunosamente il confine italo-svizzero, e nel gennaio dell'anno successivo approda a Friburgo, dove già è insediata una piccola comunità di esuli, oltre che dall'Italia della disfatta, dalla Francia di Pétain e dalla Spagna di Franco. Al suo bisogno di "verità minime, ma certe", di maestri capaci di iniziarlo a "idee e strumenti con i quali riprendere da capo una storia tragicamente deragliata sui binari dell'inganno e dell'odio" risponde come per miracolo l'incontro, nelle aule universitarie, con un giovane filologo romanzo. È un'improvvisa rivelazione, e una grande frustata: con la generosità del suo temperamento mercuriale e di una cultura portata con signorile disinvoltura - in cui già fermenta la lezione della stilistica spitzeriana, dello strutturalismo saussuriano e della critica d'arte di Longhi -, Gianfranco Contini seduce i suoi allievi, li trasporta nell'atmosfera tesa, rarefatta dove si va preparando un'operazione di radicale novità: quella ricongiunzione di filologia e critica che avrebbe permesso di "riuscire postcrociani senza essere anticrociani". Nell'arco di un anno - cui in qualche modo riconducono, come a un nucleo essenziale, tutti gli scritti qui riuniti matura una vocazione e, insieme, una linea di ricerca che, dalla metà degli anni Cinquanta, darà frutti (dagli studi su Dossi alle edizioni di Porta, Parini, Gadda, Manzoni) destinati a lasciare il segno.
Una serie monologhi scritti per la televisione, trasmessi dalla BBC nel 1987 e affidati all'interpretazione di grandi attrici inglesi, da Julie Walters a Maggie Smith. La comicità di Bennett si sprigiona solitamente da situazioni apparentemente dimesse, ma in questa occasione è andato molto oltre, strappando il massimo di ilarità a un pretesto, anche scenico, ridotto al minimo. E pur essendo, di fatto, una forma a sé, questi monologhi costituiscono la migliore introduzione possibile al mondo di Bennett, dove le leggi della logica prima o poi si incagliano su un dettaglio incongruo, finendo per ritorcersi contro chi cercava di applicarle.
Quando comincia a riprendere conoscenza, in una delle stanze dell'ospedale Bicêtre, René Maugras, direttore del principale quotidiano della capitale, ricorda poco di quanto è avvenuto la sera precedente: sa che era a cena, come ogni primo martedì del mese, nella saletta privata del Grand Véfour (uno dei più antichi ristoranti di Parigi, e anche uno dei più esclusivi) con un gruppo di amici i quali, come lui, si considerano, ciascuno nel proprio campo, dei personaggi molto, molto importanti. A un certo punto era andato alla toilette, e lì (come scoprirà più tardi) lo avevano trovato a terra un quarto d'ora dopo. Sa quindi di essere vivo, e da medici autorevoli convocati al suo capezzale si sente dire che guarirà, che ricomincerà a muovere il braccio destro, che potrà di nuovo parlare. Ma René Maugras sa anche un'altra cosa: che non gli importa. A poco a poco, attraverso il groviglio di pensieri e di ricordi che gli affollano la mente, si fa strada una domanda: «A che scopo?» - a che scopo essere diventato un personaggio importante, essersi dato tanto da fare - a che scopo vivere, in definitiva? Tant'è che ci sarà un momento in cui quelli che lo attorniano avranno paura che lui si lasci andare, che rinunci a lottare contro la malattia. E invece no: con la lucidità di una solitudine spogliata di ogni maschera, Maugras ripercorrerà la sua esistenza, e soprattutto si interrogherà sull'essere che gli sta accanto da anni: sua moglie Lina, che è diventata un'estranea per lui, e che sta sprofondando nell'alcolismo.
Per una volta non ci sono dubbi: Bela, il protagonista di questo romanzo, ha molti dei tratti che fecero di János Székely quello straordinario personaggio che fu. Uno che, nato povero in Ungheria all'alba del Novecento, riuscì (al pari di celebri conterranei come il produttore Alexander Korda, il regista George Cukor, gli attori Bela Lugosi e Zsa Zsa Gabor) ad arrivare a Hollywood, dove diventò un brillante soggettista e sceneggiatore, e vinse perfino un Oscar nel 1941. Il libro, pubblicato in inglese nel 1946 sotto pseudonimo, è stato definito dai critici americani "a mix of Charles Dickens and Vicki Baum": come dire, un po' Oliver Twist, un po' Grand Hotel. In realtà, tutto quello che potrebbe esserci di patetico nell'infanzia del piccolo Bela, abbandonato dalla madre nelle grinfie di un'orribile virago, è costantemente contraddetto dal tono del narratore, la cui ironia non viene meno neanche nei momenti più difficili. E quando infine, a quattordici anni, Bela raggiungerà la madre, anche sopravvivere nella Budapest degli anni Venti, e poi degli anni Trenta, si rivelerà un'impresa quasi disperata. Tanto più che dovrà continuamente barcamenarsi fra due mondi agli antipodi l'uno dall'altro: l'insanabile miseria del quartiere in cui abita e il lusso sfrenato, sfavillante di luci, del grande albergo in cui riesce a trovar lavoro.

