
"Il parassita che nel 1892 Jules Renard elesse a protagonista di un suo romanzo (...) non ha nulla dei suoi antenati, o non gli resta dei suoi antenati che quel maledetto vizio di ogni tempo di sedere alla tavola degli altri e diventare 'il convitato abituale'. Per raggiungere i suoi scopi (che non si limitano al mangiare e dormire) si serve della letteratura (...) Henri (è questo il suo nome) aspira a divenire l'idolo ben remunerato di una brava famiglia borghese, di un marito lavoratore, di una moglie attenta, che il profumo di una vita diversa, di esistenze godute e perdute alla fiamma della poesia, getta senza alcun bovarismo e col massimo controllo in uno stato di lieve abbandono, di stordito turbamento (...) L'impegno che lo sovrasta è quello d'incantarli, soffiando con abilità in quella specie di flauto dolce che è la poesia per chi non la conosce; di trasportarli sul suo illusorio palcoscenico, ov'egli, recitando una vita che non esiste e mai smettendo via via di complimentarsi con se stesso per l'ottimo lavoro che sta eseguendo, potrà cantare alla fine la sua vittoria." (Giovanni Macchia) Con un saggio di Alfredo Giuliani e una recensione di Marcel Schwob.
Decimo volume della raccolta delle opere di Maigret.
"Erano gli anni Ottanta - e le chiedevo se aveva messo 'pen on paper', come amava dire Marella. A volte sì, più spesso no, rispondeva. C'erano sempre troppe cose che succedevano e si succedevano. Eppure le pagine lentamente si depositavano. Ma non sarebbero mai state rievocazioni arrotondate, piallate, aggiustate da quella somma falsaria che è la memoria. Erano schegge di infanzia e adolescenza, giustapposte, imperiose. Fra vaste lacune, si disponevano in una sequenza di tracce vivide: impressioni, espressioni, vestiti, colori, frasi, materie, piante, odori, accenni di sentimenti, che si profilavano e si nascondevano. Nomi di luoghi che schiudevano immagini accessibili soltanto a chi ne stava scrivendo. Innanzitutto una villa, 'I Cancelli', sulle colline di Firenze, dove era apparsa "la Signora Gocà", in un gioco di bambini. E poi Ratzötz, Balta-Liman, il Roncaccio. Alla fine, Roma. La psicologia: sempre implicita, mai dichiarata, come se stesse a poco a poco uscendo dal bozzolo dell''opaca adolescenza'. E, più ancora della narratrice, illuminava di sguincio la madre Margaret, i fratelli Carlo e Nicola, il padre Filippo, la nonna Meralda, le prime amiche, che avevano lasciato un segno indelebile. E un mondo intero, fascinoso e angoscioso, che si sarebbe dissolto per sempre con la fine della guerra e il boogie-woogie." (R. C.)
Come nasce la poesia? Di quale misterioso lavoro è l'esito? E qual è il suo compito? Chiunque si sia posto, almeno una volta, domande del genere potrà finalmente trovare in queste interviste - che coprono l'intero arco della vita di Brodskij in esilio, dall'inizio degli anni Settanta fino a poche settimane prima della morte improvvisa, avvenuta a New York nel 1996 - risposte di un'audace limpidezza. Scoprirà così che la poesia è "uno straordinario acceleratore mentale", "lo scopo antropologico, o genetico" della nostra specie, e che non vi è strumento migliore per "mostrare alla gente la visione reale della scala delle cose". Scoprirà, poi, che quelli che ha sempre ritenuto imperscrutabili artifici tecnici - gli schemi metrici ad esempio sono in realtà "formule magiche", "magneti spirituali", capaci di incidere profondamente sulla poesia, al punto che un contenuto moderno espresso secondo una forma fissa (un sonetto, per intenderci) può sconvolgere quanto "una macchina che sfreccia contromano in autostrada". Per di più Brodskij sa illuminare anche il lavoro dei poeti che amava - Auden, Frost, Kavafis, Mandel'stam, Achmatova, Cvetaeva, Milosz, Herbert, per limitarci ai contemporanei - con una lucidità mai disgiunta da una vibrante partecipazione: "Non mi capita spesso di leggere qualcosa che mi dia una gioia così intensa come quella che mi dà Auden. È vera gioia, e con gioia non intendo un semplice piacere, perché la gioia è qualcosa di molto oscuro".
Occhialuti alchimisti rovinati dall'assenzio, lottatori che combattono contro le tigri a pugni nudi e si convertono poi all'ascetismo per soggiogare ben altre belve, temerari aeronauti che atterrano sul tetto dei grandi magazzini di Parigi, generali cosacchi buddhisti, digiunatrici poliglotte, trasvolatori infelici, inventori di cannoni eterici, pittori monocromi devoti a Santa Rita. Da Cary Grant a Lovecraft, da Salgari a Pancho Villa e a Buster Keaton, i quarantadue personaggi raccontati da Alvi sono stravaganti e folli, certo, ma soprattutto sono uomini e donne che fremono per l'ansia di inseguire la vita e vi si perdono, mostrandone l'infinita varietà e potenza.
Sono tutte in lacrime, le cameriere ebree del Praga, alla vigilia delle nozze del padrone: certo, hanno sempre saputo che lui andava a letto con tutte, "eppure ognuna era convinta in cuor suo che con lei si sarebbe comportato in modo diverso ... l'avrebbe portata via dalla cucina per sistemarla dietro al bancone e metterla alla cassa a contare il denaro". Ora, però, che nell'annuncio affisso in vetrina c'è scritto, nero su bianco, che "in onore del felice e fortunato matrimonio del proprietario di questo ristorante, Sender Prager, con la sua fidanzata, Edye Barenboim" i poveri del quartiere riceveranno un piatto di crauti e salsicce, hanno perso ogni speranza. Si è fidanzato all'improvviso, "quell'uomo solido e vigoroso, dagli occhi lucenti e dai capelli neri impomatati": perché all'improvviso, a quarantaquattro anni, ha avuto paura della vecchiaia e della solitudine. Così, lui che delle donne non si è mai fidato, si è lasciato indurre dal suo rabbi a sposare quella ragazza di buona famiglia hassidica che ha la metà dei suoi anni e lo guarda "con i suoi grandi occhi neri impauriti". "Dio del cielo," implorano le cameriere "fagli pagare la nostra umiliazione...". Al lettore scoprire, in questo magnifico e crudele racconto lungo del fratello "più talentuoso" di Isaac B. Singer (come ha scritto Harold Bloom), se Colui che tutto può le ascolterà.
La mattina del 24 marzo 1946 Alexandre Alekhine, detentore del titolo di campione del mondo di scacchi, venne trovato privo di vita nella sua stanza d'albergo, a Estoril. L'esame autoptico certificò che il decesso era avvenuto per asfissia, e che questa era stata provocata da un pezzo di carne conficcatosi nella laringe - escludendo qualsiasi altra ipotesi. La stampa portoghese pubblicò la versione ufficiale, e il caso fu rapidamente archiviato. Da allora, però, sulle cause di quella morte si sono moltiplicati sospetti e illazioni. Qualcuno ha insinuato che le foto del cadavere facevano pensare a una messinscena; qualcun altro si è chiesto come mai Alekhine stesse cenando nella sua stanza indossando un pesante cappotto - senza contare che il defunto aveva un passato di collaborazionista, e che i sovietici lo giudicavano un traditore della patria... Con il fiuto e il passo del narratore di razza, e con la sua profonda conoscenza del mondo degli scacchi ("lo sport più violento che esista", ha detto uno che se ne intendeva, Garri Kasparov), Paolo Maurensig indaga sulla morte di Alekhine cercando di scoprire, come dice Kundera citando Hermann Broch, "ciò che solo il romanzo può scoprire".
Esiste il delitto perfetto? Gastmann, «demonio in forma umana», ne è convinto, e per dimostrarlo al commissario Bärlach – e vincere la temeraria scommessa fatta in una bettola sul Bosforo – getta uno sconosciuto dal ponte di Galata. Ormai i due sono incatenati l'uno all'altro. Per oltre quarant'anni il commissario seguirà imperterrito le orme di Gastmann, nel vano tentativo di fornire le prove dei delitti via via più audaci, efferati e sacrileghi che costui ha commesso per capriccio. Finché un giorno l'assassinio dell'ispettore Shmied della polizia di Berna - la città dove Barlach è nato, e che lui chiama il suo <<aureo sepolcro>> - lo metterà nuovamente di fronte al suo nemico, e al sinistro viluppo di trame politiche e finanziarie di cui questi tira le fila. A Barlach non resta molto da vivere: giusto il tempo di regolare i conti una volta per tutte. Ormai ha emesso il suo verdetto - ed è una condanna a morte.
Quando Georges Simenon, che di noir se ne intendeva, lesse questo romanzo cupo, implacabile e lacerante, disse semplicemente: <<Non so che età abbia l'autore. Se è alla sua prima prova, credo che farà strada>>.
"Parlo meglio di quanto non scriva" diceva Barbey d'Aurevilly "quando l'Angelo di fuoco della Conversazione mi prende per i capelli come un Profeta". E nell'"Armonia del mondo", dove il filo conduttore è l'Italia, davvero sembra che quell'Angelo si sia impadronito di Citati: che ci parli di gatti e di bambini, della maturità, della nube di scontentezza che ci avvolge, del giusto rapporto da tenere con gli oggetti, della morte nel mondo moderno, della scomparsa dei veri potenti (ma non del potere), di una Parigi dove tutto è traslucido come in un Bellotto, degli ospiti di un albergo di montagna, della lingua italiana moderna, sempre si ha l'impressione di partecipare a una luminosa conversazione capace di cogliere ciò che si nasconde in ciascuno di questi argomenti, o lo trascende. Una conversazione che ci offre, come ha scritto Giovanni Mariotti, "molte ragioni di ammirazione, una lezione di stile (nel senso non solo letterario) e un antidoto efficace al malumore".
"G.7 è uno strano tipo. Nella vita quotidiana sembra più giovane di quanto non sia, e ha modi così gioviali che si stenta a prenderlo sul serio. Ma appena comincia a seguire un caso il suo atteggiamento cambia. Si chiude in se stesso. E, cosa più strana, assume un'aria timida che non si addice affatto all'immagine convenzionale del poliziotto. Mi è capitato di vedergli condurre un interrogatorio: ci mancava poco che si mettesse a balbettare. Nessuna ostentazione. Nessuna spavalderia. Semmai un certo imbarazzo, come se si sentisse fuori posto. Per ore e ore non fa il minimo accenno all'inchiesta. Beve. Mangia. Segue con lo sguardo il viavai della strada. Mi risponde a monosillabi. E alla fine, vedendogli prendere una decisione improvvisa, mi rendo conto con mio grande stupore che la sua mente non ha smesso un istante di lavorare."
Una terribile peste dilaga a Napoli dal giorno in cui, nell'ottobre del 1943, gli eserciti alleati vi sono entrati come liberatori: una peste che corrompe non il corpo ma l'anima, spingendo le donne a vendersi e gli uomini a calpestare il rispetto di sé. Trasformata in un inferno di abiezione, la città offre visioni di un osceno, straziante orrore: la peste - è questa l'indicibile verità - è nella mano pietosa e fraterna dei liberatori, nella loro incapacità di scorgere le forze misteriose e oscure che a Napoli governano gli uomini e i fatti della vita, nella loro convinzione che un popolo vinto non possa che essere un popolo di colpevoli. Null'altro rimane allora se non la lotta per salvare la pelle: non l'anima, come un tempo, o l'onore, la libertà, la giustizia, ma la "schifosa pelle". Come ha scritto Milan Kundera, nella "Pelle" Malaparte "con le sue parole fa male a se stesso e agli altri; chi parla è un uomo che soffre. Non uno scrittore impegnato. Un poeta".
Nel 1928 Landolfi è studente all'Università di Firenze. Dai corsi ufficiali, però, si tiene "a rispettosa distanza": la sua unica, "beata", occupazione è parlare per notti intere di letteratura con gli amici Carlo Bo, Leone Traverso e Renato Poggioli. "Lì era la nostra università," ricorda "a quella vera non andavamo mai". E grazie a Poggioli che scopre la letteratura russa: e in questa disciplina, che a Firenze allora nessuno professava, si laureerà nel 1932 con una tesi sull'opera di Anna Achmatova. Intanto, nel 1930, sono usciti un racconto, Maria Giuseppa, e la recensione al Re Lear delle Steppe di Turgenev: il suo doppio destino - di scrittore e di slavista - è segnato. Ma slavista è forse il termine meno adatto. Incontrando la letteratura russa, Landolfi incontra in realtà una parte di sé: e l'"uomo superfluo" - in cui confluiscono senso di estraneità, stanchezza spirituale, profondo scetticismo - diventa uno specchio nel quale non cesserà di guardarsi. Per non parlare del dualismo morale, dei fantasmi, dell'innocenza russa, di Gogol' e Dostoevskij, che entrano stabilmente fra gli agenti attivi della sua immaginazione, per poi rifluire nella narrativa. Non meraviglia allora che in Russia Landolfi non sia mai andato: quel paese era per lui, e sarebbe rimasto, un'immagine, la matrice di una letteratura consegnata a un "eterno romanticismo", nonché di scrittori irriducibili agli schemi, capaci di ricreare da capo il proprio mondo.