
Da vecchio, quando sarà diventato un pittore famoso, a chi gli chiederà: "Maestro, qual è l'immagine che ha di se stesso?" Louis Cuchas risponderà senza esitare, allegro e pudico come sempre: "Quella di un ragazzino". Infatti, anche quando attorno a lui si sarà ormai creata una vera e propria leggenda, rimarrà il bambino dall'occhio limpido e svagato che sembrava non guardare niente e invece "guardava molta gente e molte cose, ma non quelle che ci si aspettava lo interessassero", il bambino che non reagiva alle aggressioni degli altri, e a cui avevano affibbiato il soprannome di "angioletto". Era stato così sin da piccolissimo, negli anni - alla fine dell'Ottocento - in cui dormiva su un pagliericcio uguale a quello che spettava a ciascuno dei cinque fratelli (ciascuno, peraltro, di un padre diverso), in una sordida stanza di rue Mouffetard. Tutto lo incuriosiva e lo affascinava, e tutto lui assorbiva e immagazzinava - i tram, la verruca sulla guancia di una donna grassa, un quarto di bue appeso a un gancio, le espressioni delle facce per strada, i facchini delle Halles -, tutto quello che un giorno, quando avrebbe finalmente scoperto la propria vocazione, sarebbe entrato nei suoi quadri in larghe pennellate di "colori puri": come puri erano lo sguardo e l'anima di colui che se n'era appropriato.
"Ormai sono una madre e anche una donna sposata, ma fino a non molto tempo fa ero una delinquente". Così comincia il breve, folgorante racconto dell'adolescenza di Bianca: ancora un personaggio, fra i tanti regalatici da Bolaño, che difficilmente dimenticheremo. Rimasti orfani dei genitori, Bianca e suo fratello scivolano a poco a poco in un'esistenza di ottusa marginalità, che li porterà a non uscire quasi più dall'appartamento in cui si sono rinchiusi, e dove passano nottate intere a guardare la televisione. A loro si aggiungeranno due improbabili soggetti, "il bolognese" e "il libico", con i quali la ragazza dividerà a turno, svogliatamente, il letto - senza quasi sapere chi lo sta facendo. Un giorno però entrerà nella loro vita un ex campione mondiale di culturismo, diventato cieco in seguito a un incidente, che tutti chiamano Maciste perché è stato un divo dei film cosiddetti "mitologici". Uno che forse ha dei soldi, che si potrebbero scovare e rubare. Con questo strano essere, che la attrae e la respinge al tempo stesso, Bianca vivrà una storia che, nata sotto il segno della prostituzione e dell'inganno, diventerà invece quanto di più simile a ciò che noi chiamiamo "una storia d'amore".
In un oscuro paese dell'Europa orientale - i cui abitanti parlano ora tedesco ora russo ora una lingua che non coincide con nessuna di quelle esistenti - un filosofo quarantenne, Adam Krug, siede annichilito nell'ospedale dove è appena spirata l'amatissima moglie Olga. Krug è una celebrità internazionale, l'unica che possa vantare il piccolo Stato retto dal regime poliziesco di Paduk, fondatore del Partito dell'Uomo Comune, che propugna una dottrina violenta fondata sul "pensiero unico". Per consolidare il suo carisma il dittatore vorrebbe l'appoggio di Krug, ma lo studioso oppone il più deciso rifiuto in nome della libertà di coscienza, esponendosi così alla più feroce delle rappresaglie. Concepito nel 1941 e portato a termine tra il 1945 e il 1946, in singolare ed evidente contrappunto con il "1984" di Orwell, "Un mondo sinistro" è, insieme a "Invito a una decapitazione", il romanzo più politico di Nabokov, nutrito com'è dell'orrore che i regimi totalitari avevano scatenato negli anni precedenti. Per Krug, infatti, la coscienza è "l'unica cosa reale al mondo e il mistero più grande": un prodigio, un arcano, una sfida incessante, e un paradosso, giacché è sinonimo di curiosità illimitata, di sentimenti illimitati all'interno (krug in russo significa "cerchio") di un'esistenza per sua natura finita.
Nell'ottobre del 1973, per esprimere il suo dissenso nei confronti di Perón, appena tornato al potere, Borges abbandona l'incarico di direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires; contemporaneamente le condizioni di salute di sua madre, Leonor, cominciano a declinare in maniera inesorabile: morirà nel 1975, dopo una lunga agonia. Precisamente a questo arco temporale appartengono i testi poetici radunati in "La rosa profonda", sui quali, non a caso, il senso della fatalità e di un destino "di brevi gioie e lunghe sofferenze" - strumento di un Altro imperscrutabile - sembra gettare un'ombra lunga.
"Felici gli amati e gli amanti e coloro che possono fare a meno dell'amore. Felici i felici": le due ultime "beatitudini" di Borges, che Yasmina Reza inscrive sulla soglia di questo romanzo, ci indicano la via per penetrare nel fitto intreccio delle vite che lo popolano. Perché la felicità - nell'amore o nell'assenza di amore, all'interno di una coppia o al di fuori di ogni legame - è un talento: e di tutti i personaggi che a turno consegnano al lettore confessioni a volte patetiche, a volte grottesche, a volte atrocemente comiche, si direbbe che quasi nessuno lo possegga. In un sottile gioco di echi, di risonanze, di contrappunti - tra amori inaciditi e rancori mai sopiti, illusioni spezzate e fughe nel delirio -, le voci che si avvicendano, quasi incalzandosi, tessono un ordito i cui fili (tenui in alcuni casi, in altri pesanti come catene) collegano molteplici destini, tutti segnati dall'impervia difficoltà dell'incontro con l'altro. Con una scrittura di chirurgica precisione, capace di muoversi tra i registri più vari, in un susseguirsi di scene in cui sempre lampeggia il genio della donna di teatro, Yasmina Reza è abilissima nel far affiorare, appena sotto la superficie smaltata delle apparenze, solitudine e violenza, disperazione e risentimento; e riesce a condurre la ronde dei suoi personaggi - mogli inquiete e mariti perplessi, amanti insoddisfatte e libertini mediocri, giovani in fuga dalla vita e vecchi abitati dalla morte.
"Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?". Siamo nel febbraio del 1969: Bruce Chatwin ha rassegnato da tre anni le dimissioni da Sotheby's e ha appena deciso di abbandonare gli studi di Archeologia. Nonostante l'iniziale entusiasmo e il talento dimostrato in entrambi i campi, si è convinto che "il cambiamento" sia "l'unica cosa per cui valga la pena vivere"; per questo scrive una lettera all'editore Tom Maschler in cui abbozza le sue idee per una storia del nomadismo - argomento che sente quanto mai affine. Il titolo è già pronto: "L'alternativa nomade". Da questo momento in poi Chatwin consacrerà la sua esistenza al viaggio e alla scrittura. Una vita in perpetuo movimento, che avrà come corollario una corrispondenza smisurata, per la gran parte raccolta in questo libro curato dall'amico Nicholas Shakespeare e arricchito dalle note laconiche, affilate e amorevoli della moglie Elizabeth. Scritte a partire dai sette anni, destinate ai genitori, alla moglie e agli amici, le lettere di Chatwin svelano sul loro autore molto più di quanto lui fosse disposto a lasciare affiorare nei suoi libri. Ma non compongono propriamente un'autobiografia involontaria: leggendole si ha semmai l'impressione di seguire in presa diretta la voce di un narratore naturale, di un cercatore di storie, che seppe fare del suo impulso al mutamento e della sua inappagabile avidità di conoscenze un'opera d'arte.
Il Diario di Etty Hillesum ha commosso i lettori di tutto il mondo, ed è ormai considerato fra le testimonianze più alte delle vittime della persecuzione nazista. Ora la versione integrale delle Lettere, scritte in gran parte dal lager di Westerbork – dove Etty andò di sua spontanea volontà, per portare soccorso e amore agli internati, e per "aiutare Dio» a non morire in loro –, ci permette di udire la sua voce fino all'ultimo, fino alla cartolina gettata dal vagone merci che la conduce ad Auschwitz: "Abbiamo lasciato il campo cantando». A Westerbork Etty vive «l'inferno degli altri», senza «illusioni eroiche», recando parole vere là dove il linguaggio è degradato a gergo, là dove i fossati del rancore dividono gli stessi prigionieri, contrapponendo ebrei olandesi a ebrei tedeschi. La resistenza al male si compie in lei attraverso l'amicizia – nata nel campo o mantenuta viva con chi è rimasto libero e manda viveri e lettere –, attraverso la fede e grazie ai libri (come le poesie di Rilke) e alla natura: anche sopra le baracche corrono le nuvole e volano i gabbiani e brilla l'Orsa Maggiore. Per scrivere la storia del lager ci sarebbe voluto un poeta, non bastava la nuda cronaca, aveva detto un giorno un internato a Etty. Non sapeva che quel poema stava già prendendo forma, lettera dopo lettera. E che, da quel fazzoletto di brughiera recintata e battuta da turbini di sabbia, sarebbe giunto fino a noi rompendo un silenzio di decenni.
"Nessuno come Dostoevskij è andato mai così lontano, nel viaggio verso il Male assoluto: nessuno vi ha mai abitato con tale costanza; e ci ha guardato così, con gli occhi stessi del crimine" scrive Pietro Citati mentre ci accompagna guida lucida e insieme partecipe, quasi febbrile - attraverso "Delitto e castigo". E ad attirarlo, ancor più di Svidrigajlov o Raskol'nikov, è Stavrogin, in cui soffia "il vento di un vuoto gelido e vertiginoso, illimitato e senza confini": certo perché scrivendo i "Demoni" Dostoevskij si è rispecchiato in lui, e "scorgendo questo riflesso, ha avuto paura delle profondità inattingibili del proprio cuore". Sono dunque Dostoevskij e Stavrogin il cuore tenebroso di questo libro, dove Citati rilegge i grandi romanzi dell'Ottocento (quelli di Balzac, Poe, Dumas, Hawthorne, Dickens, Flaubert, Tolstoj, Stevenson, James) per cogliervi in atto la passione del Male, l'incontro con il Male. Li rilegge come soltanto lui sa fare: non da critico accademico o militante ma da "lettore-scrittore" (come ha notato Nadia Fusini), capace di illuminarli prolungandone il fascino nella sua scrittura. E comunicando a noi il desiderio irresistibile di rileggerli a nostra volta.
Nel 1933 Simenon compie trent'anni e decide che è venuto il momento di diventare un vero scrittore. Per far questo, opera due rotture significative: con il personaggio che gli ha dato la fama e con l'editore Fayard che lo ha pubblicato. In giugno termina "Maigret", il romanzo in cui manda in pensione il commissario. In ottobre firma un contratto con Gaston Gallimard, patron della più prestigiosa casa editrice francese. Ciò nonostante, da Maigret non riesce a staccarsi, e in fondo anche al suo nuovo editore non dispiacerebbe vederlo "resuscitare", sebbene entrambi sappiano che un ritorno del commissario rischierebbe di interferire con la nuova carriera dello scrittore. Il quale, però, troverà un compromesso soddisfacente, che consisterà nel limitarsi a scrivere dei racconti destinati ad apparire solo su riviste. In molti di essi, come nei quattro raccolti in questo volume, Maigret è sì in pensione, ma è "costretto" a indagare su casi più o meno tenebrosi: o perché non riesce a vincere la curiosità (come nel "Notaio di Châteauneu") ; o perché, in vacanza con la moglie, si trova ad assistere a un omicidio (come in "Tempesta sulla Manica") ; o perché non sa respingere una richiesta di aiuto (come nella "Signorina Berthe e il suo amante"); o infine perché, commettendo quello che è difficile non definire un atto mancato, quarantott'ore prima di lasciare il Quai des Orfèvres risponde a una telefonata nell'ufficio dei suoi ispettori (come in "Assassinio all'Étoile du Nord").
"Più ancora che nei romanzi, Keller si rivelò artista di prima grandezza nei racconti, che ora hanno visto la luce in Italia in una splendida e completa raccolta pubblicata dalla casa editrice Adelphi. Novelle ricche di humour, di invenzione fantastica, di grazia fiabesca e di acutezza realistica ... In queste novelle, magnificamente tradotte e presentate, palpita la dimensione più alta, più aperta della narrativa tedesca di quegli anni." (Claudio Magris)
Nel 1934 Patrick Leigh Fermor ha diciannove anni, e già da alcuni mesi si è lasciato alle spalle l'Inghilterra e un curriculum scolastico scellerato con il fermo proposito di raggiungere a piedi Costantinopoli, vivendo "come un pellegrino o un palmiere, un chierico vagante", dormendo nei fossi e nei pagliai e familiarizzando solo con i suoi simili. "Fra i boschi e l'acqua" è il racconto della seconda parte di quel viaggio, e prende avvio dal punto esatto in cui era terminato "Tempo di regali": il ponte di Maria Valeria, al confine tra Cecoslovacchia e Ungheria, che di lì a dieci anni sarà minato dai tedeschi in ritirata e mai più ricostruito fino al nuovo millennio. Ma i mille chilometri successivi - dalla Grande Pianura ungherese, lungo il corso del Tibisco e del Maros e attraverso la Transilvania, fino alle Porte di Ferro, dove collidono i Carpazi e i Balcani - aprono una parentesi idilliaca e precaria nel secolo più violento della storia: il ritmo del viaggio rallenta, il passo si fa più pigro, la percezione del tempo svanisce, come in "un felice e gradito incantesimo". Leigh Fermor racconta incontri con cervi e boscaioli, ritrae manieri isolati e villaggi di montagna, fienagioni e favolose biblioteche, rievoca notti passate sotto le stelle e amori estivi, riferisce leggende di spiriti, fate e lupi mannari e conversazioni con un'aristocrazia votata all'estinzione.
Gettare una luce sui problemi più seri e al tempo stesso non pronunciare una sola frase seria, subire il fascino della realtà del mondo contemporaneo e al tempo stesso evitare ogni realismo - ecco "La festa dell'insignificanza". Chi conosce i libri di Kundera sa che il desiderio di incorporare in un romanzo una goccia di "non serietà" non è cosa nuova per lui. Nell'Immortalità Goethe e Hemingway se ne vanno a spasso per diversi capitoli, chiacchierano, si divertono. Nella Lentezza, Vera, la moglie dell'autore, lo mette in guardia: "Mi hai detto tante volte che un giorno avresti scritto un romanzo in cui non ci sarebbe stata una sola parola seria ... Ti avverto però: sta' attento". Ora, anziché fare attenzione, Kundera ha finalmente realizzato il suo vecchio sogno estetico - e "La festa dell'insignificanza" può essere considerato una sintesi di tutta la sua opera. Una strana sintesi. Uno strano epilogo. Uno strano riso, ispirato dalla nostra epoca che è comica perché ha perduto ogni senso dell'umorismo.

