
Se siete fra quanti ritengono che la partenza di zia Mame per l'India abbia ingiustamente sottratto alla vostra vita l'indispensabile correttivo di gag, frasi celebri e alzate d'ingegno, allora siete pronti per incontrare una sua sorella immaginaria, una ragazza di cui persino Mame - accusabile di tutto, ma non di ossequio al comune senso del pudore - avrebbe parlato con imbarazzo: Belle Schlumpfert. Belle nasce a Venezuela, nell'lllinois, da una madre troppo impegnata a far carriera presso la casa di Madam Louise per mettere su una famiglia come si deve. Che cosa quella “casa” sia, naturalmente, il lettore è libero di immaginarlo, ma nell'inattendibile, incontenibile, travolgente racconto di Belle è solo una dimora di artiste dove la piccina scoprirà una precoce, ma non per questo meno temibile, vocazione per lo spettacolo in ogni sua forma conosciuta. Una vocazione che Belle porterà alle sue estreme conseguenze, demolendo con la coerenza stilistica del suo coetaneo Ed Wood, e la grazia imperdonabile di Hrundi V. Bakshi in “Hollywood Party”, ogni commedia, film o varietà televisivo in cui le capiterà di comparire. Pensato inizialmente come la parodia definitiva di un genere - la biografia autorizzata, e per ciò stesso apocrifa, della grande star - e assemblato in mesi di lavoro, insieme al fotografo Chris Alexander, su un verio e proprio set, “Povera piccina” è una meravigliosa macchina comica a cielo aperto, che suscita anche solo in chi lo sfoglia le reazioni migliori, cioè le più sgangherate, mentre a chi lo legge istilla una strana tentazione, cui lo stesso Dennis finì per cedere: quella di passare al di là dello specchio e intrufolarsi, pazienza se in un ruolo di contorno, in una pagina qualsiasi del racconto.
Della sua lontana carriera di modella Emilia non ha conservato molto, tranne una nervosa tolleranza verso l’eccentricità. Eppure la proposta che le arriva all’improvviso da una sua vecchia conoscenza nel mondo della moda, l’ineffabile signor Morita, la lascia per un attimo interdetta: si tratterebbe infatti di curare nei minimi particolari, a partire dagli abiti ma arrivando alla coreografia e anche oltre, le settantadue ore che alcuni turisti giapponesi amano trascorrere a Roma per ricevere, in una cerimonia che al ritorno presenteranno come un matrimonio esotico, la benedizione della Chiesa cattolica. Essendo nata in sartoria, e dopo anni di passerella, Emilia ha visto ben altro: i capricci di Audrey Hepburn e Ava Gardner, ad esempio, o le bizze di vari stilisti. Ma la sua perplessità non è di carattere professionale. Accade infatti che il lavoro di Morita consista nella messinscena, e quindi nella parodia, di un matrimonio, e che al matrimonio Emilia non pensi volentieri: molto tardivamente quello con Paolo, tenuto in piedi a forza quasi dagli inizi, si sta sciogliendo, mentre sua figlia Sofia, risucchiata da una brillante carriera di fotografa, ha una vita sentimentale che la Chiesa non benedirebbe mai. Eppure alla fine Emilia accetta, innescando una catena di eventi lievemente surreali che punta dritto al cuore nero di una vita molto diversa dal suo book. Nei suoi libri precedenti, Letizia Muratori aveva dimostrato di saper fondere a freddo il riso e l’angoscia, l’intermittenza della commedia e la voragine improvvisa del silenzio. Qui la fusione è invece calda, e il ritratto di una donna, delle sue solitudini, della penombra dolorosa cui non riesce a strapparsi si legge d’un fiato: temendo sempre più – e a ragione – l’arrivo della luce.
All'inizio di questo romanzo Duddy Kravitz ha 15 anni, ma si rade due volte al giorno nella speranza di farsi crescere il più in fretta possibile la barba. La sua vita non è facile, nel ghetto ebraico di Montreal, e la profezia del nonno ("un uomo senza terra non è nulla") incombe sul suo futuro come una condanna. O un invito a non arretrare di fronte a nulla pur di raggiungere lo scopo. Ed è in questo senso che Duddy la interpreta, costruendosi passo dopo passo una carriera di cialtrone, bugiardo, baro, libertino - in altre parole di sognatore professionista, visto che il suo ultimo approdo, che gli garantirà denaro e gloria, sarà il cinema.
Questa volta Pardon è stato tassativo: il suo vecchio amico Maigret deve prendersi tre settimane di vacanza; e senza lasciare recapiti al Quai des Orfèvres. Così, alla fine di giugno, il buon dottore lo ha spedito a passare le acque a Vichy, dove, in compagnia della moglie, il commissario si annoia docilmente: ogni mattina beve i suoi bicchieri d'acqua, poi passeggia lungo i viali bordati di platani, seguendo sempre lo stesso itinerario, e la sera ascolta con orecchio distratto il concerto nel chiosco. Sullo sfondo, l'edificio bianco e sfavillante di luci del casinò - dove, ovviamente, lui e la moglie non mettono piede. Nel frattempo però, da quell'inguaribile scrutatore d'anime che è, non rinuncia a osservare i suoi compagni di cura. Tra loro ce ne sono un paio che hanno subito attirato la sua attenzione: in particolare, una donna non più giovanissima, con un lungo viso affilato, di un'eleganza un tantino rétro, e come votata alla solitudine (“la solitudine allo stato puro”). La signora in lilla: così l'ha soprannominata. E quando un giorno legge sul foglio locale che è stata assassinata, scatta in lui un riflesso condizionato: il desiderio di saperne di più, e di prendere parte alle indagini. Tant'è: quella mattina la signora Maigret dovrà trattenere un sorriso nell'accorgersi che l'itinerario della passeggiata ha subìto un'impercettibile variazione, e li ha condotti, guarda caso, giusto davanti alla villa dove abitava la vittima.
«A Pasqualino, che aveva sei anni e ogni mattina portava giù l'immondizia, al pescatore monco, perché metteva a tacere il mare, a Santo Strato, perché proteggeva il palazzo e i malati»: a loro Márai dedica il suo «romanzo napoletano», ambientato nella città dove aveva vissuto dal '48 al '52, prima di partire per gli Stati Uniti. A formare il vasto coro, lacero e sgargiante, che commenta la vicenda intorno alla quale è costruito il libro, sono gli uomini, le donne e i bambini della città, con la loro miseria, il loro lerciume, le loro interminabili chiacchiere, la loro fatica di vivere, il loro orgoglio ancestrale di aristocratici, le loro liti che scoppiano furibonde, teatrali, ritualizzate, da una finestra all'altra, i loro lutti non meno teatrali e urlati, la loro religiosità pagana e superstiziosa, i loro santi arcigni e polverosi dentro le teche di vetro, la loro umanità piagata e ghignante. Un intero popolo che, fra tutte le possibilità, crede che «la più verosimile sia il miracolo» (anche quelli che si dichiarano comunisti, anzi soprattutto loro). Un giorno arrivano a Posillipo due stranieri, un uomo e una donna (inglesi? polacchi?): displaced persons, così li definiscono le autorità, profughi. Anche loro, almeno per un po', crederanno che lì possa avvenire il miracolo. Ma un giorno, durante una bufera, l'uomo precipita da un belvedere sfracellandosi sulla spiaggia. Suicidio? Omicidio? Ne sentiremo parlare in tre lunghi monologhi dai quali potremo intuire che cosa abbia significato, per quell'uomo, la condizione dell'esule.
Una terribile peste dilaga a Napoli dal giorno in cui, nell'ottobre del 1943, gli eserciti alleati vi sono entrati come liberatori: una peste che corrompe non il corpo ma l'anima, spingendo le donne a vendersi e gli uomini a calpestare il rispetto di sé. Trasformata in un inferno di abiezione, la città offre a Malaparte visioni di un osceno, straziante orrore: la ragazza che in un tugurio, aprendo «lentamente la rosea e nera tenaglia delle gambe», lascia che i soldati, per un dollaro, verifichino la sua verginità; le «parrucche» bionde o ruggine o tizianesche di cui donne con i capelli ossigenati e la pelle bianca di cipria si coprono il pube, perché «Negroes like blondes»; i bambini seminudi e pieni di terrore che megere dal viso incrostato di belletto vendono ai soldati marocchini nella piazzetta della Cappella Vecchia, dimentiche del fatto che a Napoli i bambini sono la sola cosa sacra. La peste - è questa l'indicibile verità - è nella mano pietosa e fraterna dei liberatori, nella loro incapacità di scorgere le forze misteriose e oscure che a Napoli governano gli uomini e i fatti della vita, nella loro convinzione che un popolo vinto non possa che essere un popolo di colpevoli. Null'altro rimane allora se non la lotta per salvare la pelle: non l'anima, come un tempo, o l'onore, la libertà, la giustizia, ma la « schifosa pelle». E, forse, la pietà: quella che in uno dei più bei capitoli di questo insostenibile e splendido romanzo - uno dei pochi che negli anni successivi alla guerra abbiano veramente, nel mondo intero, lasciato un solco indelebile - spinge Consuelo Caracciolo a denudarsi per rivestire del suo abito di raso, delle calze, degli scarpini di seta la giovane donna del Pallonetto morta in un bombardamento, trasformandola in Principessa delle Fate o in una statua della Madonna.
V.S. Naipaul viaggia sempre alla ricerca di qualcosa. In Fedeli a oltranza aveva esplorato quel groviglio rovente di pulsioni e ideologie che non tutti, ancora, chiamavano fondamentalismo islamico: in questo suo ultimo libro tenta invece di afferrare qualcosa di più sfuggente, la sopravvivenza delle credenze arcaiche in ciò che nel continente africano - e spesso non altrove - si intende per «modernità». È un itinerario lungo e tortuoso, che porta Naipaul dal Ghana alla Nigeria, dalla Costa d'Avorio e dal Gabon fino al Sudafrica, e che attraverso una scansione di incontri, fatti nudi e storie individuali gli fa trovare subito qualcosa di imprevisto: «Ero convinto che nell'immensa vastità dell'Africa le pratiche magiche non fossero diffuse in maniera uniforme. Ho dovuto ricredermi. Ovunque ho incontrato indovini che "gettavano le ossa" per leggere il futuro, e ovunque ho ritrovato la stessa idea di un'"energia" da imbrigliare attraverso il sacrificio rituale. In Sudafrica la "medicina da battaglia" è un composto fatto con parti del corpo soprattutto animali, ma anche umane. Vederlo con i miei occhi, sentirne il potere, mi ha riportato molto vicino all'inizio di tutto». Inizia così un altro viaggio, che non era semplice osare, verso quell'inizio, verso il big bang di un intero continente. Un viaggio di cui questo libro immediato, quasi orale, è un fedele resoconto: che appassiona, irretisce, e non di rado illumina.
Con la «particolare nitidezza» di qualcosa che si vede dall'altro capo di un telescopio, minuscolo ma provvisto dello smalto allucinatorio di una decalcomania, Nabokov ha lasciato affiorare dalle pagine di questo libro la sua fanciullezza nella «Russia leggendaria» precedente alla Rivoluzione, troppo perfetta e troppo felice per non essere condannata a un dileguamento istantaneo e totale, sospingendo poi il ricordo fino all'apparizione dello «splendido fumaiolo» della nave che lo avrebbe condotto in America nel 1940. «Il dettaglio è sempre benvenuto»: questa regola aurea dell'arte di Nabokov forse mai fu applicata da lui stesso con altrettanta determinazione come in Parla, ricordo. Qui l'ebbrezza dei dettagli che scintillano in una prosa furiosamente cesellata diventa il mezzo più sicuro, se non l'unico, per salvare una moltitudine di istanti e di profili altrimenti destinati a essere inghiottiti nel silenzio, fissandoli in parole che si offrono come «miniature traslucide, tascabili paesi delle meraviglie, piccoli mondi perfetti di smorzate sfumature luminescenti». Compiuta l'operazione da stagionato prestigiatore itinerante, Nabokov riarrotola il suo «tappeto magico, dopo l'uso, così da sovrapporre l'una all'altra parti diverse del disegno». E aggiunge: «E che i visitatori inciampino pure». Cosa che ogni lettore farà, con «un brivido di gratitudine rivolta a chi di dovere - al genio contrappuntistico del destino umano o ai teneri spettri che assecondano un fortunato mortale».
All'interno del vastissimo patrimonio filosofico che Nietzsche ci ha lasciato, i concetti di "apollineo" e "dionisiaco" sono certamente fra i più citati e i meno compresi, e a tutt'oggi la letteratura al riguardo appare largamente inadeguata. Con gli scritti raccolti in questo volume, Giorgio Colli non solo mostra di coglierli nella loro intima essenza, ma si spinge ancora più in là sulla strada aperta da Nietzsche. Collocandoli alle origini stesse del pensiero occidentale, ed esaltandone l'"inesauribile fecondità", ne fa chiavi interpretative in grado di schiudere i passaggi più occulti della storia del pensiero, dell'arte e della scienza. E non sembrerà azzardata, al lettore che lo voglia seguire nel suo affascinante percorso speculativo, l'affermazione che eleva "apollineo" e "dionisiaco" a "princìpi universali e supremi della realtà".
«Tutto il libro è, se non scritto, guardato da Baudelaire, perché Calasso cerca sempre di condividere l'occhio con cui Baudelaire osserva i personaggi e le figure mentali del proprio tempo e addirittura del futuro ... Il risultato segreto di questa ricerca è quello che Calasso chiama la storia segreta della letteratura: storia molto difficile, perché gli scrittori sono abilissimi nel celarsi, e nascondono sia le affinità sia le differenze più profonde. Bisogna violare la cortina di menzogne con cui un artista si difende, possedere una cultura che permetta di trovare le somiglianze più lontane, essere preciso e minuzioso come una formica nell'aggirarsi tra i particolari dei testi: conoscere l'arte sovrana del tatto, che consente di cogliere i rapporti esatti fra due brani e due scrittori ... Ci vuole una dote ancora più audace: quella di portare, nel proprio sistema nervoso, l'istinto metafisico» (Pietro Citati).
«... scintillante di nessi e citazioni, suggestioni e maliosi accordi, rimandi, congetture, nodi strettissimi presto sciolti in spirali di fumo vagamente oppiaceo. Un vero sollievo, dati i tempi. E un costante, mai espresso, mai sbandierato, atto di fede implicito: la cultura ("alta", se è ancora lecito) è l'unica cosa che conta» (Carlo Fruttero).
Non ha avuto vita facile Oscar Chabut. Ha lavorato duro e, dal nulla, è riuscito a costruire un impero. E che importa se il suo Vin des Moines, miscela di vini del Midi e d'Algeria, fa storcere il naso agli intenditori? Moderni uffici in avenue de l'Opera, un appartamento in place des Vosges, una villa in campagna a Sully-sur-Loire, una casa a Cannes, amicizie altolocate: non male per il figlio di un oste del quai de la Tournelle bocciato due volte alla maturità. Aggressivo e sprezzante com'è, sempre calato nella parte dell'uomo d'affari insensibile e senza scrupoli, sempre pronto a ostentare la sua ricchezza e il suo potere, Oscar Chabut pare ci provi gusto a farsi odiare. Tanto più che non esita a portarsi a letto, oltre alle sue dipendenti, le mogli di tutti gli amici. Sicché, quando lo freddano con quattro colpi di pistola all'uscita di una lussuosa casa d'appuntamenti di rue Fortuny - dove si appartava ogni mercoledì con la sua segretaria -, nessuno si stupisce più di tanto. Ma come scovare l'assassino di un uomo che in pratica aveva solo nemici? Un vicolo cieco, si direbbe. E non è certo un caso che Maigret conduca questa inchiesta davvero impossibile febbricitante, vittima di un'influenza che sembra appannarne la leggendaria sagacia. Maigret, lo sappiamo, è più vulnerabile di quanto non si creda: e questa volta ha tutta l'aria di uno scolaro che si sente male il giorno dell'interrogazione.
Perdere il favore di coloro da cui dipende la nostra stessa vita. Mordere la polvere quando si è conosciuto il fulgore degli altari. Non essere più amati. È il destino intollerabile che accomuna i protagonisti delle due novelle qui riunite: una dama del Settecento e un cane. E il dolore, il furore, il desiderio di vendetta non saranno meno violenti nell'animale che nella donna. Splendida, intelligente e ambiziosa, amica di Montesquieu e di Voltaire, amante del duca di Borbone, la marchesa de Prie sembra onnipotente e, soprattutto, intoccabile. Ma quando nel 1726 il duca di Borbone cade in disgrazia presso Luigi XV, per lei si spalanca, d'improvviso, il baratro di un esilio avvilente. Confinata in Normandia, rabbiosamente sola, Madame de Prie non può che tormentare il giovane amante, contemplare allo specchio il suo volto che sfiorisce - e progettare una morte degna dei fasti del passato. Le forze brutali - distruttive e autodistruttive - che solo l'orgoglio ferito e l'amore ripudiato sanno scatenare innervano anche il secondo racconto, dove a sperimentare la più tremenda delle perdite è Ponto, cane tirannico dapprima oggetto di una sfrenata passione e poi di colpo ignorato e bandito dal suo regno non appena la padrona resta incinta. Sagace nel suo odio, l'escluso preparerà la sua vendetta, suscitando nel lettore un'attesa angosciosa - e una suspense quasi hitchcockiana.