
Sullo sfondo – come in un campo lunghissimo di John Ford o di Sergio Leone – le montagne dell’Arizona, che sembrano «racchiudere il mondo da tutti i lati»; in primo piano un uomo a cavallo, che percorre la pista che conduce alla statale per Tucson: il «Grande Passaggio, attraverso il quale, allorché non esistevano né treni né automobili, erano transitati uomini e mandrie, e buoi, cavalli e carri a migliaia». Oggi, 7 ottobre 1947, l’uomo a cavallo, John Evans detto Curly John, il rispettato proprietario del ranch della Giumenta perduta, compie sessantotto anni, ma in sella si tiene ancora ritto come quando ne aveva venti. Come quando lui e il suo amico Andy Spencer erano arrivati nel selvaggio Ovest in cerca di fortuna. C’è un punto della pista dove, ogni volta che ci passa, a Curly John sembra quasi di «provare il dolore di quel giorno»: trentotto anni prima, lì ha ucciso Romero, il messicano che qualcuno aveva pagato per farlo fuori. Dopo, tutto è stato diverso: Andy, il suo grande amico, che Curly John sospetta di essere il mandante del tentato omicidio, è diventato per lui «l’Innominabile». Ma il caso – una vendita all’asta in cui quasi a malincuore Curly John entra in possesso di un vecchio baule – cambierà le carte in tavola. L’amicizia virile, la vendetta, il perdono; e le miniere, il deserto, i saloon e le case da gioco: gli elementi del buon western ci sono tutti, e con questi Simenon ci offre una sua personale, avvincente variazione sul tema.
«La scrissi nell'occasione che ebbi a studiare le carte dei Poerio-Imbriani: uno dei non so quanti archivi privati di uomini del Risorgimento e di letterati, che io ho preso cura di ricercare, ordinare ed esaminare» annota Croce a proposito di questa monografia dedicata ai Poerio. Ma la pacata semplicità di uno studioso della grandezza di Croce rischia oggi di risultare fuorviante: perché questo scritto del 1916, frutto di un accurato scavo d'archivio non meno che di una vastissima documentazione, è in realtà il racconto limpido, appassionato e appassionante nel suo intreccio di filosofia, politica e letteratura, di settant'anni fra i più tumultuosi e risolutivi della storia d'Italia - dall'ultimo scorcio del Settecento al 1866 - ammirevolmente traguardata attraverso le vicende di una famiglia che finirà per imprimersi nella memoria di ogni lettore. Rivivremo infatti la giovinezza wertheriana di Giuseppe Poerio che, giunto a Napoli nel 1795 dopo studi impregnati della più moderna cultura europea, contribuisce in maniera decisiva al trionfo francese e repubblicano, si batte valorosamente contro i sanfedisti e viene condannato al carcere a vita nella fossa della Favignana (lo salva l'indulto, nel 1801); poi la sua evoluzione politica, tipica di un'intera generazione, giacché nel prendere via via le distanze dalle astrattezze giacobine Poerio rivaluta la reazione popolare antifrancese e abdica all'odio antimonarchico, alimentando il partito liberale moderato; infine il suo esilio con i sodali in Toscana e in altri Paesi europei, esilio che contribuirà ad aggravare la debolezza di tale partito, intrinsecamente legata alla matrice illuministica dei suoi leader. Ma rivivremo anche le vicende del figlio Carlo, più volte arrestato dalla polizia borbonica e infine condannato all'ergastolo, il quale contribuirà alla trasformazione del partito liberale napoletano in partito italiano; la tormentata vocazione alla poesia di suo fratello Alessandro, fervente ammiratore di Goethe, amico di Leopardi e Tommaseo; e, infine, le storie delle donne di casa Poerio, in particolare di Carlotta, sorella di Carlo e Alessandro e madre di Vittorio Imbriani.
Ai suoi dodici figli Licurgo Caminera ha dato soltanto nomi presi dalla mitologia greca. I maschi li ha chiamati Ulisse, o Achille, o Ettore; le femmine Penelope, o Antigone, o Elena. Adesso, nel momento in cui capisce che sta per morire, i sei sopravvissuti ai «venti maligni» delle malattie infantili li vuole tutti intorno a sé. Perché il vecchio contadino anarchico con la passione per la letteratura classica desidera morire come morivano i patriarchi del mondo antico: affidando a chi resta non tanto i beni materiali accumulati in vita – oro, greggi, poderi –, ma le parole di una saggezza ancestrale, destinate a rappresentare, per chi resta, il retaggio più prezioso. Ai figli Licurgo consegna dunque sei buste, in ognuna delle quali c’è una parte del racconto che per anni lui ha scritto, di nascosto, per sé e per loro: dopo la sua morte i sei fratelli dovranno leggerlo gli uni agli altri ad alta voce, perché questo, e solo questo, è il modo in cui il vecchio vuole essere commemorato. A mano a mano che le buste verranno aperte, scopriremo anche noi, con lo sguardo stupefatto dei bambini che ascoltano una fiaba, la storia del bastone dei miracoli (che dà a chi lo possiede la buona morte, ma soprattutto la perigliosa facoltà di conquistare potere e ricchezze) e di Paulu Anzones, noto Muscadellu, che uccide il suo amante e ne sposa la sorella, e le fa fare un figlio con un altro uomo, e per mano di questo figlio troverà una morte atroce… Alla vicenda di Muscadellu e del suo funesto bastone, però – come sanno bene i tanti, appassionati lettori di Niffoi –, si intrecciano molte altre storie: storie di violenza e d’amore, di amicizia e di sangue, di dolore e di festa, che vanno a comporre un ennesimo, magnifico affresco, cupo e sfolgorante al tempo stesso, di vita barbaricina.
Al pari delle Braci e di Divorzio a Buda, questo romanzo appartiene al periodo più felice e incandescente dell’opera di Márai, quegli anni Quaranta in cui lo scrittore sembra aver voluto fissare in perfetti cristalli alcuni intrecci di passioni e menzogne, di tradimenti e crudeltà, di rivolte e dedizioni che hanno la stupefacente capacità di parlare a ogni lettore.
Vasilij Grossman scrisse fra il 1955 e il 1963 questo libro, che è il suo testamento. Come nel grandioso Vita e destino, non cambiò molto nel suo stile scabro e aspro che lo aveva reso celebre fra gli scrittori del realismo socialista. Ma vi infuse l’inconfondibile tono della verità. Con lucidità e fermezza, prima di ogni altro parlò qui di argomenti intoccabili: la perenne tortura della vita nei campi, ma anche l’altra tortura, più sottile, di chi ne ritorna e riconosce la bassezza e il terrore negli occhi imbarazzati di parenti e conoscenti; lo sterminio sistematico dei kulaki; la delazione come fondamento della società; il vero ruolo di Lenin e del suo «spregio della libertà » nella costruzione del mondo sovietico.
Già negli anni Trenta, quando scrisse Addio a Berlino, Christopher Isherwood sosteneva di voler trasformare il proprio occhio di romanziere nell’obiettivo di una macchina fotografica. Ma per lungo tempo – attraverso libri molto diversi fra loro, e spesso segnati dai personaggi fittizi o reali che raccontavano – l’intenzione rimase una di quelle fantasticherie stilistiche che spesso gli scrittori inseguono per tutta la vita, senza realizzarle mai. E invece nel suo ultimo romanzo – questo – Isherwood trasforma una giornata nella vita di George, un professore inglese non più giovane che vive in California, in un’asciutta, e proprio per questo struggente, sequenza di scatti. Non è una giornata particolare per George: solo altre ventiquattr’ore senza Jim, il suo compagno morto in un incidente. Ventiquattr’ore fra il sospetto dei vicini, la consolante vicinanza di Charlotte, la rabbia contro i libri letti per una vita ma ormai inutili, e il desiderio per un corpo giovane appena intravisto ma che forse è già troppo tardi per toccare. Quanto basta per comporre un ritratto che non si può dimenticare, e un racconto che alla sua uscita sorprese tutti, suonando troppo vero per non essere scandaloso.
Lungo un decennio, dal 1953 al 1963 – nel pieno della loro amicizia –, William Burroughs e Allen Ginsberg intrattengono un epistolario «lisergico» tra i più immaginifici e radicali di tutto il movimento Beat, di cui rappresenta una vera sintesi estetica e cognitiva. Ma se il contributo di Ginsberg è concentrato in sostanza in una lunga lettera-poema da Pucallpa (Perù) dove gli effetti dell'ayahuasca si traducono in una visionaria tragicità cosmologica, i molti referti di Burroughs coniugano alle visioni dell'alterazione psicofisiologica lo sguardo acuto e mimetico dell'antropologo sul campo, fino a rendere i due piani intercambiabili. Burroughs si abbandona infatti alle tante droghe cercate e provate lungo un percorso che oltre al Perù comprende anche Panama e la Colombia – dalla liana dello yoka al mitico yage, estratto di una pianta che spalanca nella mente sterminati territori onirici. E nel contempo registra ogni frammento del paesaggio circostante, con esiti di violenta ambivalenza: in primo piano, una catena di fisionomie squallide di rado interrotta da qualche oggetto di accensione omoerotica, come il ragazzo di Cali dai «delicati lineamenti ramati» e dalla «bellissima bocca morbida»; sullo sfondo, luoghi e paesi degradati ma collocati in una natura immensa e sgomentante. E la cerniera tra la percezione-allucinazione e il mondo esterno è data come sempre da una scrittura eversiva, la cui inconfondibile tonalità horror si vena qui di una corrosiva ironia.
Attraverso la vicenda di Mr Earbrass, uno scrittore alle prese con il suo nuovo romanzo, un documentario surreale – e perciò crudelmente realistico – sugli esilaranti vizi e le risibili virtù del mondo letterario.
«Si sforzava, suo malgrado, di immaginare quella coppia di stranieri eleganti, sbucata Dio solo sa da dove nello studio di un modesto medico di quartiere. Pardon aveva capito subito che quei due non appartenevano al suo mondo, né a quello di Maigret o della gente che, come loro, abitava attorno a rue Picpus.
«Capitava spesso, al commissario, di imbattersi in personaggi di quel tipo, che a Londra, New York o Roma si sentono come a casa propria, prendono l’aereo come gli altri prendono il métro, scendono in alberghi di lusso e, a qualunque latitudine, ritrovano le loro abitudini e i loro amici.
«È una sorta di massoneria internazionale, e non solo del denaro, bensì di un certo stile di vita, di certi atteggiamenti, e anche di una certa morale, diversa da quella del comune mortale.
«Con loro Maigret non si sentiva mai del tutto a proprio agio, e a stento reprimeva un’irritazione che si sarebbe potuto scambiare per invidia».
«Chi meglio della signora Némirovsky, e con un’arma più affilata, ha saputo scrutare l’anima passionale della gioventù del 1920, quel suo frenetico impulso a vivere, quel desiderio ardente e sensuale di bruciarsi nel piacere|» scrisse, all’uscita di questo libro, il critico Pierre Loewel. Le giovani coppie che vediamo amoreggiare in una notte primaverile (la Grande Guerra è finita da pochi mesi, e loro sono i fortunati, quelli che alla carneficina delle trincee sono riusciti a sopravvivere) hanno, apparentemente, un solo desiderio: godere, in una immediatezza senza domani, ignorando «il lato sordido della vita», soffocando quella «parte d’ombra» che ciascuno si porta dentro. Eppure, quasi sulla soglia del romanzo, uno dei protagonisti si pone una domanda che ne costituirà il filo conduttore: «Come avveniva, nell’unione coniugale, il passaggio dall’amore all’amicizia? Quando si cessava di tormentarsi l’un l’altro per volersi finalmente bene?». Con mano ferma, e con uno sguardo ironicamente compassionevole, Irène Némirovsky accompagna i suoi personaggi, attraverso le intermittenze e le devastazioni della passione, fino alla quieta sicurezza dell’amore coniugale. A volte, certo, alcuni di loro rimpiangeranno «l’ebbrezza triste e folle dell’amore», e a quasi tutti accadrà di inoltrarsi, almeno per un po’, nelle vie perigliose dell’adulterio; ma il tempo riserverà loro una sorprendente rivelazione: che quell’«essere due» che del matrimonio costituisce l’essenza e «il flusso discontinuo, lento e possente dell’amore coniugale» conferiscono alla coppia una sorta di invincibilità.
«Una delle letture più appassionanti ... Non bisogna lasciarsi spaventare dal fatto che siano oltre 600 pagine. Non dirò che lo si legge di un fiato, ma lo si centellina per sere e sere come se fosse un grande romanzo d’avventure, popolato di straordinari personaggi storicamente esistiti e di cui non sapevamo nulla» (Umberto Eco).
«… grande affresco storico sul Grande Gioco, come lo chiamò Kipling, che impegnò inglesi e russi, per buona parte dell’Ottocento, in Afghanistan, in Iran e nelle steppe dell’Asia centrale. Mentre il grande impero moscovita scivolava verso i mari caldi inghiottendo ogni giorno, mediamente, 150 chilometri quadrati, la Gran Bretagna cercava di estendere verso nord i suoi possedimenti indiani. Vecchia storia? Acqua passata? Chi darà un’occhiata alla carta geografica constaterà che i grandi attori hanno cambiato volto e nome, ma i territori contesi o discussi sono sempre gli stessi. In queste affascinanti “mille e una notte” della diplomazia imperialista il lettore troverà l’antefatto di molti avvenimenti degli scorsi anni in Afghanistan e in Iran» (Sergio Romano).
Nel 1953 Goffredo Parise si trasferisce a Milano, dove ha trovato lavoro presso un grande editore. Ha pubblicato due romanzi che pochi conoscono – Il ragazzo morto e le comete e La grande vacanza – e ha il vago desiderio di scriverne un terzo che lo diverta e commuova «tanto da cacciare il freddo e la solitudine»: un romanzo «con molti personaggi allegri», ma soprattutto «estivo». Uscito nel maggio del 1954, Il prete bello conoscerà un clamoroso successo e diventerà il primo best seller del dopoguerra. E rileggendolo oggi, quando ormai le etichette impugnate per celebrarlo o denigrarlo sono definitivamente alle nostre spalle, ci accorgiamo che il suo segreto sta tutto in quella genesi: nella festosa eccentricità dei personaggi che popolano un labirintico e fiabesco caseggiato nella Vicenza del 1940, e di colui che saprà stregarli tutti, e attirarli a sé con la forza di un magnete: don Gastone, il «prete bello». Personaggi quali la ricca signorina Immacolata, con i suoi strani cappellini a piume e l’occhialino d’oro cesellato; le Walenska, madre e figlia, che si scaldano ingrandendo con una enorme lente l’unico raggio di sole che al tramonto penetra nella loro stanza; il cav. Esposito, che tiene sotto chiave le cinque figlie concupiscenti; Fedora, la cui rigogliosa natura si spande dagli occhi e da tutto il corpo, quasi che «dai pori uscisse un polline dolciastro»; e la cenciosa banda di ragazzi truffaldini e sentimentali che nei vicoli e sotto i portici cercano ogni giorno di sopravvivere trasformandosi in ladri, ruffiani e mendicanti – in particolare Sergio, il narratore, e il suo amico Cena. In tutti loro, nelle vene e nel sangue, l’atletico, elegante, vanesio don Gastone si infiltra come una passione oscura, violenta ma capace di dare improvvisamente vita – e come nel Ragazzo morto e le comete ci troviamo di fronte a «una sostanza poetica che ribolle e rifiuta di assestarsi entro schemi definiti», a «un quadro di Chagall con orsi e streghe volanti» (Eugenio Montale).