
Chi sognasse di incontrare finalmente un personaggio sfaccettato, deprecabile e irresistibile, insomma magistralmente imperfetto, sappia che Harry Rent, radiologo californiano quarantenne, non solo non lo deluderà, ma si inciderà profondamente nella sua memoria: perché Harry, maldestro in ogni sua impresa, è un uomo che migliora soltanto attraverso i suoi sbagli. La moglie è morta durante un intervento di chirurgia estetica, ed è con riluttante empatia che ricostruiamo a ritroso un viaggio emotivo fatto di rimorso, nostalgia, rancore, desolazione, e della immediata tentazione di un nuovo amore. Proprio per far colpo sulla nuova improbabile preda, Harry si imbarca in una serie di avventure che porteranno ad altrettanti comicissimi disastri, sullo sfondo di un'America contemporanea che Sarvas dipinge con scanzonata, crudele ironia, disseminando il racconto di tocchi di suspense.
"Forse il modo migliore per leggere quello che insieme a "Il ragazzo morto e le comete", a "Il padrone" e a "L'odore del sangue" è tra i vertici dell'opera di Parise, è fare come se di Parise non conoscessimo nulla, e questo libro uscisse per la prima volta oggi. Che immagine ci faremmo dell'autore dei "Sillabari"? I suoi racconti sembrano prossimi alla Mitteleuropa di Peter Altenberg: nel sentimento che non scade nel sentimentalismo, nell'asciutta creaturalità, nella musica fintamente trasandata; ma può anche essere un seguace del Robert Walser dei racconti in forma di temi di scuola: meno follemente didascalico, più narrativo, più "carnale"; o può somigliare a uno scrittore americano alla Truman Capote: per lo sguardo acuto e quasi tattile che cala nel mondo dell'adolescenza, per la capacità di dare parole ai trasalimenti privi di parole del corpo". (Giuseppe Montesano)
Giovanni ha smesso con la coca, e ha anche smesso di vendere prodotti finanziari ad alto rischio. Per disintossicarsi si occupa a titolo gratuito di creature misteriose e non troppo tranquillizzanti che si chiamano tutte Ruggero e Isabella, e appartengono a una razza pregiata di suini neri. Mary ha smesso anche lei con la sua vita precedente, ed è arrivata in Italia dagli Stati Uniti alla ricerca di certi parenti adottivi che vivono nello stesso paese dove lavora Giovanni, e che si chiamano anche loro Ruggero e Isabella. La prima curiosità che questo libro suscita è come possano incontrarsi due personaggi così, uno in fuga da e l'altro alla ricerca di un paradiso in terra - tanto più in un posto troppo fangoso e dimenticato da dio anche solo per ricordarlo, il paradiso. Ma la sorpresa è che invece sì, incontrarsi possono, se affrontano un viaggio in treno a Milano per conquistare insieme un congresso di allevatori, una farsesca e commovente lotteria suina nel basso Lazio, e una strana notte - italiana - del 4 di luglio; e se queste premesse riportano tutti e due per vie diverse in America, a Miami, dove la commedia recitata fin qui diventa, senza quasi che il lettore abbia avuto il tempo di accorgersene, un thriller hitchcockiano.
Da questi due romanzi Stephen Frears ha tratto il film «Chéri», con Michelle Pfeiffer e Rupert Friend, distribuito in Italia da 01 Distribution.
Con la protervia della bellezza giovane, Chéri, ragazzo «coi capelli dai riflessi blu come le penne dei merli», irrompe nella vita di Léa, donna leggera e sapiente - ma nel triangolo amoroso apparirà il rivale più temibile: il Tempo, corruttore di corpi. L'autunnale opulenza di lei e l'acerbo smalto di lui vengono spiati, attimo dopo attimo, da un occhio a cui nulla sfugge, talché la vicenda, scandita dalle scene di una magistrale commedia demi-mondaine, diventa la cronaca della catastrofe di Léa, dove il sentimento è delicatamente avvolto nella fisiologia e brama di sprofondare «in quell'abisso da cui l'amore risale pallido, taciturno e pieno del rimpianto della morte».
Quanto a Chéri, giunto all'acme della sua esistenza di 'bello' dinanzi a cui le donne si inchinano, percepisce una vaga inquietudine: «Non distingueva i punti precisi in cui il tempo, con tocchi impercettibili, segna su un bel viso l'ora della perfezione e poi quella di una bellezza più evidente, che annuncia già la maestà di un declino». E quel declinomaestoso vivremo nella Fine di Chéri, dove la punta avvelenata della storia del giovane emerge con fredda chiarezza dalla prosa avvolgente, atmosferica, precisa di Colette.
Un lento, soffocante pomeriggio estivo. In un modesto appartamento di Faubourg Saint-Honoré, una donna sta ricucendo un vecchio vestito. Al di là della sottile parete che divide la sua stanza da quella attigua, due corpi giovani si stiracchiano voluttuosamente dopo aver fatto l'amore. La donna sente tutto, immagina ogni gesto, come se li vedesse. Poi, come fa sempre, si avvicina alla finestra. Dall'altra parte della strada vive la ricca famiglia dei Rouet, proprietari non solo del palazzo in cui abitano, ma di buona parte dei palazzi intorno. Per ore e ore, da dietro le persiane accostate, la donna spia la loro esistenza: quella dei vecchi, al piano di sopra, e quella del giovane Hubert e della sua bella, irrequieta moglie Antoinette, al piano di sotto. Sarà lei, in questo pomeriggio di luglio, l'unica testimone di qualcosa che potrebbe anche essere un omicidio. E da ora in poi la donna comincerà a vivere per procura la vita di Antoinette: una vita "fervida, invadente, in tutta la sua spaventosa ferocia", una vita "proibita", che a poco a poco diventerà la sua. Con "La finestra dei Rouet", storia di una torbida ossessione, Simenon ha scritto uno dei suoi romanzi più sottilmente perversi.
Immaginate di essere un ragazzino di undici anni nell'America degli anni Venti. Immaginate che vostro padre vi dica che, in caso di sua morte, vi capiterà la peggiore delle disgrazie possibili, essere affidati a una zia che non conoscete. Immaginate che vostro padre – quel ricco, freddo bacchettone – poco dopo effettivamente muoia, nella sauna del suo club. Immaginate di venire spediti a New York, di suonare all'indirizzo che la vostra balia ha con sé, e di trovarvi di fronte una gran dama leggermente equivoca, e soprattutto giapponese. Ancora, immaginate che la gran dama vi dica «Ma Patrick, caro, sono tua zia Mame!», e di scoprire così che il vostro tutore è una donna che cambia scene e costumi della sua vita a seconda delle mode, che regolarmente anticipa. A quel punto avete solo due scelte, o fuggire in cerca di tutori più accettabili, o affidarvi al personaggio più eccentrico, vitale e indimenticabile che uno scrittore moderno abbia concepito, e attraversare insieme a lei l'America dei tre decenni successivi in un foxtrot ilare e turbinoso di feste, amori, avventure, colpi di fortuna, cadute in disgrazia che non dà respiro – o dà solo il tempo, alla fine di ogni capitolo, di saltare virtualmente al collo di zia Mame e ringraziarla per il divertimento. Per fortuna sua, e dei lettori, Patrick ha scelto la seconda opzione, e scritto questo libro tuttora leggendario. Non è certo che Dennis volesse inventarsi, come è stato detto, un’alternativa americana a Mary Poppins: ma lo è che chi arriva all’ultima pagina, e vede zia Mame partire per un nuovo viaggio, ha la sensazione di separarsi dalla parte più lieve, libera e felice di sé.
"Sono un Francese d'Oriente" scrive Joseph Roth da Odessa nel 1926. Ha già nostalgia di Parigi, meta l'anno precedente della sua fuga dalla Germania: Parigi è la "capitale del mondo" commentava allora, senza sapere che lì sarebbe vissuto quattordici anni e avrebbe scritto gran parte dei suoi libri. Chi non è stato a Parigi, del resto, è "solo un mezzo uomo", e diventare uomo completo significa, per Roth, godere di un'identità multipla nella città in cui gli ebrei orientali - affluiti dopo la guerra - "possono vivere come vogliono". Come i mirabili reportage da Vienna raccolti ne "Il caffè dell'Undicesimo Musa", anche questi feuilleton francesi sono racconti perfetti, increspati da un impagabile humour e da spiazzanti paradossi, gremiti di suoni e colori, odori e sapori: reti di nere cozze sgocciolanti e lupi di mare nel porto di Marsiglia; aromi di caffè, Pernod e acquavite nei bistrot parigini dove, dopo mezzanotte, si raccolgono gli esuli d'Europa; il bel mondo della Costa Azzurra con le sue vecchie cariche di brillanti e stuoli di cagnolini al seguito; l'alta stagione a Deauville con Monsieur Citroen che perde sempre al Casinò e regala un'automobile a ogni croupier; toreador vili e cialtroni nelle corride di Vienne (in cui le simpatie di Roth vanno naturalmente al toro) ; suonatori cosacchi di nostalgiche balalaiche; indossatrici che "seducono con caviglie moralmente corrotte" e femmine nude nei "luoghi di perdizione più ameni del mondo".
"Maigret si sentiva meno leggero di quando si era svegliato quel mattino nell'appartamento inondato di sole, o di quando, sulla piattaforma dell'autobus, assaporava le immagini di una Parigi variopinta come le illustrazioni di un libro per bambini. La gente aveva la mania di interrogarlo sui suoi metodi. Alcuni sostenevano addirittura di saperli analizzare, e allora li guardava con una sorta di beffarda curiosità, visto che lui, il più delle volte, improvvisava, basandosi semplicemente sull'istinto".
Quando, nel 1956, l'editore londinese Macmillan comprò il primo romanzo di una giovane autrice sconosciuta, "I consolatori", si rese subito conto di aver fatto una scelta molto ardita. Così, temendo che fosse un libro "troppo difficile" per il pubblico del tempo, esitò un anno prima di darlo alle stampe. Muriel Spark non si stupì particolarmente del ritardo: forse, dentro di sé, sapeva già di essere, secondo le parole di John Updike, "uno dei pochi scrittori che abbiano abbastanza risorse, coraggio e grinta da modificare la macchina della narrativa". Oggi, qualunque lettore, avvezzo o meno ai suoi romanzi più celebri, non potrà che soccombere allo charme che si sprigiona dalla sublime eccentricità dei consolatori (o persecutori?) che popolano queste pagine: una nonna contrabbandiera, un libraio satanista, un giovanotto con la vocazione del detective, e un'eroina che ha il sommo cruccio di sapersi personaggio di un romanzo. Li seguiremo, avvinti ed esilarati, fra storie d'amore, ricatti e terribili vendette in un intreccio prodigo di suspense e sortilegi. Un intreccio che dovette colpire anche Evelyn Waugh, se si risolse a scrivere a un'amica: "Mi sono state mandate le bozze del geniale romanzo di una signora che si chiama Muriel Spark. La protagonista è una scrittrice cattolica che soffre di allucinazioni. Il libro uscirà presto e sono sicuro che tutti penseranno che l'abbia scritto io. Vi prego di smentire".
Antonin Artaud cercava, al Messico, i Tarahumara - la "razza degli uomini perduti" - e, introdotto nella tribù, si troverà rovesciato e quasi inchiodato per sempre "dall'altra parte delle cose", che era già la condizione naturale della sua coscienza e il suo destino. Artaud racconterà questo viaggio in "Al paese dei Tarahumara", il suo libro più perfetto, scritto sulla superficie di un metallo abbacinante. Qui si trovano i suoi testi più difficili e più ricchi. Nessuno schermo copre la sua voce, ogni pretesto deviante è caduto.
Quando, nel 1918, Scholem lesse la traduzione tedesca della Leggenda dello scriba a Walter Benjamin, questi rimase «profondamente colpito» dalla qualità visionaria di un autore che quelle pagine gli davano modo di scoprire, ma il cui nome sarebbe tornato spesso nelle lettere all'amico degli anni successivi - allorché Agnon si andò affermando come il maggiore e il più fecondo narratore di lingua ebraica. In questo volume il lettore troverà riuniti alcuni dei racconti più celebri di Agnon; e, come accadde a Benjamin, non potrà che rimanere incantato da queste narrazioni, che assumono a volte il tono della fiaba, a volte l'andamento formulare della scrittura biblica. E che gli faranno scoprire alcuni di quei personaggi che entrano prepotentemente nell'immaginario - uno per tutti, il piccolo rabbi Gadiel: così piccolo che suo padre se lo porta alla preghiera del mattino nella tasca del vestito; così piccolo da poter rimanere chiuso senza gravi conseguenze nelle pagine dei sacri libri della Torà; così piccolo da essere ingoiato da un goy malvagio e da sopravvivere nel suo stomaco come Giona nel ventre della balena, per poi essere risputato fuori al momento opportuno, e poter discolpare il padre ingiustamente accusato di omicidio rituale, salvando così dallo sterminio l'intera comunità. Agnon domina un mondo di storie tanto ricco «che non basterebbero» scrive «trenta risme di carta» per raccontarle tutte, ma le riduce all'essenziale - e, con la sua prosa soavemente ironica, intessuta di sottili reminiscenze talmudiche, fa sorgere sotto i nostri occhi un mondo quasi magico, in cui si muovono straccioni e santi, spose malinconiche e cabbalisti, ma anche una capra capace di condurci nel Giardino dell'Eden.
Charles Baudelaire e Graham Greene, rispettivamente padri nobili del flâneur metropolitano e dell'occidentale incline a perdersi nel primo Oriente a disposizione, sarebbero stati entrambi fieri di quel loro imprevedibile, inclassificabile, incorreggibile erede che risponde al nome di Lawrence Osborne: e Malcolm Lowry avrebbe di sicuro sottoscritto. Di fatto, però, il programma da cui Osborne parte stavolta ha pochi precedenti: raccontare alcuni periodi nella vita che un uomo «senza una carriera, senza prospettive, senza un soldo» decide di passare in una città scelta quasi a caso – Bangkok. Quanto poi succede a Osborne (mangiare al ristorante No Mani, dove i clienti vengono provvisti di bavaglino e imboccati; passeggiare la notte per il mattatoio della città, fra scannatori strafatti di droghe sintetiche che massacrano animali nel modo meno pulito e indolore; ritrovarsi in una stanza con due ragazze vestite da poliziotto, che avanzano facendo tintinnare le manette) è già di per sé materia per il romanzo che questo libro, in origine, era. Ma, quasi fra le dita del lettore, le storie che si intrecciano fra le pagine, e la voce che le racconta, diventano molto di più: il disperato profilo di alcuni espatriati giunti fin lì per cancellare, all'ultimo momento o quasi, tutta la loro vita precedente; l'autoscatto di uno scrittore sorpreso nel goffo, scatenato e non resistibile tentativo di innalzarsi allo stato di natura; lo schizzo di una città diversa da ogni altra, che è prima di tutto una nuova, fantasmagorica e in larga parte ancora inesplorata forma di vita.

