
Quando Paul Valéry fu accolto, nel 1925, fra gli "immortali" dell'Académie française, si vide costretto - lui che non aveva grande stima per l'arte del romanzo - a pronunciare l'elogio di Anatole France, suo predecessore. In un 'panegirico' divenuto leggendario, non solo riuscì a parlare di France senza mai menzionarne il nome, ma con squisita perfidia contrappose le sue opere a quelle di Tolstoj, Ibsen, Zola, tacciandole di leggerezza. Non c'è da stupirsi, ci avverte Kundera: difficilmente il romanziere rientra nella schiera di coloro che incarnano lo spirito di una nazione. Proprio in virtù della sua arte, il romanziere è per lo più "segreto, ambiguo, ironico", e celato com'è dietro ai suoi personaggi - difficilmente si lascia ridurre a una convinzione, a un atteggiamento: quel che gli preme non è la Storia (e tanto meno la politica), bensì il "mistero dei suoi attori". Come Beckett, è libero, persino dal virtuoso senso del dovere che lo vorrebbe prigioniero di un Paese o di una lingua; come Danilo Kis, respinge ogni etichetta, anche quella, proba e accattivante, di emigrato o dissidente; come Skvorecky, è pronto a rivolgere il suo "inopportuno humour" contro il potere e insieme contro il "vanitoso gesticolare" di chi protesta. E spesso finisce sulle liste di proscrizione che governano i gusti letterari: soprattutto quando, come Malaparte, ci rivela la cupa bellezza di una realtà diventata folle, la nuova Europa nata da un'immensa disfatta, e un nuovo modo, vinto e colpevole, di essere europei.
"A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce"; con questa dedica si apre "L'incendiaria" di Stephen King. È infatti con toni sommessi e deliziosamente sardonici che la diciottenne Mary Katherine ci racconta della grande casa avita dove vive reclusa, in uno stato di idilliaca felicità, con la bellissima sorella Constance e uno zio invalido. Non ci sarebbe nulla di strano nella loro passione per i minuti riti quotidiani, la buona cucina e il giardinaggio, se non fosse che tutti gli altri membri della famiglia Blackwood sono morti avvelenati sei anni prima, seduti a tavola, proprio lì in sala da pranzo. E quando in tanta armonia irrompe l'Estraneo (nella persona del cugino Charles), si snoda sotto i nostri occhi, con piccoli tocchi stregoneschi, una storia sottilmente perturbante che ha le ingannevoli caratteristiche formali di una commedia. Ma il malessere che ci invade via via, disorientandoci, ricorda molto da vicino i "brividi silenziosi e cumulativi" che - per usare le parole di un'ammiratrice, Dorothy Parker abbiamo provato leggendo "La lotteria". Perché anche in queste pagine Shirley Jackson si dimostra somma maestra del Male - un Male tanto più allarmante in quanto non circoscritto ai 'cattivi', ma come sotteso alla vita stessa, e riscattato solo da piccoli miracoli di follia.
Povero Maigret: mai, in tutta la sua carriera, si è sentito umiliato come quando, di fronte a un pivello di questore che gli sorride con amabile perfidia, è costretto ad ammettere con se stesso di essere caduto in una trappola - peggio: di essersi fatto fregare come un principiante, e per di più da una ragazzina di neanche diciott'anni, nipote di un pezzo grosso del Consiglio di Stato, che ha raccontato alla polizia di essere stata rimorchiata proprio da lui, Maigret, in un caffè, di essere stata trascinata in un albergo e di aver ricevuto pesanti avance. Ma la ragazza non può aver fatto tutto da sola. E anche quel giovanottino pretenzioso e arrogante, il nuovo questore (al quale Maigret avrebbe comunque dato volentieri un pugno in faccia quando gli ha suggerito di offrire immediatamente le sue dimissioni), è solo una pedina. È talmente abbattuto, il commissario, e anche schifato, che sulle prime non ha il minimo desiderio di difendersi, anzi, accetta la disfatta quasi con sollievo: basta responsabilità, basta nottate a interrogare malviventi ingoiando solo birre e panini della brasserie Dauphine... Ma avrà uno scatto d'orgoglio (tutti noi, del resto, stavamo aspettando questo momento con il fiato sospeso), e comincerà a chiedersi "chi c'è dietro", e per quale ragione è stata architettata quella ignobile messinscena. Mentre Parigi "frigge sotto il sole" di giugno, Maigret sa che vuole e deve scoprirlo. E che deve farlo, per una volta, da solo.
A Stoccolma Malaparte incontra il principe Eugenio, fratello del re di Svezia. E nella villa di Waldemarsudden non può trattenersi dal raccontare ciò che ha visto nella foresta di Oranienbaum: prigionieri russi conficcati nella neve fino al ventre, uccisi con un colpo alla tempia e lasciati congelare. È solo la prima di una fosca suite di storie che, come un novellatore itinerante, Malaparte racconterà ad altri spettri di un'Europa morente: ad Hans Frank, Generalgouverneur di Polonia, a diplomatici come Westmann e de Foxà, a Louise, nipote del kaiser Guglielmo II. Storie che si annidano nella memoria per non lasciarla mai più: il Ladoga, simile a "un'immensa lastra di marmo bianco", dove sono posate centinaia e centinaia di teste di cavallo, recise da una mannaia; il console d'Italia a Jassy, sepolto dal freddo peso dei centosettantanove cadaveri di ebrei che sembrano precipitarsi fuori dal treno che li deportava a Podul Iloaiei, in Romania; le mute di cani muniti di cariche esplosive che, in Ucraina, i russi addestrano ad andare a cercare il cibo sotto il ventre dei panzer tedeschi. Storie, anche, malinconiche e gentili: quella dei bambini napoletani convinti dai genitori che gli aviatori inglesi sorvolano la città per gettar loro bambole, cavallucci di legno e dolci; o, ancora, quella delle ragazze ebree destinate al bordello militare di Soroca. Storie che trascinano in un viaggio lungo e crudele, al termine del quale si vedrà l'Europa ridotta a un mucchio di rottami.
Quando qualcuno si accinge a scrivere la biografia di qualcun altro, parenti e amici del biografato cercano quasi sempre di ostacolare un'iniziativa che, in un futuro minacciosamente vicino, li costringerebbe a leggere la solita compilazione di svarioni, congetture e voli di fantasia non autorizzati. È quindi ovvio che né la moglie, né il fratello, né l'amante del defunto Jules Gund, autore di un solo e venerato libro, desiderano che il giovane Omar Rezaghi si rechi nella tenuta di famiglia in Uruguay, e s'inpicci di faccende che non lo riguardano. È solo l'inizio di una commedia dove nessuna combinazione di fatti, sentimenti o rivelazioni è esclusa in partenza.
Solo il Filosofo Ignoto, in arte Guido Ceronetti, poteva fondare "Insetti senza frontiere", un'"associazione senza fini di lucro" in difesa della "libertà di pungere" e per la tutela degli insetti, se necessario a scapito del sopravvalutato, e in ogni caso sovrabbondante, genere umano. In questo singolarissimo libro, che ne costituisce il manifesto e il programma, Ceronetti riprende il suo instancabile pellegrinaggio verso i luoghi che esplora da sempre - il corpo, la morte, il crimine, ma anche le fotografie, i versi di poeti lontanissimi, i dipinti, e ancora i giornali, le città, le librerie, unendo alle aspre certezze dell'aforista ("Alla luce del Tragico il mondo non è inesplicabile") i trucchi di un venditore di almanacchi, che intende girare "fiere, supermercati e suk" e proporre una nuova forma di intrattenimento, o di terapia, popolare: l'ascolto personalizzato di "ronzii d'alveare, cori delle cicale, cantare dei grilli".
Le esistenze di De Quincey, Keats e Schwob raccontate come tre minuscoli romanzi.
Il mondo eccessivo, feroce e comico dei modi di dire barbaricini.
Sin dalle prime pagine di questo libro - quando vediamo Thérèse, il piccolo volto "livido e inespressivo", uscire dal Palazzo di Giustizia dopo essere stata prosciolta dall'accusa di omicidio premeditato - ci appare chiaro per quale ragione questo memorabile personaggio non abbia mai smesso di ossessionare Mauriac. E non potremo che essere anche noi soggiogati dal fascino ambiguo di quella che l'autore non esitava a definire "una creatura ancora più esecrabile" di tutte quelle uscite dalla sua penna. La seguiremo, questa scellerata eppure irresistibile creatura, nel viaggio verso Argelouse: un pugno di fattorie oltre il quale ci sono solo i viottoli sabbiosi che si inoltrano verso l'oceano in mezzo a paludi, lagune, brughiere, "dove, alla fine dell'inverno, le pecore hanno il colore della cenere". Là Thérèse ritroverà quel marito che ha tentato di avvelenare, ma che l'ha scagionata per salvare "l'onorabilità del nome": un ragazzone di campagna amante della caccia e del buon cibo, che lei ha sposato nella speranza di trovare rifugio da se stessa e da un pericolo oscuro. Ma neanche mettersi una maschera, cercare di vivere come anestetizzata, inebetita dall'abitudine, è servito: le "sbarre viventi" di una famiglia ottusa e conformista non sono riuscite a impedire che si compisse ciò che era scritto.
Nel 1984 Márai ha ottantaquattro anni, e vive negli Stati Uniti da più di trenta. Fra il gennaio del 1984 e il febbraio del 1989 scompaiono i due fratelli e la sorella, e anche il figlio adottivo, appena quarantaseienne. Ma soprattutto muore Lola, la donna che è stata la sua compagna per sessantadue anni: Márai, che ha coltivato il sogno impossibile di morire insieme a lei, è costretto a vederla spegnersi lentamente e, dopo averne disperso le ceneri nell'Oceano, a proseguire un'esistenza che ormai non ha più senso. "Scrivevo per lei, ogni singola riga. Non ho più per chi scrivere" annota; il pensiero della "letteratura", dirà più volte, gli provoca ormai solo nausea e disgusto. Eppure - e fin quasi alla vigilia della morte - il vecchio "scrittore ungherese" continua, in questo monologo ininterrotto che è il suo diario, a registrare annotazioni di ogni genere: aforismi perfetti; lucide riflessioni sulla letteratura, sul mondo contemporaneo, sul tema dell'esilio e sulla condizione di esule - e naturalmente sulla prossimità della morte. Sándor Márai scrive l'ultima frase il 15 gennaio del 1989: "Aspetto la chiamata alle armi. Non la sollecito, ma neppure la rinvio. È arrivato il momento". Esattamente un anno prima si era comprato una rivoltella ed era andato più volte in un poligono di tiro per imparare a usarla. Il 21 febbraio, tredici mesi dopo la morte di Lola, si uccide.
Chi sognasse di incontrare finalmente un personaggio sfaccettato, deprecabile e irresistibile, insomma magistralmente imperfetto, sappia che Harry Rent, radiologo californiano quarantenne, non solo non lo deluderà, ma si inciderà profondamente nella sua memoria: perché Harry, maldestro in ogni sua impresa, è un uomo che migliora soltanto attraverso i suoi sbagli. La moglie è morta durante un intervento di chirurgia estetica, ed è con riluttante empatia che ricostruiamo a ritroso un viaggio emotivo fatto di rimorso, nostalgia, rancore, desolazione, e della immediata tentazione di un nuovo amore. Proprio per far colpo sulla nuova improbabile preda, Harry si imbarca in una serie di avventure che porteranno ad altrettanti comicissimi disastri, sullo sfondo di un'America contemporanea che Sarvas dipinge con scanzonata, crudele ironia, disseminando il racconto di tocchi di suspense.
"Forse il modo migliore per leggere quello che insieme a "Il ragazzo morto e le comete", a "Il padrone" e a "L'odore del sangue" è tra i vertici dell'opera di Parise, è fare come se di Parise non conoscessimo nulla, e questo libro uscisse per la prima volta oggi. Che immagine ci faremmo dell'autore dei "Sillabari"? I suoi racconti sembrano prossimi alla Mitteleuropa di Peter Altenberg: nel sentimento che non scade nel sentimentalismo, nell'asciutta creaturalità, nella musica fintamente trasandata; ma può anche essere un seguace del Robert Walser dei racconti in forma di temi di scuola: meno follemente didascalico, più narrativo, più "carnale"; o può somigliare a uno scrittore americano alla Truman Capote: per lo sguardo acuto e quasi tattile che cala nel mondo dell'adolescenza, per la capacità di dare parole ai trasalimenti privi di parole del corpo". (Giuseppe Montesano)