
Definiti da Sainte-Beuve una "confessione delirante" e dal curatore medesimo (autore di uno dei libri più importanti su Chateaubriand che mai siano stati scritti) "un capolavoro incompiuto, inconfessabile e destinato alla distruzione", questi frammenti posseggono - a ogni frase, a ogni respiro del pur brevissimo testo - la violenza straziante della verità: nel rifiutare la giovane donna che gli si offre, il vecchio scrittore ci svela, sull'amore e sul tempo, sulla nostalgia e sulla memoria, molte più cose di quante ce ne abbiano dette in lunghe pagine schiere di verbosi romanzieri.
Il giornale dei sopralluoghi per "Bello, onesto, emigrato Australia" diventa l'ilare resoconto della nascita di un film, e della circospetta esplorazione di un continente lontanissimo. Il testo ritrovato di un maestro della commedia all'italiana - lo sceneggiatore principe di Alberto Sordi.
"Aprendo questo volume" scrive Margherita Pieracci Harwell "si ritroverà la Campo che conosciamo ... ma anche una affascinante figura nuova, di cui brilla a tratti la giocosità - che a detta di tutti ne iridava la conversazione, ma fin qui non avevamo visto trapassare nella scrittura - o d'improvviso scoppietta la maliziosa civetteria ... Sono la voce, queste lettere, di una limpida, calda, forte amicizia, prezioso residuo salvato all'estinguersi della gran fiamma di un amore che aveva formato e tormentato chi le scrive nell'arduo passaggio dall'adolescenza all'età illuminata dal sole al suo zenit". Cristina Campo e Leone Traverso (insigne grecista e germanista) avevano formato per anni "una coppia perfetta" - lui dotato di fascino, non solo intellettuale, lei di bellezza e di grazia - al centro di quella cerchia di scrittori fiorentini di cui nel dopoguerra facevano parte, fra gli altri, Tommaso Landolfi e Mario Luzi. Poi il rapporto si era incrinato, per chiudersi definitivamente nel 1956: troppo diversi, e lontani, il "rigore di spada" che contraddistingueva Cristina e la "mollezza veneta" che le sembrava di scorgere in lui. Tuttavia, a legare Cristina e Leone (a cui lei stessa aveva dato il soprannome di Bul) fu ancora per lungo tempo - e ne testimonia questa corrispondenza - una duratura comunione di gusti e di disgusti, la passione per la perfezione dello stile, e soprattutto la fedeltà profonda a una certa idea, alta ed esigente, della letteratura.
Polli in rivolta contro un intollerabile rito di espiazione, un cane docile e malmenato in fuga dalla ferocia dei suoi simili e degli uomini, un ronzino stremato da una vita di fatiche e bastonate: ecco i protagonisti di queste taglienti storie ambientate negli shtetl dell'Europa orientale. Ma protagonisti sono anche gli uomini che, nell'ansia di celebrare le loro feste, di vivere e di dimenticare, non sanno vedere le sofferenze degli animali, e tanto meno attenersi al precetto talmudico che impone "pietà per gli esseri viventi". Non sorprende allora che il bambino angustiato per la sorte di una carpa ("Non dice forse il rebe che tutte le creature sono care al Signore?") si senta dare dell'idiota dalla madre -e che questa, vedendolo poi piangere (per la piccola Perele, uccisa durante un pogrom), pensi semplicemente che gli è andato del rafano negli occhi. È un bestiario paradossale, quello creato da Shalom Aleichem, un mondo alla rovescia dove gli animali minano antiche usanze e sovvertono l'ordine naturale delle cose - un mondo còlto con lo sguardo impietoso ma partecipe che ben conoscono quanti hanno già amato gli stralunati personaggi di "Un consiglio avveduto" e gli amori tenaci e impossibili del "Cantico dei Cantici".
Il racconto abbraccia due secoli, due sponde dell'Atlantico e cinque generazioni di una dinastia ebraica in cui tutto è smisurato: vitalità, ricchezza, lusso, inclinazione al piacere in ogni sua forma. Ma nessuna grande famiglia è senza macchia, e la macchia dei Gursky si chiama Solomon, rampollo in disgrazia che pare essere stato presente, come Zelig più o meno negli stessi anni, in tutti i momenti cruciali del ventesimo secolo - la Lunga Marcia, l'ultima telefonata di Marilyn, le deposizioni del Watergate, il raid di Entebbe. Solomon rimarrebbe tuttavia un mistero, se della sua fenomenale parabola non decidesse di occuparsi il più improbabile dei biografi, Moses Berger, ex ragazzo prodigio rovinato dal rancore e dall'alcol.
James ha 18 anni e vive a New York. Finita la scuola, lavoricchia nella galleria d'arte della madre, dove non entra mai nessuno: sarebbe arduo, d'altra parte, suscitare clamore intorno a opere di tendenza come le pattumiere dell'artista giapponese che vuole restare Senza Nome. Per ingannare il tempo, e nella speranza di trovare un'alternativa all'università ("Ho passato tutta la vita con i miei coetanei e non mi piacciono granché"), James cerca in rete una casa nel Midwest dove coltivare in pace le sue attività preferite - la lettura e la solitudine -, ma per sua fortuna gli incauti agenti immobiliari gli riveleranno alcuni allarmanti inconvenienti della vita di provincia. Finché un giorno James entra in una chat di cuori solitari e, sotto falso nome, propone a John, il gestore della galleria che ne è un utente compulsivo, un appuntamento al buio...
Infanzie 'favolose', ragazze 'deliziose', ville sepolte fra gli alberi, parchi, piscine, tennis, biblioteche, vigne in collina... Cacce, boschi, cantine sociali, partite a carte, lezioni d'inglese... Piste da ballo, lirica del Novecento, alberghi di sfollati, studi d'avvocato, licei bombardati, desolate vie provinciali negli anni più bui della guerra e del dopoguerra, crocicchi illuminati dalla luna, nonne con soldi, cavalli, spiagge, film con Greta Garbo, corse in automobile... Studi universitari fatti male, trasalimenti sessuali confusi, droghine fatte in casa... Fanciulline scatenate o svampite, ragazzini pensierosi e giovani scemini che incontrano il primo amore insieme al primo dolore... Dignitose parsimonie... È uno sconfinato patrimonio d'affetti sentimentali e ridicoli accumulati o sperperati fra le ultime estati lunghe in campagna e le prime vacanze brevi al mare...
Se il professor Victor Henrik Askenasi, proveniente da Parigi e diretto in Grecia, ha deciso di fermarsi a Dubrovnik (che negli anni Trenta si chiama ancora Ragusa), è forse perché - non diversamente dal Giacomo Casanova della "Recita di Bolzano", né da tanti altri personaggi di Márai - è lì che ha un appuntamento con il destino. Perché lì, forse, troverà la risposta alla domanda che da sempre lo tormenta - quella che lo ha spinto, alcuni mesi prima, a lasciare sua moglie, i suoi studi e la sua cattedra di greco antico, e ad andare a vivere con una equivoca ballerina russa. Situazione banale, in apparenza, sebbene altamente "sconveniente", come amici e colleghi l'hanno giudicata: un maturo signore si innamora di una donna giovane e attraente. E invece no: alla turbinosa Eliz, come a tutte le donne che ha incontrato nella sua vita, Askenasi non ha fatto altro che chiedere quella risposta. Ma nemmeno lei, pur nella sua solare sensualità, nella sua generosa impudicizia, ha saputo dargliela: Eliz non era la meta, poteva soltanto mostrargli la strada. Adesso, in un pomeriggio di maggio eccezionalmente caldo, allorché decide di andare a bussare alla porta della sconosciuta che gli ha rivolto uno sguardo provocante chiedendo la chiave della sua stanza a voce appena troppo alta, Askenasi sente che la risposta è vicina, che è infine arrivato il momento di oltrepassare quel limite al di là del quale forse c'è l'oscurità del crimine e della follia - o forse la verità.
Il racconto di Shirley Jackson intitolato "La lotteria" ricorda da vicino, per la fama che lo circonda, la famigerata lettura radiofonica della Guerra dei Mondi di Orson Welles. Fama non immeritata, giacché la pubblicazione sul "New Yorker" nel 1949, scatenò un pandemonio. Molti lo presero alla lettera, reagendo all'istante e poi per lungo tempo con missive indignate o atterrite alla redazione. Certe cose non potevano, non dovevano succedere. Eppure la storia si presenta in tutta innocenza quale pura e semplice descrizione della lotteria che si svolge nell'atmosfera pastorale, quasi idilliaca, di un villaggio del New England in un luminoso mattino di giugno, come ogni anno da tempo immemore. Ma giunto al termine di questo racconto, come degli altri che compongono l'intensa silloge qui proposta, il lettore scoprirà da sé, in un crescendo di "brividi sommessi e progressivi" - come diceva Dorothy Parker che cosa li rende dei classici del terrore. Secondo un altro illustre ammiratore della Jackson, oltre che maestro del genere, Stephen King, lo sono perché "finiscono con una svolta che porta dritto in un vicolo buio".
Elisa vorrebbe solo una cosa: annullarsi in Gilles. Vivere per e attraverso Gilles, non essere altro che sua moglie. Preparargli la cena, guardarlo mangiare, guardare i suoi occhi, la sua bocca, i suoi capelli. Ma il giorno in cui Elisa capisce che Gilles, suo marito, è diventato l'amante di sua sorella, tutto crolla attorno a lei. Eppure sceglie di tacere, di sorridere, di sopportare in silenzio l'indifferenza di Gilles, perfino che Gilles le parli del suo amore per l'altra, della sua gelosia. Madeleine Bourdouxhe, considerata tra i maggiori scrittori belgi del secolo scorso, pubblicò questo romanzo nel 1937.
Il contratto preparato nell'estate del 1937 da Faber and Faber e da Random House riguardava un generico "libro di viaggio sull'Estremo Oriente" e lasciava alla discrezione di Auden e Isherwood la scelta dell'itinerario e il taglio del resoconto. Ma è certo che la decisione, da parte della strana coppia di reporter, di partire per la Cina - allora in guerra col Giappone non fu delle più ovvie. Di fatto, per quanto in quegli anni l'intelligencija europea frequentasse con una certa assiduità trincee e teatri d'operazioni, nessuno aveva rivolto lo sguardo a quello che - nonostante le dimensioni, la ferocia e le implicazioni che avrebbe avuto per la storia non solo regionale era un conflitto quasi dimenticato. Che Auden e Isherwood ci fanno invece rivivere nel momento stesso in cui accade, con un'immediatezza, una precisione e un'efficacia tanto più sbalorditive se si considera che del Paese in cui soggiornarono dal gennaio al luglio del 1938 i due, per loro stessa ammissione, sapevano molto poco, e soprattutto che la forma da loro adottata un ibrido di prosa, versi e fotografie - era, ed è rimasta, un unicum.
"La struttura e lo stile di 'Mentre morivo' esercitano un fascino, a volte esasperante, soltanto se il lettore accetta la sfida di mettere in atto tutta la sua disponibilità percettiva. Bisogna cogliere insieme l'assurdo, il comico, il simbolico, l'inconcluso, la ridicolaggine che incombe sulla tragedia, l'enigma, che non si risolve" (Alfredo Giuliani).