
Un bel baritono si è rifugiato in Messico per nascondere un inconfessabile segreto. In un locale debitamente malfamato avviene l'incontro fatale con una giovane prostituta di sangue indio. La situazione si fa subito tesa, pericolosa, e li induce prima a spingersi verso l'interno, poi a rientrare clandestinamente negli Stati Uniti, dove il protagonista ridarà la scalata al successo e quell'inconfessabile segreto tornerà a offuscarne la carriera sino alla soluzione finale, tragica nella sua necessità adombrata già nelle prime scene. Come sempre in Cain, l'atmosfera è torrida e la vicenda avvolta da un velo lucido e intriso di eros, il tutto reso con scarne scene e quei dialoghi anche più scarni a cui ci ha abituati Hollywood. Ma in questo caso il cinema dell'epoca non è stato all'altezza - e occorrerà tornare a leggere questo noir esemplare.
L'uomo più funereo della polizia parigina, zimbello della sfortuna, si è cacciato in guai seri. Da anni si lamentava di non avere mai per le mani un'inchiesta sensazionale, una di quelle che procurano lustro e magari una promozione. Ora finalmente gliene è capitata una, e lui si è gettato a capofitto. Ma il "povero Lognon", manco a dirlo, ha fatto il passo più lungo della gamba: quelli che si è messo a pedinare sono gangster americani appena sbarcati a Parigi. Gente troppo spietata per lui. Non resta che rivolgersi all'infallibile, irritante Maigret, affidarsi a lui, e ricominciare a lagnarsi.
Un uomo e una donna si incontrano per caso mentre tornano al loro paese natale, che hanno abbandonato vent'anni prima scegliendo la via dell'esilio. Riusciranno a riannodare i fili di una strana storia d'amore, appena iniziata e subito inghiottita dalla palude della storia? Il fatto è che dopo una così lunga assenza "i loro ricordi non si assomigliano". Crediamo che i nostri ricordi coincidano con quelli di chi abbiamo amato, crediamo di avere vissuto la medesima esperienza, ma è solo un'illusione. D'altro canto, che può fare la nostra memoria, quella memoria che del passato non ricorda che una "insignificante minuscola particella"? Viviamo sprofondati in un immenso oblio e ci rifiutiamo di saperlo.
Canetti appartiene a quegli scrittori che nella vecchiaia hanno raggiunto un alto grado di libertà e sovranità dello spirito. Qui applicata a ritessere ancora una volta il suo pensiero su temi che lo hanno sempre accompagnato, come la massa, la morte, il mito. Ma la forma degli "appunti", molto agile, consente a Canetti anche di puntare in tutt'altre direzioni: ammirazioni relativamente recenti e intensissime, come quella per Robert Walser; avversioni antiche che continuamente si riaccendono, come quella per Nietzsche; ricordi acuminati di persone che nella vita di Canetti molto hanno contato.
Questo libro è una prima guida a quel mondo possibile che si è manifestato in una foresta di pagine sotto il nome Adelphi: circa millecinquecento titoli a partire dal dicembre 1963. E nel corso di quarant'anni numerosi lettori hanno notato come, a tenere insieme questi libri, ci sia qualcosa, un legame tenace, che va oltre la qualità. Questo legame tenace che la casa editrice tenta di indicare fin dall'inizio, per quanto possibile in modo esplicito, nell'unica forma in cui l'editore accompagna ogni singolo libro: il risvolto di copertina. Fra gli oltre mille risvolti che ha scritto, Roberto Calasso ha isolato quei cento che più gli sembravano capaci di una vita indipendente, e li ha inanellati come altrettante "lettere a uno sconosciuto".
Un romanzo che è la storia di un'autoeducazione selvaggia, attraverso una folta sequenza di avventure, incontri, fagocitazioni, seduzioni e soprattutto fughe, perché la vocazione del protagonista è quella di evadere da ogni esperienza che tenda a chiudersi su se stessa. E ogni fuga lascia in dono al lettore un personaggio, una storia, avvolti da quella dolorosità peculiare della gioventù. Di questo libro iniziale di Busi possiamo dire oggi che offre un esempio di lucentezza che non si offusca con il tempo. E si accende ora di nuovi riflessi in questa stesura "interamente riscritta, e interamente per davvero", nonché sigillata, come da una sorta di epilogo, dall'inesorabile Seminario sulla vecchiaia.
Claude Debussy nacque nel 1862 a Saint-Germain-en-Laye e morì a Parigi nel 1918. Tre anni dopo la sua morte, nel 1921, apparve "Il signor Croche antidilettante", i cui venticinque capitoli sono estratti da una serie di articoli usciti fra il 1901 e il 1912. Che parli di Gounod o di Beethoven, di Richard Strauss o dell'Opéra di Parigi (che il passante ignaro, egli afferma, "confonderà sempre con una stazione ferroviaria"), Debussy cerca in ogni pagina di spiazzarci, stupendo il lettore con le sue osservazioni e con una prosa che è, al tempo stesso, nonchalante e scintillante.
Che cosa nasconde il bizzarro e concitato comportamento di Stanislaus Demba nelle dodici ore di una fatale giornata di inizio secolo? Quale colpa, quale paura lo mette in fuga attraverso le stazioni di un itinerario tormentoso e funambolico per le strade di Vienna? Fra i nove rintocchi del mattino e i nove battuti dalla campana della sera si consuma l'odissea dell'uomo braccato nel labirinto della città e delle proprie paure. "Dalle nove alle nove" è stato pubblicato per la prima volta nel 1918.
Come appare evidente da questi scritti, qui per la prima volta radunati, Sciascia aveva per Stendhal un'ammirazione appassionata e intima, imparagonabile a quella che nutriva per altri autori amati. E questo lo ha naturalmente indotto a studiarlo in tutte le giustapposizioni, le efflorescenze e le cristallizzazioni della sua scrittura, nel tentativo di coglierne le strutture e gli scatti psicologici più celati. E, come osserva Colesanti nel saggio contenuto nel volume, Sciascia ha indagato, con gusto poliziesco, "i congegni, le 'finzioni', i trucchi anche, di cui quella scrittura è costruita".
Il racconto abbraccia due secoli, due sponde dell'Atlantico e cinque generazioni di una dinastia ebraica in cui tutto è smisurato: vitalità, ricchezza, lusso, inclinazione al piacere in ogni sua forma. Ma nessuna grande famiglia è senza macchia, e la macchia dei Gursky si chiama Solomon, rampollo in disgrazia che pare essere stato presente, come Zelig più o meno negli stessi anni, in tutti i momenti cruciali del ventesimo secolo - la Lunga Marcia, l'ultima telefonata di Marilyn, le deposizioni del Watergate, il raid di Entebbe. Solomon rimarrebbe tuttavia un mistero, se della sua fenomenale parabola non decidesse di occuparsi il più improbabile dei biografi, Moses Berger, ex ragazzo prodigio rovinato dal rancore e dall'alcol.
Erano tutti troppo disinvolti, troppo sicuri di sé. Il più esasperante era il responsabile della reception, con la sua marsina impeccabile e il colletto duro non sciupato dal sudore. Aveva preso in simpatia Maigret, o forse provava pena per lui, e di tanto in tanto gli rivolgeva un sorriso di complicità e insieme di incoraggiamento, come se, al di sopra del viavai degli anonimi clienti, gli dicesse: "Siamo tutti e due vittime del dovere professionale. Posso fare qualcosa per lei?". Maigret gli avrebbe volentieri risposto: "Portarmi un panino". Aveva sonno, caldo e fame. Quando, pochi minuti dopo le tre, aveva chiesto un altro bicchiere di birra, il cameriere si era mostrato scandalizzato come se l'avesse visto entrare in chiesa in maniche di camicia.
Nella prima parte, siamo in una cosmopolita cittadina dell'Alta Ungheria agli inizi del Novecento, nel luminoso tramonto della Monarchia, in seno a una famiglia della borghesia colta di origine tedesca. Nella seconda parte, il narratore - prima bambino e poi adolescente animato da un inesprimibile senso di ribellione - è diventato un ombroso déraciné che, spinto da una vorace curiosità e da un'irrequietezza che è in lui forma di vita, abbandona il suo Paese per una destinazione a lui stesso ignota. Iniziano così le peregrinazioni nell'Europa fra le due guerre: dapprima a Lipsia, Stoccarda, Weimar, Monaco, Francoforte, Berlino, e poi Parigi, Firenze, Londra per arrivare fino al Medio Oriente.