
Madame du Deffand visse da libertina gli anni turbolenti della Reggenza; esercitò la potenza di grande salonnière nella Parigi della metà del Settecento; sostenne d'Alembert, fu amica di Voltaire, ma guardò con insofferenza agli illuministi come "partito"; si abbandonò, cieca e settantenne, alla passione per un uomo molto più giovane di lei. Esercitò le migliori virtù del suo secolo: il culto dell'intelligenza, la sovranità del gusto, il senso della naturalezza. Ma era, come scrisse Cioran, devastata dal "flagello della lucidità", che le faceva percepire il nulla e il tedio che formano l'essenza del vivere. Edizione con un saggio di Marc Fumaroli.
Alla morte di Cioran, fra i suoi manoscritti furono trovati trentaquattro quaderni dalle copertine identiche. Erano, come si scoprì, i testi a cui per quindici anni, dal giugno del 1957 al novembre 1972, egli consegnò la parte più intima e segreta di sé, senza mediazioni di alcun genere. Brevi riflessioni, sentenze fulminanti, osservazioni su letture, impressioni musicali, ritratti di amici e di nemici, rapide fughe da Parigi, aneddoti, considerazioni sulla storia, ossessioni, capricci.
Una cerchia di anziani signori e signore londinesi, tutti agiati membri della migliore società, riceve successivamente una telefonata misteriosa con il seguente messaggio: Ricorda che devi morire. Questo segnale che all'inizio appare come un fastidioso disturbo, poi come una scandalosa beffa, alla fine risulterà essere il primo artificio di una vendetta sottilmente escogitata. A poco a poco, l'anonima minaccia rivela una rete di rapporti alquanto sordidi e perversi.
"Prima luce" è un libro sulla morte, sulla morte della madre, anzitutto, e su quella di ciò che trascorre investendoci con un lascito di ardente e melanconica nostalgia. Un libro sul morire che s'insinua nella giornata di ciascuono di noi, e di riflesso un libro che canta la gratitudine per il dono della "luce silenziosa del mattino su steli d'erba lucente", inimitabile come sa esserlo la collera di un dio o un miracolo che si rinnova. Testo originale a fronte.
Una donna giovane e insoddisfatta lascia marito e figli e si avventura da sola sulle montagne messicane per incontrare gli indiani discendenti da Montezuma e dai re aztechi che le abitano e conoscere i loro dèi. Le basta imboccare un piccolo sentiero per inoltrarsi in un altro mondo, in un clima rarefatto e contagioso. Incontrerà i suoi indiani: sinuosi, insidiosi, femminei, feroci; spaventosamente impersonali e, come quel mondo, inumani.
"La vicenda si svolge in un clima soffuso di tenue ironia; e a questo si deve, mi pare, la riuscita del romanzo. Tutti sono nervosi, inquieti, infelici, mentre il tocco narrativo di Keyserling li accompagna con grande freschezza e ariosità." (Alfredo Giuliani)
In questo libro Salamov ripercorre l'epoca della sua infanzia e formazione a Vologda, città del Nord nivea e cupoliforme, densa di significati sovrapposti nella storia russa - primo fra tutti quello di essere stata città-simbolo dei confinati politici sotto gli zar. Con naturalezza, cercando di mantenere sempre la "percezione giovanile degli eventi" e oscillando nel tempo come seguisse il "mugghiante dondolio dello sciamano" (e di ascendenze sciamaniche era la sua famiglia), Salamov è riuscito a mescolare la corrente della sua vita al turbinoso flusso dela storia russa, senza mai distaccarsi dal tono fondamentale della sua opera.
Monaciello, scugnizzo malinconico e dispettoso è il protagonista del primo racconto di questo volume, mentre il Fantasma servizievole e triste, che non è altro che la morte, ci accompagna nel secondo racconto. Sono "povere creature inimmaginabili": l'ombroso spiritello del primo racconto vive "in un piccolo armadio dalla serratura guasta, dalle porte malferme, fra cataste di panni scuri e penne verdi di pappagallo", mentre del secondo enigmatico fantasma "abbagliante era il suo sorriso in fondo agli occhi di tenebra". Attraverso la voce accorata e dolente della Ortese, si avverte l'eco di nostalgie mai sopite, di dolcezze negate e di figure angeliche e lunari, scontrose e carezzevoli.
"E' un libro che vorrei consigliare a tutti: medici e malati, lettori di romanzi e di poesia, cultori di psicologia e di metafisica, vagabondi e sedentari, realisti e fantastici. La prima musa di Sacks è la meraviglia per la molteplicità dell'universo." (Pietro Citati)
"Il sottoscritto, Lucien Gobillot, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali..." No, non è così che bisognava cominciare: così si cominciano i testamenti. Già. Ma allora, perché scrivere quella specie di memoriale? Per chi? "In caso di disgrazia. Nell'eventualità che le cose finissero male". E come altro sarebbe potuta finire quella storia? Era cominciata un anno prima, quando Yvette, quella puttanella insieme cinica e fragile, furba e innocente, era andata a chiedergli di assumere la sua difesa, la sua e quella dell'amica con la quale aveva tentato di rapinare un orefice riuscendo solo a mandarne la moglie all'ospedale...
Pari del regno, gentiluomo di camera del principe di Galles, viceré d'Irlanda e ambasciatore all'Aia, Philip Dormer Stanhope, quarto conte di Chestefield (1694-1773), non passa alla storia per le sue virtù politiche e diplomatiche, bensì per il suo poderoso epistolario, e in particolare per la lettere da lui indirizzate al figlio Philip sin da quando questi ha solo cinque anni. Lo scopo di una così lunga e intensa corrispondenza è di trasformare quell'unico erede - per di più illegittimo e quindi lontano - in un perfetto aristocratico, munito perciò di quelle doti di cultura, di gusto e di comportamento che il padre ritiene essenziali a tal fine.
In "Inquisizioni" Borges privilegia autori e motivi legati alla cultura argentina - sul versante della cultura avanguardistica come su quello dell'ispirazione popolareggiante - e sullo sfondo si staglia il controverso rapporto che lega lo scrittore alla letteratura spagnola e all'eredità barocca in particolare, ma non mancano i segni di una capacità precoce, spesso folgorante, di misurarsi con le grandi questioni letterarie e culturali: basti pensare al saggio sull'"Ulisse" di Joyce, probabilmente il primo apparso in America Latina o a quello su Sir Thomas Browne, dove Borges disegna un autoritratto in fieri.