
«Una sera, in una linda casetta di provincia come si vedono nei film, c'è il professor Ashby, solo. Lavora al tornio, macchina rumorosa, a fare basi per lampade; la moglie è andata da certi amici. Rientra Belle Sherman, ragazza diciottenne che i coniugi Ashby ospitano. La mattina dopo Belle viene trovata soffocata e violentata. Siamo a pagina 28. Da quel momento Ashby è il sospettato numero uno, l'uomo sul quale si abbattono i martellanti interrogatori del procuratore. Quella tremenda pressione fa riaffiorare in Ashby il lontano ricordo di un osceno turbamento giovanile: il ricordo diventa incubo erotico e l'incubo una spirale attorno alla quale comincia a girare in cerchi sempre più stretti, fino a quando... È curioso come, al fondo del racconto, ci sia una forte componente di vita, autobiografica,» (Corrado Augias)
«È un giovane di nome Gilles Mauvoisin il viaggiatore che sbarca nel porto di La Rochelle, in faccia all'Atlantico, da un cargo proveniente da Trondheim, in Norvegia. Il giovane indossa un lungo cappotto nero e un berretto di lontra anch'esso nero. A Trondheim ha perso entrambi i genitori, artisti giramondo di varietà, asfissiati dalle esalazioni di una stufa. Ora quell'orfano povero e smarrito si trova a La Rochelle come unico erede di una fortuna immensa: così ha disposto il fratello di suo padre, il temibile, solitario, inaccostabile Octave Mauvoisin ... "Monsieur Atmosphère", come Simenon è chiamato, ha già messo in moto la sua infallibile macchina romanzesca. C'è "un mondo bianco e grigio nel quale i suoni, soprattutto le sirene delle navi, diventano più penetranti, struggenti perfino" e intorno il groviglio di torbidi interessi, di sospetti, di velate minacce, di ipocrisie, di viltà, di ambigui ritorni del passato, che l'arrivo di Gilles ha scatenato». (Giulio Nascimbeni)
Questo libro è fatto di buio e di neve. Di un treno nella notte, e di una coppia senza nome che scende in una stazione deserta del Grande Nord. Di un immenso, lussuoso albergo nel cuore di una foresta. Delle sue stanze chiuse, dei suoi infiniti corridoi, dell'isola di luce del suo bar. Dei suoi ambigui ospiti - una vecchia cantante che tutto ha visto, e un losco uomo d'affari con un suo crudele disegno. E ancora, di un sinistro orfanotrofio, e di un enigmatico guaritore...
In quel tempo remoto gli dèi si erano stancati degli uomini, che facevano troppo chiasso, disturbando il loro sonno, e decisero di scatenare il Diluvio per eliminarli. Ma uno di loro, Ea, dio delle acque dolci sotterranee, non era d'accordo e consigliò a un suo protetto, Utnapishtim, di costruire un battello cubico dove ospitare uomini e animali. Così Utnapishtim salvò i viventi dal Diluvio. Il sovrano degli dèi, Enlil, invece di punire Utnapishtim per la sua disobbedienza, gli concesse una vita senza fine, nell'isola di Dilmun. Il nome Utnapishtim significa «Ha trovato la vita». Dopo qualche migliaio di anni approda a Dilmun un naufrago, Sindbad il Marinaio. Utnapishtim lo accoglie nella sua tenda e i due cominciano a parlare. Ciò che Utnapishtim racconta è la materia di questo libro.
È un'Europa che sonnecchia sotto la neve, ma «scossa da bruschi e terrificanti sussulti», quella dei primi mesi del 1933. Un'Europa malata, tanto che il medico, mentre la ausculta e le fa dire «33», ha un'aria preoccupata. Non è un medico, Simenon, non ha rimedi da prescrivere, ma ha il fiuto, la curiosità e la cocciutaggine del reporter di razza. E non esita ad attraversarla, questa Europa, dal Belgio a Istanbul, spingendosi fino a Batum e concentrando la sua attenzione soprattutto sui «popoli che hanno fame»: quelli dell'ex impero zarista. Risoluto a ignorare le «cartoline illustrate», Simenon ci offre, sul continente negli anni tra le due guerre, una testimonianza preziosa, fatta di immagini, episodi, annotazioni, dialoghi, scenari (alcuni dei quali torneranno, trasfigurati, nella sua narrativa). E non meno preziose sono le fotografie che scatta in viaggio, e che accompagnano il volume: perché ancora una volta, nelle stradine ghiacciate di Vilnius come nelle desolate campagne della Polonia, nella Berlino che assiste all'incendio del Reichstag come nel sordido dormitorio dei poveri di Varsavia, nello studio di Trockij sull'isola di Prinkipo come nel miserabile mercato di Odessa (e perfino negli alberghi di lusso delle grandi capitali europee, popolati di sagaci portieri, stravaganti banchieri, ricche dame annoiate e nevrasteniche, truffatori e avventuriere di alto bordo), quello che interessa a Simenon è stanare l'«uomo nudo», e mostrarcelo, come farà poi nei suoi romanzi, con compassione infinita e senza mai emettere giudizi. Con una Nota di Matteo Codignola.
«Quando la campagna sarà finita non pochi si precipiteranno a scrivere dei libri» annota Flaiano nel febbraio del 1936, mentre, sottotenente del Genio, partecipa alla guerra d'Etiopia. «Già immagino il contenuto e i titoli: "Fiamme nel Tigrai", "Africa te teneo", "Tricolore sull'Amba"!». Non a caso, attenderà dieci anni prima di ricavare da quella sofferta esperienza - fatta di sete e stanchezza, caldo e paura - un romanzo. Un romanzo sconcertante, tanto più in pieno clima neorealista, che ha come sfondo non la «terra ideale dei films Paramount», ma il paese triste, ingrato, ambiguo, sfuggente delle iene (e che dunque cela di necessità «qualcosa di guasto»), e al centro una vicenda «assolutamente fantastica»: un delitto futile e fatale, che scatena in chi l'ha commesso un corrosivo delirio. E gli trasmette il morbo di un «impero contagioso», di un senso di colpa inscindibile dal rancore, di una pietà commista a disprezzo per un mondo ignoto, l'Africa - «lo sgabuzzino delle porcherie», dove gli occidentali vanno «a sgranchirsi la coscienza».
Cosa succede, nella Silicon Valley? Per quale ragione gli spazi di lavoro sono disegnati come appartamenti, e gli appartamenti come spazi di lavoro? In base a quale idea del mondo anche chi hai seduto di fronte comunica con te solo via messaggio? Come mai gli unici scambi diretti fra umani ruotano intorno alle ordinazioni del delivery successivo? E soprattutto, oltre a imporre una vita quotidiana così diversa da tutte le altre, cosa fanno veramente le startup? Accumulano quantità inimmaginabili di dati su ciascuno di noi, e li organizzano secondo strategie sempre più veloci e sofisticate, ma perché? Per vendere, d'accordo. Per sorvegliare, come no. Ma poi? Su domande come queste speculiamo ogni giorno, senza peraltro neppure sapere bene come sia fatta, Silicon Valley, e cosa sia. Anna Wiener ci ha lavorato per cinque anni, e quando ne è uscita ha deciso di scrivere questo rapporto, che ha assunto quasi da solo la forma di un romanzo. Si ride molto, a leggerlo. Ma si ride sempre, quando si ha paura.
«Se Chincholle non fosse stato girato di spalle, intento ad armeggiare con la serratura di ferro battuto di un vecchio cassettone, avrebbero visto che piangeva. E forse per un istante gli balenò l'idea di gettarsi in ginocchio e confessare: «"La verità è che c'è un cadavere nella dispensa. Non so chi sia. Però mi pare di aver riconosciuto la barba del precedente inquilino... Non era olandese, lui, era ungherese... Aveva una bella moglie... Ha affittato la villa per tre mesi, ma sei settimane dopo ho ricevuto una lettera di disdetta da Roma". «E ora che sarebbe successo? La polizia! E articoli di cronaca sulla storia del cadavere nella dispensa! Nessuno avrebbe più voluto affittare la villa del delitto!».
Turisti, terroristi, secolaristi, hacker, fondamentalisti, transumanisti, algoritmici: sono tutte tribù che abitano e agitano "l'innominabile attuale". Mondo sfuggente come mai prima, che sembra ignorare il suo passato, ma subito si illumina appena si profilano altri anni, quel periodo fra il 1933 e il 1945 in cui il mondo stesso aveva compiuto un tentativo, parzialmente riuscito, di autoannientamento. Quel che venne dopo era informe, grezzo e strapotente. Nel nuovo millennio, è informe, grezzo e sempre più potente. Auden intitolò "L'età dell'ansia" un poemetto a più voci ambientato in un bar a New York verso la fine della guerra. Oggi quelle voci suonano remote, come se venissero da un'altra valle. L'ansia non manca, ma non prevale. Ciò che prevale è l'inconsistenza, una inconsistenza assassina. È l'età dell'inconsistenza.
Nel 1936, quando scrisse la Storia dell'eternità, Borges lavorava in una biblioteca rionale dimenticata in un quartiere periferico di Buenos Aires, dove la topografia ortogonale della capitale argentina si frastagliava in terreni incolti e officine e ortaglie, e dove il tempo sembrava non passare mai. Fu in quel periodo che si delinearono nella sua opera i tratti che oggi chiunque definirebbe, a colpo sicuro, borgesiani, e in primo luogo l'inclinazione a considerare tutto come materiale letterario. Così, per esempio, teologia e metafisica potevano diventare ai suoi occhi cronache della vita di un personaggio chiamato eternità, del quale egli si proponeva di restituire, attraverso episodi ben vagliati, alcune delle fasi che punteggiavano una vita infinita. Senza impedirsi, comunque, di accostare queste storie a divagazioni sulla metafora, sui traduttori delle Mille e una notte e sull'arte dell'insulto. Tale procedimento, usato da Borges con discrezione e ironia, ha una straordinaria forza dissestante, nel senso che scalza ogni affermazione dal suo piedistallo di pretesa realtà, come se la realtà stessa non fosse che un genere letterario. E nel contempo ci introduce a un nuovo genere, di cui Borges seppe essere, per un paradosso a lui congeniale, insieme il fondatore e l'epigono.
Due volte esule, dalla Russia comunista e dall'Europa nazista, negli Stati Uniti Nabokov insegnò per quasi vent'anni letteratura russa al Wellesley College e in seguito alla Cornell University. Erano lezioni memorabili in cui, con paziente tenacia, richiamava l'attenzione su oggetti o particolari che sembrano non avere alcuna rilevanza artistica: la borsa rossa di Anna Karenina; la fetta di cocomero che Gurov mangia rumorosamente in una stanza d'albergo nella Signora col cagnolino o il vestito «serpentino» di Aksin'ja in un altro racconto di ?echov, «artista perfetto»; la ruota del tondeggiante calesse sul quale, in Anime morte di Gogol', il tondo ?i?ikov, ipostasi dell'enfia volgarità universale, arriva nella città di NN. Maestro atipico, spericolato, Nabokov avrebbe voluto trasformare gli allievi in «buoni lettori», quelli che non leggono un libro per identificarsi con i personaggi, e tantomeno per imparare a vivere, giacché la vera letteratura - gioco sacro, superiore forma di felicità - non insegna nulla che possa essere applicato ai problemi della vita. Metteva in guardia contro il veleno ideologico del «messaggio» e contro ogni tentativo di cercare la famigerata «anima russa» nell'opera di giganti come Tolstoj, ?echov, Gogol' e il pur disamato Dostoevskij. Il professor Nabokov non ha alcun metodo, alcun approccio critico: con gli unici strumenti della passione e di una precisione infinita, si limita a scoprire la magia delle parole nelle loro più segrete combinazioni. E noi, come i suoi studenti, lo ascoltiamo incantati mentre va dritto al cuore di questo o quel capolavoro.
«Meno male che mia madre mi aveva detto che sarebbe stata una giornata tranquilla! » dice al giovane Miron l'amico Staszek. È il 1° agosto 1944, e per le strade affollate di Varsavia, da cinque anni sotto l'occupazione dell'esercito tedesco, la gente è in subbuglio: si parla di soldati nazisti ammazzati, di «carri armati grossi come case», e le detonazioni dei pezzi d'artiglieria echeggiano ben presto più forti e vicine di quelle che già da qualche giorno provengono dal fronte, dove avanzano i sovietici. È l'inizio di una delle vicende più atroci e controverse della Seconda guerra mondiale, che ancora oggi è come una ferita aperta nella coscienza e nella memoria della Polonia. Organizzata dal movimento di resistenza nazionalista, l'insurrezione di Varsavia, nata con finalità antitedesche ma anche con un significato apertamente antisovietico, si rivelerà un catastrofico errore politico e militare: 25.000 insorti e 200.000 civili rimarranno uccisi, la città sarà letteralmente rasa al suolo, e molti dei reduci, bollati dalla propaganda stalinista come «luridi giullari della reazione», scompariranno nei gulag. Solo a distanza di oltre vent'anni Miron Bialoszewski riuscirà a scrivere di quella tragedia, che prima non è stato in grado di raccontare se non «chiacchierando». E, anche sulla pagina, il racconto è un "parlato" concitato, frantumato ed erratico, in un libero flusso di ricordi: l'unica forma capace di testimoniare una verità lontana da quella delle opposte propagande. E capace, nel percussivo alternarsi di immagini e suoni, odori e sapori, di costringere il lettore a un'immedesimazione assoluta.