
«Se oggi mi chiedo quale fu il vero movente che mi ha portato in autunno dal Canton Ticino a Norimberga - un viaggio durato due mesi mi coglie l'imbarazzo» scrive Hermann Hesse all'inizio di questo libro di memorie. Nel 1925 aveva deciso infatti di lasciare il suo eremo in Svizzera e di accogliere l'invito a tenere una serie di pubbliche letture in Germania: proprio lui che riconosceva di essere un uomo restio ai viaggi e alle frequentazioni umane», lui che trovava la prospettiva di esibirsi in pubblico «talvolta spaventosa. Non era d'altro canto un momento qualsiasi» «... la vita mi costava un'insolita, eccessiva fatica, e ogni idea di cambiamento, trasformazione, fuga non poteva che essermi gradita». Una fuga, però, da indugiante, meditabondo flâneur, fatta di soste prolungate e deviazioni e incontri con vecchi amici, che lo conduce da Locarno a Zurigo, da Baden alla natia Svevia, da Ulma ad Augusta e a Norimberga, per terminare infine a Monaco, con la visita a Thomas Mann. Un viaggio, «in sé insignificante e fortuito», che diventa una discesa nel passato e nella propria coscienza, e si traduce in un'intensa confessione intima, dove Hesse ci parla dei suoi amori letterari - primo fra tutti Hôlderlin, fatale scoperta infantile - e dell'avversione per il mondo moderno; dell'insofferenza per «la fabbrica culturale» nessuno è più vanitoso, nessuno più assetato di plauso e consenso dell'intellettuale e del penoso fardello della fama - e, quale antidoto alla disperazione, dell'umorismo, «ponte sospeso sopra il baratro fra realtà e ideale».
Nel presentare «ai cittadini e agli amici» la mostra-spettacolo su quel «mistero della Storia» che fu il 1789 e sulle sue «propaggini materiali ed occulte», Guido Ceronetti, insieme agli attori del Teatro dei Sensibili, decise di porre in epigrafe alla sua scelta di testi una frase di Céline: «Tutto quel che è interessante avviene nell'ombra, decisamente. Nulla si sa dell'autentica storia degli uomini». Quelli che seguono non potranno essere quindi che «pensieri in libertà», erratici e spesso contraddittori. Eppure, se (come in certi giochi enigmistici) si uniscono i puntini di questo percorso, si scopre un disegno nascosto, che spalanca altri percorsi, indica altre vie, e invita a fermarsi e a riflettere su ciascuna di queste pagine. Da Hölderlin («Furono cinque estati in cui fu grande,/ Corruscando, la vita...») a Blake («Tigre, tigre, oh bagliore/ Nella notte...»), da Massignon (che vede la Regina martire salire al patibolo «con gesti virili, di Walchiria, di amazzone») al Tao-tê-ching («Il mondo, vaso spirituale, non si lascia plasmare»), passando per Bataille, Bloy, Leopardi, Calasso e molti altri, ritroviamo qui gli «spiriti affini» che hanno costantemente accompagnato il cammino del «filosofo ignoto». E alla fine scopriremo, nella magnifica prosa del Ceronetti traduttore e interprete, l'annuncio dell'«èra messianica» in tredici profezie estratte dalle Centurie di Nostradamus.
«La mia storia d'amore con la rivoluzione è profondamente infelice» scrive Viktor Sklovskij a Gor'kij il 15 aprile 1922 dalla Finlandia, dove era fuggito per evitare l'arresto (si preparava il processo ai Socialisti Rivoluzionari di destra). «Negli allevamenti di cavalli ci sono stalloni che chiamano "ruffiani"... Il ruffiano monta sulla giumenta, lei prima si rifiuta e scalcia, poi inizia a concedersi. A quel punto il ruffiano viene trascinato via e fanno entrare il vero riproduttore... Noi socialisti abbiamo "scaldato" la Russia per i bolscevichi...». È questo l'unico giudizio dei fatti avventurosi e drammatici in cui Sklovskij si trovò coinvolto dopo la Rivoluzione di febbraio. Esperto di mezzi corazzati (nel '14 era entrato nell'esercito come volontario), fu su molti fronti di guerra, in Galizia, Persia, Ucraina. Più di una volta rischiò la vita, venne ferito, vide orrori e assurdità, partecipò a un complotto antisovietico subito fallito... Tutto è raccontato con un linguaggio erratico e digressivo, con impassibile distacco (apátheia, o forse quel meccanismo di «straniamento» che Sklovskij già da anni aveva formulato), in questo volume.
Otto, il protagonista di questo racconto che segnò l'esordio letterario di Márai, è un formidabile, agghiacciante esempio di abiezione spontanea, naturale e ragionevole: uccidere animali in un mattatoio o soldati nemici in guerra non fa una grande differenza per lui, anzi corrisponde a una sorta di vocazione. Che si manifesterà in seguito in una forma brutale. Anticipando la Figura di Moosbrugger, il memorabile criminale dell'Uomo senza qualità di Musil, Márai ha saputo concentrare in un personaggio l'incontenibile sommovimento psichico che condusse alla prima guerra mondiale e devastò gli anni successivi. Ma racconta tutto questo con la pacatezza, lo scrupolo e la concisione di un cronista - come qualcosa che appartiene a una nuova, terrificante normalità.
«Alle cinque ero là, come gli altri giorni... Stavo mandando giù un sandwich, e intanto mi guardavo intorno distrattamente... E a un tratto ho notato una donna che mi osservava sorridendo... «Non sono un dongiovanni, mi creda... Mi è sempre bastata mia moglie... «Ma quella lì... Mi sono subito chiesto che ci facesse in un locale così popolare... Le capita di andare al cinema, no?... Ha presente le dive americane, le vamp, come le chiamano?... «Be', dottore, avevo davanti agli occhi una vamp!...».
Appena arrivati a New York, nei primi anni della guerra, gli ebrei polacchi dicono tutti la stessa cosa: «L'America non fa per me». Ma poi, un po' alla volta, molti ricominciano a «sguazzare negli affari» come pesci nell'acqua. Altri invece, e più di chiunque il protagonista di questo romanzo, girano a vuoto, si barcamenano, vivono alle spalle degli amici ricchi, o delle donne che riescono a sedurre. Di queste ultime Hertz Minsker non può fare a meno: sono «il suo oppio, le sue carte, il suo whisky»; le loro gambe, le loro ginocchia contengono «una sorta di promessa», e lui ha bisogno ogni giorno di nuove avventure amorose, di «nuovi giochi, nuovi drammi, nuove tragedie o commedie». Minsker, che pure è un erudito e ha familiarità con il Talmud e può «recitare poesie in greco antico e in latino», sembra capace solo di finire nei guai, e «da quarant'anni sta lavorando a un libro ma ancora non ha finito neanche il primo capitolo». In genere, però, le catastrofi che provoca, a sé stesso e a chi gli sta intorno, si risolvono in una strepitosa commedia - una commedia alla Lubitsch, con mariti traditi, amanti imbufalite, sedute spiritiche fasulle, crisi di nervi, mercanti di quadri falsi, audaci e fumose teorie edonistico-cabbalistiche...
Sylvie ha diciassette anni ed è bella, procace, con un seno magnifico che eccita gli uomini e che la sera le piace guardare allo specchio, "afferrare a piene mani". Marie, invece, che ha un anno più dell'amica e insieme a lei è stata assunta come domestica alla pensione Les Ondines, è brutta e strabica, timida e un po' tonta; già a scuola, da piccola, le compagne "le giravano al largo, dicendo che il suo sguardo aveva un influsso malefico". Ma, di quello che passa per la testa di Sylvie, Marie intuisce tutto. Sa perché si spoglia davanti alla finestra aperta con la luce accesa, e sa anche che se Louis, il figlio ritardato ed epilettico della vecchia donna di servizio, si è impiccato la colpa è stata di Sylvie. Avida e sensuale, pronta a ogni bassezza per ottenere ciò che vuole, Sylvie lascerà il quartiere miserabile del paesino dov'è nata, e vivrà negli agi. Marie, che appartiene alla razza delle creature "segnate dalla malasorte", affronterà l'esistenza mediocre a cui è destinata. Più di vent'anni dopo le due donne si rincontreranno, a Parigi. Marie sarà di nuovo la schiava adorante di colei che odia, e la aiuterà persino a ereditare i milioni dell'uomo che da anni la mantiene. Ma riuscirà anche, finalmente, a ribaltare i ruoli e a prendersi una crudele rivincita.
«Da sei mesi a questa parte, ogni giorno, di mia spontanea volontà, passo alcune ore davanti al computer a scrivere di ciò che mi fa più paura di qualsiasi altra cosa: la morte di un figlio per i suoi genitori, quella di una giovane madre per i suoi figli e suo marito. La vita ha fatto di me il testimone di queste due sciagure, l'una dopo l'altra, e mi ha incaricato - o almeno io ho capito così - di raccontarle...». Il caso ha infatti voluto che Emmanuel Carrère fosse in vacanza nello Sri Lanka quando lo tsunami ha devastato le coste del Pacifico, e che si trovasse ad accompagnare una giovane coppia di connazionali lungo le penosissime incombenze pratiche necessarie per ritrovare il corpo della figlia di quattro anni; e che, pochi mesi dopo, gli accadesse di seguire un'altra vicenda dolorosa, quella che porterà alla morte per cancro la sorella della sua compagna. C'è un solo modo per ricevere il dolore degli altri: farlo diventare il proprio dolore. Questo è il compito che si assume Carrère, riuscendo a scrivere, senza mai cadere nell'enfasi, ma mettendo a fuoco con la precisione ossessiva di un reporter ogni minimo particolare, uno dei suoi libri più «scandalosi» - e proprio per questo più amati dai lettori.
«Abietto, ridicolo, orrendo, sgradevole, insopportabile, ripugnante, disgustoso, ignobile, abominevole: sono questi gli aggettivi che ricorrono sulla bocca di Reger quando parla del mondo e della vita, della società e degli uomini, della cultura e dell'arte. Sì, anche di quell'arte che egli conosce come pochi, forse come nessuno, e nella quale ha sempre cercato la propria salvezza, ma che anche nelle sue espressioni più eccelse (i "capolavori" dei Grandi Maestri) si è rivelata un rimedio illusorio. "Antichi Maestri" uscì nell'85, quattro anni prima della morte di Bernhard. Come in tutti gli altri suoi libri, anche in questo una cosmica nausea si abbatte come una lava su tutto e su tutti, uomini e istituzioni, cultura e società, e soprattutto sull'universale trionfo del kitsch nel pensiero e nell'arte» (Ruggero Guarini).
Ci sono libri che sembrano sottrarsi a ogni giudizio o classificazione, perché parlano da un luogo così distante che è difficile anche solo individuarne la fisionomia. Sono porte che si aprono su altri mondi - mondi nei quali, senza di loro, ci sarebbe impossibile entrare. Libri come questo, di John M. Hull: una delle più precise e asciutte testimonianze su che cosa significhi quel particolare stato della vita e della coscienza che chiamiamo cecità, scritta in forma di diario da un uomo che non è nato cieco, ma lo è diventato a quarant'anni. Hull però non si limita a raccontare la sua lenta discesa verso la cecità: parte proprio da questa, per arrivare alla sobria descrizione di qualcos'altro, quello che lui chiama «il dono oscuro». Uno stato ultimo e molto raro, dove la mente recide ogni residuo legame con i suoi fantasmi perché li dimentica, diventando incapace anche di tradurre tutte quelle approssimative informazioni che il mondo le invia attraverso gli altri sensi, e non potendo così fare altro, per sopravvivere, che inventare un nuovo linguaggio, o altrimenti sprofondare in sé stessa. «Non esiste, che io sappia, un resoconto altrettanto minuzioso, affascinante (e terrificante) di come non solo l'occhio esterno, ma anche quello "interno" svanisca con la cecità» ha osservato Oliver Sacks. E «se Wittgenstein fosse diventato cieco, avrebbe scritto un libro come questo».
Nella fotografia riprodotta sulla copertina di questo libro, che ritrae Mircea Eliade e Cioran insieme a Parigi, negli anni Settanta, colpisce il contrasto tra le due fisionomie. Un contrasto che sembra rispecchiare la distanza che umanamente e intellettualmente separava i due grandi romeni: il fecondo e ammirato studioso, in grado di maneggiare con scioltezza le concezioni religiose di tutte le culture; e il sulfureo flâneur del pensiero, l’antiaccademico ancorato a poche e lancinanti ossessioni. Da subito, del resto, non erano mancati gli scontri visto che, all’inizio degli anni Trenta, Eliade aveva attaccato Cioran per via della sua tanatologia, che gli faceva prediligere le tenebre e la negazione alla luce e alla creazione; e Cioran, da parte sua, aveva demolito Eliade in un articolo che sin dal titolo aveva tutto il sapore di una sentenza inappellabile: L’uomo senza destino. Ma, dietro le divergenze, si celava anche un’intesa, una complicità che alimentò una fervida, inossidabile amicizia, come testimonia questo volume in cui sono raccolte le lettere che i due si scrissero nell’arco di un cinquantennio, scambiando riflessioni, pareri letterari, impressioni di viaggio, osservazioni politiche, ricordi. Lettere a volte accese da vampate di humour, non senza contraddizioni e paradossi – ma sempre contrassegnate da quella sincerità che spingeva Cioran a confessare: «Benché io provi per te un’infinita e non smentita simpatia, a volte sento il desiderio di attaccarti, senza argomenti, senza prove e senza idee. Ogniqualvolta ho avuto l’occasione di scrivere qualcosa contro di te, il mio affetto è aumentato ».
Non è detto che il turista da banane sia mal vestito, anzi spesso indosserà capi di buon taglio, vestigia di un guardaroba lussuoso.
Sono americani, cechi, tedeschi, francesi... Alcuni hanno conosciuto un momento di gloria, altri si sono limitati a mangiarsi il patrimonio di famiglia o le rendite.
Finché un giorno, quando già erano stufi della mediocrità o spaventati dalla miseria incombente, qualcuno ha detto loro:
« Sulle isole del Pacifico si può ancora vivere come nel paradiso terrestre, senza soldi, senza vestiti, senza preoccuparsi del futuro... ».
Per pagarsi la traversata hanno venduto tutto quello che avevano. Allo sbarco le autorità locali, prudenti e spesso scottate, pretendono a titolo di cauzione il versamento del costo del biglietto di ritorno. Capite?
L’indomani ogni buon turista da banane ha già comprato un pareo e un cappello di paglia intrecciata. Seminudo, sdegnando la città e i coloni che indossano completi bianchi e camicie con il colletto rigido, si dirige di buon passo verso le lunghissime spiagge.