
A Sartre non piacevano "les textes purgés de leur auteurs". Non piacciono neanche a me, che ho sempre lavorato sulle connessioni profonde autore-opera, vissuto-scrittura. Ciò risulta difficile col Manzoni, che è uno scrittore senza io, del tutto privo di appigli psicologici. Con questo libro ho tentato l'operazione, inedita, del collegamento di una condizione nevrotica dichiarata con un'opera che nulla concede alle confessioni intime. La manzoniana angoscia del vuoto diventa ripudio di ogni forma di lirismo soggettivo, anche nei testi in rima, e adozione della prosa come sicurezza di appoggio sul terreno solido del reale e della storia. E così radicale la scelta del reale storico da portare l'autore alla condanna del genere romanzesco, da lui pure portato alla sua massima espressione e, alla fine, al rifiuto, come "cantafavola", del suo proprio capolavoro, per il credito concesso all'invenzione contro il nudo vero. In Manzoni tutto quanto sfugge alle certezze del reale storico, logico e religioso, viene inesorabilmente eliminato (per fortuna i Promessi sposi erano già in salvo).
La morte per un colpo di pistola di un noto primario, nello studio di un Dipartimento universitario di psichiatria, porta all'arresto di un collega della vittima, che da sempre gli è stato oppositore. L'arrestato, infatti, incarna un'idea della malattia mentale e della sua cura opposta a quella dell'ucciso, sostenitore convinto della farmacopsichiatria. Rinchiuso nel supercarcere di S. Gabriele, il mite prof. Apfelbaum, innocente, incastrato in quella vicenda per una serie di circostanze sfavorevoli, si arrovella su chi mai possa essere il colpevole di quell'uccisione, ma non riesce a venirne a capo, malgrado tutte le ipotesi avanzate da lui e da altri.
Un intreccio giallistico racchiude i classici elementi della narrativa di Gioanola: il lavoro della memoria e l'introspezione psicologica, il ritmo del racconto e l'atmosfera dei luoghi
Il narratore della storia è un professore e scrittore tornato a vivere, da pensionato, al paese natale, dove si trova ad affrontare una situazione che lo ripiomba in un passato creduto per sempre sepolto. Una mattina d’ottobre lo risveglia la scampanellata di un vecchio compagno dell’adolescenza, che ha stentato a riconoscere dopo cinquant’anni di oblio. E’ “Gregorio il gregario”, così soprannominato per la passione ciclistica, al tempo di antichi giri d’Italia comicamente commentati da un irresistibile Ugo Tognazzi. Gregorio, che di nome fa Evasio come il santo protettore di Casale Monferrato, gli annuncia la morte improvvisa del suo amico, "capitano" e padrone Umberto De Ambrosis. I due per mezzo secolo hanno vissuto insieme come eremiti sulla collina del Castello, in una solitudine assoluta, chiusi come in un’isola sottratta al tempo in quella dimora un po’ misteriosa, che sta nel bel mezzo del paese ma è circondata da un’ampia campagna. Il professore si stupisce che ci si rivolga proprio a lui, dopo tanta reciproca dimenticanza, ma Evasio dice che questa è la volontà del morto, affidata a una lettera che consegna allo stupefatto pensionato. In realtà lui e Umberto sono stati amicissimi in gioventù, poi le loro strade si erano divise, uno dedito agli studi letterari e alla famiglia, l’altro sempre più chiuso in un suo rigorismo religioso che lo ha portato a vivere come una specie di monaco laico, fino a perdere la nozione del reale e a confinarsi in una quieta follia. Di tale esaltazione mentale è parte integrante la passione per la bicicletta e per Fausto Coppi, per il quale ha edificato un vero e proprio santuario nel suo castello, dove ha vissuto, sino al decesso, con l’amico e subalterno Gregorio.
Trattandosi di una morte improvvisa, vengono interessate le autorità preposte, tanto più che c’è stata nottetempo l’effrazione di una finestra del Castello. Il morto, inopinatamente, ha nominato l’antico amico, diventato poi per lui una specie di nemico immaginario, suo esecutore testamentario e, in questa veste, egli si incarica di tutte le incombenze del caso, ma si fa anche carico delle ricerche intorno a quella morte misteriosa. Da qualche tempo al Castello, dove nessuno ha mai messo piede, si è materializzata una presenza diabolica, in figura di una donna-fattucchiera che ha stregato e sedotto Evasio: Umberto ha intuito l’accaduto e lo ha vissuto come un atto di profanazione e sconsacrazione. Di qui alla sua morte è un passo, ma come davvero siano andate le cose il racconto lo rivela solo alla fine.
Il romanzo coniuga memoria e meditazione esistenziale, passioni e astratti furori giovanili, riflessioni sul religioso e nostalgie per luoghi e incontri di un lontano passato, tutto però affidato ad un vivace ritmo narrativo e alle risorse di un intreccio che tiene desta la curiosità fino alla conclusione della vicenda.
"Le voci della sera" è un breve romanzo del 1961, scritto durante il soggiorno londinese della Ginzburg e alla vigilia del ritorno in Italia. Con uno stile spoglio, fedele al rigore delle notazioni oggettive, la scrittrice esprime in questo romanzo il senso delle storie familiari, la presenza dei vecchi, il crescere doloroso dei giovani, l'allacciarsi e il mutare degli amori e delle amicizie. Della taciturna ragazza che scrive in prima persona il lettore soffre le speranze e le delusioni senza una riga di commento o giudizio o introspezione. L'introduzione è firmata da Italo Calvino. L'edizione è corredata da un apparato comprendente le notizie sul testo, un'antologia critica, una bibliografia e una cronologia della vita e delle opere.
La solitudine dell'infanzia e lo stupore della vecchiaia, i film visti e i libri letti, il lavoro, la musica lirica (il titolo è tratto dal libretto del Lohengrin), la politica, il credere o il non credere in Dio: i brevi saggi qui raccolti somigliano alle pagine di quel diario che l'autrice dichiarava di non essere mai riuscita a tenere. Di certo sono vicini, per affinità tematica e sapienza di racconto, a "Lessico famigliare" e, come altrove nell'opera di Natalia Ginzburg, sono inseparabili dalla vocazione del narrare di sé. Nella loro casualità, nel loro placido disordine quotidiano, affrontano questioni che appartengono a ciascuno di noi. Singolare autoritratto di donna, "Mai devi domandarmi" diventa cosi un'esperienza familiare, un oggetto destinato a farci compagnia giorno dopo giorno. L'edizione è corredata da un saggio di Domenico Scarpa e da un apparato comprendente le notizie sul testo, un'antologia della critica, una bibliografia e una cronologia della vita e delle opere. Introduzione di Cesare Garboli.
Trentasette testi - in massima parte mai raccolti prima d'ora - che restituiscono, lungo più di mezzo secolo, gli itinerari di una tra le più belle voci del Novecento italiano. Realizzato con mezzi che sembrano poverissimi, ogni racconto di Natalia Ginzburg è una rivelazione, una vicenda che scorre su più nastri, che imperturbabile va addizionando gesti, oggetti e battute di dialogo, che si toccano per vie segrete e non si dimenticano. Il mezzo capace di fare accadere tutto questo è la voce, ruvida, duttile, scontrosamente intonata, di una narratrice che si è rivelata infallibile nel descrivere la realtà. E "Un'assenza" è la storia di questa voce nel suo lungo percorso. I lettori vi scopriranno ben undici racconti finora ignoti, una suite autobiografica in cui la Ginzburg racconta di sé senza trarsi in disparte, e sorprendenti cronache dalle fabbriche di Torino o dalla desolazione di Matera. S'imbatteranno in "Memoria", una poesia scritta per il marito Leone Ginzburg, e nel "Discorso sulle donne": due testi da rileggere, da ripensare, da custodire.
"Non possiamo saperlo" raccoglie scritti di letteratura e di cinema, ricordi di amici scomparsi, pronunciamenti su questioni morali come l'aborto, il coraggio o la paura, il credere in Dio, i cattivi usi del linguaggio, infine gli interventi politici legati all'impegno parlamentare di una persona che sosteneva di non avere una mente politica. L'opera non narrativa di Natalia Ginzburg è tutta fondata sul sapere del corpo, un'intelligenza oscura che illumina i suoi interrogativi e imperativi morali. Grazie a questa facoltà è possibile conoscere i suoi pensieri sul "Salò" di Pasolini o sui "Sillabari" di Parise, sulle persone che furono Calvino, Flaiano, Levi e Penna, sulla nostalgia per un secolo diverso o sull'aldilà.