
Scritto tra il 1954 e il 1956 dopo un soggiorno in Kenya e poi abbandonato da Hemingway (che riprese a lavorarci solo prima della morte) "Vero all'alba" è un romanzo autobiografico che narra la storia di un safari in un paese africano. Vent'anni dopo l'esperienza raccontata in "Verdi colline dell'Africa", Hemingway descrive un paese che trova molto cambiato. Odori e colori del continente nero, descrizioni di caccia grossa e della rivolta dei Kikuyu contro i proprietari terrieri bianchi, si alternano con la storia d'amore che lega il narratore a una ragazza Wakamba. Conservato per anni nell'archivio delle opere non consultabili della Kennedy Library di Boston, il manoscritto è stato recuperato dal figlio che ne ha curato l'edizione.
Il romanzo, scritto nel 1926 a Parigi, segna la rottura dell'autore con Sherwood Anderson, uno degli scrittori che più influenzarono la sua formazione propugnando la ribellione alle regole strutturali della narrativa americana. Ma mentre Anderson non era riuscito, distrutte le regole, a costruire nelle sue opere alcun disegno coerente, Hemingway seppe trovare una nuova tecnica formale. E in questa feroce satira riecheggia grottescamente tutti i più tipici motivi andersoniani.
Composto febbrilmente tra il 1928 e il 1929, "Addio alle armi" è la storia di amore e guerra che Hemingway aveva sempre meditato di scrivere ispirandosi alle sue esperienze del 1918 sul fronte italiano, e in particolare alla ferita riportata a Fossalta e alla passione per l'infermiera Agnes von Kurowsky. I temi della guerra, dell'amore e della morte, che per diversi aspetti sono alla base di tutta l'opera di Hemingway, trovano in questo romanzo uno spazio e un'articolazione particolari. È la vicenda stessa a stimolare emozioni e sentimenti collegati agli incanti, ma anche alle estreme precarietà dell'esistenza, alla rivolta contro la violenza e il sangue ingiustamente versato. La diserzione del giovane ufficiale americano durante la ritirata di Caporetto si rivela, col ricongiungimento tra il protagonista e la donna della quale è innamorato, una decisa condanna di quanto di inumano appartiene alla guerra. Ma anche l'amore, in questa vicenda segnata da una tragica sconfitta della felicità, rimane un'aspirazione che l'uomo insegue disperatamente, prigioniero di forze misteriose contro le quali sembra inutile lottare.
Pubblicato nel 1926, "Fiesta" è il libro che ha consacrato il suo autore ventisettenne tra i più importanti scrittori americani della "generazione perduta". Basato su una materia ampiamente autobiografica (i viaggi compiuti da Hemingway con la moglie e alcuni amici in Spagna a partire dal 1923), il romanzo narra le vicende di un gruppo cosmopolita di giovani espatriati, con le loro burrascose inquietudini esistenziali e sentimentali. In queste pagine lo scrittore raggiunge uno stile già maturo, calibrato tra cronaca e poesia, asciutto, essenziale, con dialoghi che riescono a mettere a nudo l'anima dei suoi personaggi, e a infondere loro la vita.
Un venerdì mattina del 1946, in completo beige, camicia bianca e cravatta azzurra, Harry Copeland esce di casa sua, al 333 di Central Park West a New York. È una splendida giornata, e trovarsi a New York in una giornata simile dista un niente dalla sensazione di essere innamorati. Gli alberi fioriscono come nubi luminose nei parchi, e pennacchi di fumo e vapore si levano verso l'azzurro o si arricciano al vento. Harry è appena tornato dalla guerra senza sapere che cosa avrebbe trovato in patria. Dopo aver combattuto per mare, per terra e in cielo, dovrebbe sistemarsi, mettere su famiglia, ma non è ancora accaduto niente e tutto sembra uguale a prima: metropolitane, ristoranti, telefonate, conti da pagare. A Staten Island trascorre un paio d'ore seduto al sole nel giardino a picco sul mare di sua zia Elaine, vedova dell'unico fratello di suo padre, poi al ritorno, sul traghetto che lo riporta a South Ferry, si imbatte di nuovo nella giovane donna dalla struggente bellezza intravista da lontano all'andata, mentre incedeva sul ponte con la schiena diritta e la testa alta. Nella penombra dei pilastri e delle palizzate di legno, Harry si accorge di come ogni suo particolare lo colpisca irrimediabilmente al cuore: la grazia con cui si muove o rimane ferma; le mani e il modo in cui le tiene; le forme in cui le sue dita si compongono; la camicetta che indossa con un ricamo perlaceo elaborato ma sobrio; persino le pieghe della gonna; e la voce che, nitida, si sofferma su ogni sillaba.
Peter Lake è un ladro. Un ladro nella Manhattan dei primi del Novecento in cui la guerra tra bande regala ogni mattina un mucchio di cadaveri a Five Points sul fronte del porto e in luoghi insoliti come campanili, collegi femminili e magazzini di spezie. Peter lavora in proprio, e perciò non interessa più di tanto alle forze dell'ordine sguinzagliate contro il grande crimine. Sta particolarmente a cuore, invece, ai Coda Corta, una dozzina di sgherri guidati dal feroce Pearly Soames. Pearly ha occhi lucidi e argentei simili a lame di rasoio e una cicatrice che gli solca il viso dall'angolo della bocca all'orecchio. È un criminale e, come tutti i criminali, vuole oro e argento, ma non per amore della ricchezza alla maniera di volgari rubagalline. Li vuole perché brillano e sono puri. Affascinato dai colori, legge i giornali e i cataloghi delle aste, e capeggia i Coda Corta giusto per trafugare opere d'arte "degne di lui", importate dall'Europa a bordo di lussuosi panfili. Il campo di manovra è troppo ristretto e la posta in gioco troppo alta perché Pearly Soames possa tollerare la presenza di Peter Lake a Manhattan. Avvezzi come sono all'omicidio e alla corruzione, i suoi Coda Corta l'avrebbero eliminato da un pezzo, se il ladro non avesse un prezioso alleato: un cavallo che sembra una statua eroica, un enorme monumento bronzeo, capace di balzi strabilianti, voli di sei metri di lunghezza e due e mezzo di altezza. Dal romanzo è stato tratto, nel 2014, il film omonimo diretto da Akiva Goldsman.
Il mondo come lo conosciamo non esiste più: l'umanità è stata decimata da una febbre globale e fatale. Hig è uno dei pochi sopravvissuti. A bordo di un vecchio Cessna, un cane come copilota, presidia volando un pezzo d'America che una volta si chiamava Colorado, più deserto di quanto non sia mai stato ma incredibilmente bello nella sua selvaggia desolazione. A terra lo aspetta il suo socio Bangley, che difende il loro territorio e le loro provviste sparando a vista su chiunque si avvicini. Hig no, lui non spara: lui è diverso. Nell'epidemia ha perso la moglie; non piange da anni; solo la pesca, la caccia, il ritrovato legame con la natura lo tengono in vita. E l'affetto per il cane Jasper, compagno silenzioso e sereno. Ma nel mondo alla fine del mondo non ci sono certezze. Si può perdere in una notte anche il poco che si possiede. Solo il desiderio di volare salva Hig da se stesso e lo porta a scoprire dentro un canyon un Eden abitato da un vecchio e da sua figlia: allevano animali, coltivano un orto. Un'oasi che accoglie Hig e lo consola. Eppure anche quel minuscolo paradiso corre rischi.