
Dal tetto di un teatro in un porto africano un uomo contempla la città. Ai suoi piedi, sdraiato su un materasso sporco, c'è Nelio, bambino di strada e profeta. Ha solo dieci anni, ma la saggezza di un vecchio. Chi è Nelio? Da dove viene? Chi è stato a sparargli dal palcoscenico vuoto? E perché? Nove notti: è il tempo che serve a Nelio per raccontare la sua storia, la storia di un bambino africano, in un paese funestato dalla guerra civile. Ferito da un colpo d'arma da fuoco, sa che morirà non appena il racconto sarà finito.
In una fredda giornata di gennaio, la polizia di Hudiksvall, nella Svezia centrale, scopre un orribile massacro: in un villaggio vicino alla foresta, diciannove persone sono state trucidate. Sembra il gesto di un folle. Quando a Helsingborg il magistrato Birgitta Roslin legge della strage, si rende conto che tra le vittime ci sono persone a lei molto vicine, e decide di occuparsi del caso. Il ritrovamento di un nastro di seta rossa la porta a Pechino, dove la scoperta di un diario la trascinerà indietro nel tempo, svelandole una terribile storia di schiavitù e soprusi. Coinvolta in un diabolico gioco politico, Birgitta dovrà confrontarsi con la brutalità del capitalismo selvaggio e dei nuovi potenti nella Cina di oggi, pronti a rivendicare il loro posto sulla scena internazionale.
Facendo tesoro delle conoscenze tradizionali della sua gente e applicandole al cuore stesso delle complesse problematiche che distruggono il pianeta e ci affollano la mente, Manitonquat porta all'apice l'arte nativa del raccontastorie, svelando con passione e ritmo le dinamiche che ci imprigionano e le dinamiche che potrebbero liberarci. La storia, le tradizioni e le profezie dei Wampanoag e di altri popoli nativi prendono così nuova vita, esprimendo i più universali valori umani e offrendo soluzioni pratiche ai problemi che attanagliano uomini e donne di ogni età, cultura e classe sociale.
Ceylon, inizi del Novecento. Una giovane viene data in sposa a un uomo malese molto più vecchio di lei che per averla si finge ricchissimo. La ragazza è costretta a seguirlo in Malesia e scopre che l'uomo, tra l'altro bruttissimo, è solo un modesto impiegato e vive in povertà. Da quel momento sarà lei la vera "colonna" della famiglia, sia moralmente che economicamente. Malese, ma residente in Inghilterra, laureata in economia, Rani Manicka firma questa saga femminile ambientata nel cuore esotico della sua terra natale.
Un biglietto anonimo legato alla zampetta di un colombo viaggiatore: non è la richiesta di aiuto di un naufrago né lo scherzo di un animalista burlone, tanto più che riuscire a catturare uno di questi intelligenti animali non è cosa da poco né alla portata di tutti. Le indicazioni del messaggio portano Federico, brillante studente di etologia nonché proprietario del colombo, fino al cadavere di un uomo ucciso con brutalità nella propria casa. Unici segni particolari: una cesta per colombi infilata sulla testa del morto e il riferimento, nel biglietto, a dei semi usati come mangime che solo gli esperti possono conoscere. Per fortuna Federico può contare sul suo prof, maestro nella scienza degli animali e nella vita. Insieme possono cercare di capire che cosa sta cercando di comunicare l'assassino. Perché la polizia, classicamente, brancola nel buio, mentre l'omicida continua a colpire e a lasciare i suoi indecifrabili messaggi. L'indagine punta il dito sull'ambiente degli appassionati di colombi e dei loro circoli di incontro. In particolare finiscono sotto esame quei circoli dove si organizzano le gare di viaggio tra i migliori esemplari; un ambiente apparentemente innocente, finché non si scopre l'entità degli interessi economici coinvolti. Per Federico e il professore, consulenti scientifici a fianco della polizia, inizia così un viaggio nel mondo familiare dei colombofili e in quello ben più inquietante di una mente criminale.
“È la morte di quell’uomo ad attrarla, Terradillos? È l’immagine, la stessa che continua ad alimentare i miei incubi malgrado non l’abbia vista con i miei occhi, di Bevilacqua disteso sul marciapiede, il cranio a pezzi, il sangue che scorre giù, verso il tombino, come se volesse fuggire dal corpo inerte, come se non volesse aver parte in quell’abominevole crimine, in quella fine così ingiusta, così inaspettata? È questo che cerca?”
Una domenica mattina il cadavere di Alejandro Bevilacqua viene trovato, per strada, riverso nel sangue. Ma perché e come sia morto, a distanza di trent’anni, non è ancora del tutto chiaro. Si è gettato dal balcone di quella casa di Madrid, così come lascia intendere la pratica archiviata della polizia, o in quell’appartamento è successo qualcosa? Qual è la verità e come si può scoprirla partendo dall’assunto che, come recita il Libro dei Salmi, tutti gli uomini sono bugiardi e che non sempre il tradimento è mancanza di lealtà? E chi è, e chi è stato, Alejandro Bevilacqua?
A questi interrogativi cerca di rispondere un giornalista francese che per ricostruire la vicenda ascolta le testimonianze di chi ha conosciuto quell’Alejandro Bevilacqua ormai intrappolato nell’etichetta di romanziere argentino suicida: il confidente, l’amante, il compagno di prigionia nelle celle di Buenos Aires, l’esule delatore e, attraverso le loro parole, altri personaggi che si muovono nella Madrid della fine degli anni settanta, ancora oscura e grigia, rifugio e speranza per i dissidenti latinoamericani. Quella che emerge dall’inchiesta è la figura di un uomo che è contemporaneamente molti uomini, inafferrabile, indefinibile, inconoscibile.
Tutti gli uomini sono bugiardi è un romanzo storico, poliziesco e metaletterario, un “giallo dell’identità” carico di tensione, dove Manguel gioca con la letteratura e con se stesso. Un grande romanzo sudamericano sulla verità e sulla finzione.
Nel 1964 Alberto Manguel, all'epoca sedicenne, lavorara in una celebre libreria anglotedesca di Buenos Aires, dove ogni pomeriggio passava Jorge Luis Borges, di ritorno dalla Biblioteca Nazionale. Un giorno lo scrittore, ormai cieco, chiese al giovane se fosse disposto a leggere per lui la sera. Manguel accettò e in questo libro racconta, con una passione tenuta a freno da un'affabile discrezione, l'ammaliante ironia di Borges, la sua passione per le epopee, per le saghe anglosassoni, Omero, i film gangster, i western, i romanzi polizieschi, la lingua tedesca e la mitologia dei bassifondi di Buenos Aires, le enciclopedie, le tigri e West Side Story, la repulsione per Proust, Mann, Tolstoj e Pirandello.
Amore elettrico è l’opera prima di un medico siciliano che attualmente esercita la professione in Lombardia. Il romanzo ripercorre, intrecciata alla tormentata storia d’amore con una giovane collega, la vicenda di Marcello, affetto sin da piccolo da epilessia, malattia con la quale convive conflittualmente fino a quando, ormai adulto, riuscirà a guarirne. La narrazione ha come doppio sfondo la Sicilia e la città di Milano, ambedue amate allo stesso modo dal protagonista: la prima con i suoi paesaggi incantati e solari e il suo ritmo lento e torpido, la seconda alacre e frenetica, con i suoi rigori e le sue brume. In filigrana, si legge un messaggio di speranza per tutti coloro che, come Marcello, lottano per uscire dal tunnel di una devastante malattia qual è l’epilessia e più in generale un invito a non demordere mai di fronte alle difficoltà della vita.
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Più che un ragazzo, Pietro è un anti-principe: abiti sciupati, temperamento logorroico, famiglia bizzarra, ritardo cronico, imprevedibilità, mani bucate... Marcella, che all'opposto è laureata in Matematica e legata a schemi mentali prevedibili, deve far la scelta più importante della sua vita: scommettere o meno se il corteggiatore stravagante sia proprio l'uomo per sempre. Dopo due anni d'incontri fatti di imprevisti, tra Milano e l'Emilia, la protagonista deve ammettere di sentirsi a suo agio solo con lui, come in un paio di scarpe comode. E allora - davanti all'alternativa di continuare a rincorrere il modello d'uomo perfetto - fa la scelta che ogni altra ragazza avrebbe fatto al suo posto: opta con decisione per le scarpe. Un interno familiare realistico e frizzante. Con scrittura umoristica l'autrice tratteggia da punti di vista inusuali le diversità tra maschile e femminile. Protagonisti del racconto sono due giovani che trovano il coraggio di metter su casa, famiglia e figli. E nel quotidiano rapportarsi, si fissano sulla pagina due particolareggiatissimi ritratti di una lei e di un lui che, mettendo in comune prima i sogni e le speranze, poi la vita stessa, si scoprono complementari. Vivono felici perché giorno dopo giorno riconoscono l'uno nell'altra non certamente il Principe e la Principessa delle fiabe, ma quell'unicità della persona amata che la rende speciale rispetto a tutte le altre.
C'è stata l’ultima volta in cui sono scesa dallo scivolo di un parco giochi, senza sapere che fosse l'ultima. Allo stesso modo, c'è un'ultima volta in cui parli a un genitore, ma quando accade non puoi sapere che proprio quella sarà l'ultima. In pochi mesi la routine di Agata, fra Grande Città — alle prese con il marito in crisi di mezz'età e tre adolescenti indomabili —e il Paesello d'origine dei genitori, viene sconvolta: mamma e papa sono deboli, malati, da accudire senza sosta.
Tra referti e Tac, minestrine e lambrusco, camere d'ospedale e tramonti sullo skyline cittadino, Agata attinge a tutte le sue risorse per affrontare gli imprevisti. Lei che pensava di riordinare la vita come una casa di design dopo il trasloco.
Con ostinazione e humor, la protagonista cerca percorsi di crescita in un tunnel di dolore, per scoprire infine la forza della tenerezza. E del gelato
Marcella Manghi Catania (Parma, 1974) dopo una laurea in Matematica e un master in International Management, ha sposato Pietro e ha dato alla luce tre figli e diversi libri: Ventinove colazioni (2020), Mamma mongolfiera (2018) e, per le Edizioni Ares, Qualcosa di diverso (2013) e Via col tempo (2009). Scrive per 11 quotidiano online ilSussidiario.net e Italians, la sezione del Corriere della Sera a cura di Beppe Severgnini.
Un romanzo che intreccia la storia di dieci donne del popolo vissute oltre settant'anni fa in un borgo toscano. Sono donne che l'autore ha voluto far risorgere. I loro mariti - operai, carbonai, fabbri, stagnini, fornai, muratori stanno in secondo piano, perché sono le donne che vivono l'intera giornata nelle case del borgo. Erano case? Era vita, quella? "Non chiamatele case" - vengono a raccontarci - "sono quelle dei Casalini, sopra le balze, appiccicate le une accanto alle altre, le une rette dalle altre. E ditelo voi se è stata vita, la nostra". Sono loro - Lina, Melita, Corrada, Sofia, Marianna e tante altre - a fare la storia del borgo, con i loro patimenti, le loro illusioni, le loro speranze attese e troppo spesso negate. L'autore le ha fatte risorgere, ma sono loro stesse che dicono alle donne di oggi: "Anche noi siamo parte integrante della vostra storia. Siamo le donne dalle lacrime asciutte: quelle che piangevano dentro".