
In questa raccolta la Munro conferma le sue qualità narrandoci una manciata di esistenze dove avvenimenti inattesi o particolari dimenticati modificano il corso delle cose. Una cameriera dai capelli rossi, nuova arrivata in una vecchia dimora, viene per caso coinvolta nello scherzo di una ragazzina. Una studentessa universitaria si reca per la prima volta in visita a un'anziana zia e, riconoscendo un mobile di famiglia, scopre un segreto di cui non era a conoscenza. Una paziente giovane e in fin di vita trova un'inaspettata speranza di proiettarsi nel futuro. Una donna ricorda un amore brevissimo e che tuttavia ha modificato per sempre il suo vivere.
"Le tredici storie che compongono la seconda raccolta di Alice Munro, pubblicata nel 1974 e ora per la prima volta in Italia, sono accomunate in larga misura da uno sguardo retrospettivo sulle cose e da riflessioni postume su un passato che tramanda i suoi misteri senza risolvere rancori, gelosie e amori complicati e cattivi. Gli anni non possono spegnere gli incendi della giovinezza, i quali continuano imperterriti a consumare l'ossigeno delle relazioni. Quella tra le due sorelle Et e Char, per esempio, avvinghiate l'una all'altra dal risentimento non meno che dall'affetto, dall'invidia dell'una per la luminosa e invincibile bellezza dell'altra, dal ricordo di piombo di un fratellino annegato, e dalla loro futile rivalità sentimentale. O la danza macabra fitta di tradimenti e amarezze fra la narratrice del racconto 'Dimmi se sì o no' e il suo amante, al quale la donna si rivolge, ora che il caso l'ha messa in contatto con una lancinante verità su di lui. E nel solco delle relazioni difficili, in bilico tra generosi silenzi e slanci superflui, si colloca pure il racconto 'Cerimonia di commiato', nel quale la morte di un figlio adolescente riporta dopo anni sotto lo stesso tetto due sorelle, madre e zia del ragazzo, senza tuttavia riuscire a produrre un autentico riavvicinamento. Su tutte queste relazioni dilaga naturalmente l'acqua torbida e scura del rapporto tra madre e figlia del racconto finale, 'L'Ottawa Valley', costruito come una sorta di album di famiglia per viaggi paralleli nel passato." (Susanna Basso)
Cosa accade quando una donna decide di assecondare la sua passione e seguire l'uomo che ama, ma dimentica le sue figlie? Oppure quando sceglie di inseguire il sogno di giorni piú felici aggrappandosi alle lettere scritte a uno sconosciuto? Quanto resta dei tanti anni di gioia passati insieme alla propria moglie, se lei ne sta perdendo lentamente il ricordo? Le domande a cui rispondono le storie di Alice Munro lasciano sempre pieni di dubbi. E piú passa il tempo piú si fanno semplici, come se avesse ormai capito la formula per distillare in purezza l'esistenza senza complicarla. Perché le sue domande sono quelle che ciascuno si pone nel corso di una vita. All'apparenza facilissime, rivelano invece tutta la grazia di cui sono capaci gli esseri umani, le scelte fatte e non fatte, le cose prime e quelle ultime con cui ognuno di noi deve fare i conti.
"I misteri di Madrid" costituisce una sorprendente eccezione nell'opera di Antonio Muñoz Molina. Gli appassionati di questo grande scrittore spagnolo vi scopriranno un lato insospettato della sua vena: una felicissima ironia, un gusto sottile del divertissement, una prospettiva narrativa che evoca Boccaccio. La vicenda di Lorencito Quesada, corrispondente di un piccolo giornale di provincia nella ancor più provinciale cittadina di Mágina che, a seguito del furto di un crocifisso veneratissimo nella regione, viene spedito ad indagare nella tentacolare Madrid dei giorni nostri non ricorda forse le disavventure di Andreuccio da Perugina? E come non pensare al Boccaccio di frate Cipolla quando le indagini di Quesada lo portano all'interno dell'incredibile mondo del collezionismo di reliquie religiose? Ma questi sono solo l'inizio e la fine del romanzo: tra questi due termini, si muove infatti un turbine di indimenticabili personaggi, dal famoso cantante popolare, alla bellissima Olga, conturbante ballerina di sexy-bar laureata in psicologia, a Pepín Godino, provinciale come Quesada, ma che a Madrid si dà il tono dell'uomo di successo. Filtrati dagli occhi ingenui di Lorencito, che insegna catechismo e che per giustificare la sua assenza alla madre adduce la sua partecipazione ad un Congresso Eucaristico, i protagonisti di questo affresco corale ci aiutano a scoprire la dimensione della follia della nostra civiltà urbana e di un paese in bilico tra tradizionalismo e supposta modernità.
Un viaggio fa da sfondo alle vicende narrate dai due protagonisti che s'incontrano in un treno: Elyas, il prototipo del commerciante furbastro, più profondo di quanto vuole apparire, e Mansùr, l'emblema dell'intellettuale mediorientale costretto a lasciare il suo paese per motivi politici. Nella prima parte è il cristiano Elyas a evocare nel suo racconto i ricordi di una vita difficile, ma la sua è una storia piena di inquietudine verso una società che lo ha sempre osteggiato. Nella seconda parte è il musulmano-laico Mansùr a meditare sulla vita, sugli amori e sul viaggio che lo porterà a misurarsi con altri mondi. Una storia d'amicizia che permette di affrontare il tema rapporto tra storia e politica, tra potere e sopraffazione nel mondo arabo.
Rafael e Gardo, quattordici anni, vivono nel quartiere-discarica di Behala, in una città non precisata del Terzo Mondo. Passano le giornate a smistare rifiuti per venderli a peso. Finché Rafael trova un borsello in mezzo all'immondizia: dentro ci sono tanti soldi, una carta d'identità, una mappa e una piccola chiave. La polizia si fa avanti: sembra disposta a tutto pur di recuperare la borsa. Se è così importante, pensano i ragazzi, vale la pena di scoprire cosa c'è sotto. Così, con una buona dose di scaltrezza e parecchio sangue freddo, cominciano a indagare... Età di lettura: da 13 anni.
“Di notte, da sessant’anni, cerco di ricordarmi gli oggetti del Lager. Sono il contenuto della mia valigia notturna. Dal mio ritorno a casa la notte insonne è una valigia di pelle nera. E questa valigia è nella mia fronte.”
Gennaio 1945, la guerra non è ancora finita: per ordine sovietico inizia la deportazione della minoranza rumeno-tedesca nei campi di lavoro forzato dell’Ucraina. Qui inizia anche la storia del diciassettenne Leopold Auberg, partito per il Lager con l’ingenua incoscienza del ragazzo ansioso di sfuggire all’angustia della vita di provincia. Cinque anni durerà poi l’esperienza terribile della fame e del freddo, della fatica estrema e della morte quotidiana. Per scrivere questo libro Herta Müller ha raccolto le testimonianze e i ricordi dei sopravvissuti e in primo luogo quelli del poeta rumeno-tedesco Oskar Pastior. Avrebbe dovuto essere un’opera scritta a quattro mani, che Herta Müller decise di proseguire da sola dopo la morte di Pastior nel 2006. È infatti attraverso gli occhi di quest’ultimo, quelli del ragazzo Leo nel libro, che la realtà del Lager si mostra al lettore. Gli occhi e la memoria parlano con lingua poetica e dura, metaforica e scarna, reale e nello stesso tempo surreale – come la condizione stessa della mente quando il corpo è piagato dal freddo e dalla fame. Fondato sulla realtà del Lager, intessuto dei suoi oggetti e della passione, quasi dell’ossessione per il dettaglio quale essenza della memoria e della percezione, L’altalena del respiro è un potente testo narrativo, una grande opera letteraria.
L’opera è composta da diciannove capitoli, diciannove quadri strettamente correlati. Tutto inizia con l’inquietante tensione de L’orazione funebre, che ci fa entrare nella vita di una bambina sveva che assiste al funerale del padre. Ne Il bagno svevo conosciamo tutta la famiglia: il bambino più piccolo, la madre, il padre, la nonna, il nonno, che approfittano dello stesso bagno caldo, dello stesso sapone, per lavarsi, uno dopo l’altro, per poi tutti insieme sedersi a vedere il film del sabato. Completa il quadro La mia famiglia, dove l’autrice approfondisce ognuno dei personaggi e traccia il loro albero genealogico. Queste tre prime scene sono il preambolo di Bassure, il capitolo più lungo, dominato dalla ricchezza lirica della prosa e l’iridescenza poetica dei pensieri. La natura si fa protagonista, con i fiori, le acacie, le mosche, i maiali, le rane, i gatti e un’infinità di elementi e personaggi che vanno a formare il quadro più colorito dell’opera, per manifestare la sofferenza, l’isolamento e l’abbandono in cui versano la sua famiglia e il villaggio svevo. Per essere ancora più chiara, la bambina racconta il lavoro del padre in Pere marce. La ritroviamo mentre balla in Tango soffocante e, convertita in adolescente, balla anche ne La finestra. Apparirà ne L’uomo con la scatola di fiammiferi. Racconta le vacanze dei genitori al mare, parla della sua solitudine, della successione dei dittatori, degli assassini della mafia, fino a descrivere in un Giorno feriale la sua vita in fabbrica.
"Sono convocata. Giovedì alle dieci in punto." Una giovane donna senza nome, in una città rumena, un appuntamento obbligato e temuto con i servizi segreti del regime di Nicolae Ceausescu. Durante il tragitto in tram per presentarsi all'interrogatorio, immagini e figure della vita attraversano la mente della protagonista: l'infanzia in una cittadina di provincia e il desiderio semierotico da lei provato per il padre, il primo matrimonio con un uomo che "non era capace di picchiarmi e perciò si disprezzava", i racconti strazianti del nonno sulla deportazione. E poi la giovane amica Lilli, uccisa da una sentinella alla frontiera con l'Ungheria mentre tentava di fuggire dal paese; e Paul, le sue giornate e le sue notti trascorse fin troppo spesso nell'alcol, ma anche i momenti di felicità vissuti insieme a lui, come bagliori fuggevolmente accesi. Tutto si affaccia alla memoria e si intreccia al presente, agli interrogatori e alle vessazioni, all'angoscia quotidiana e agli stratagemmi con cui il pensiero cerca tenacemente di non soccombere. Con questo romanzo Herta Müller ci offre un'esplorazione toccante e magistrale su come la dittatura arrivi a impadronirsi di ogni fibra dell'umano.
Una conversazione che è quasi un romanzo, un'autobiografia che sorge in un dialogo con un'interlocutrice sensibile e discreta. Quando Herta Müller parla di sé e delle esperienze che l'hanno formata, sono subito presenti le immagini, i motivi stessi della sua narrativa che il lettore non mancherà di cogliere. E questi accompagnano il racconto di un'infanzia in un villaggio del Banato rumeno, osservato dagli occhi di una bambina che crea per sé fantastici mondi paralleli, prima di approdare al mondo parallelo per eccellenza che è la scrittura. C'è poi la vita nella dittatura di Ceausescu e nella soffocante ombra dei suoi servizi segreti, cui segue l'emigrazione a Berlino Ovest verso la fine degli anni ottanta. Dall'infanzia solitaria nella campagna rumena al premio Nobel nel 2009, "La mia patria era un seme di mela" racconta la parabola di una vita vissuta nella letteratura e in un'inflessibile sincerità delle parole.
"Ogni vita umana è come uno schiaffo del vento." Così cantava Maria Tanase, la grande interprete rumena che la dittatura volle censurare ma la cui voce non poté spegnere nel cuore della gente. Alla verità di queste parole, alla violenza di un secolo e ai suoi totalitarismi, alla propria esperienza di vita e di scrittura sono dedicati i saggi qui raccolti, che Herta Müller ha scritto nel corso degli ultimi anni e fra i quali è compreso anche il discorso pronunciato dalla scrittrice in occasione del conferimento del premio Nobel nel 2009. Alla lettura intensamente personale dell'opera di autori e artisti, da Elias Canetti al poeta e amico Oskar Pastior, da Emil Cioran a Maria Tanase e altri, si affiancano testi in cui il racconto su di sé è sempre anche l'accusa di ogni collaborazione all'abuso e alla violenza. Ed è nello stesso tempo un profondo scavo nel rapporto fra la percezione e la parola, dal quale sorge una poesia di così dura bellezza. Politica, raffinata riflessione letteraria e sulla scrittura, autobiografia: qui tutto nasce dal medesimo nervo, bruciante e scoperto. Poiché, come scrive l'autrice: "Io non devo una sola frase alla letteratura, bensì all'esperienza vissuta. A me stessa e soltanto a me, perché voglio poter dire quel che mi circonda".
Gennaio 1945, la guerra non è ancora finita: per ordine sovietico inizia la deportazione della minoranza tedesca rumena nei campi di lavoro forzato dell'Ucraina. Qui inizia anche la storia del diciassettenne Leo Auberg, partito per il lager con l'ingenua incoscienza del ragazzo ansioso di sfuggire all'angustia della vita di provincia. Cinque anni durerà l'esperienza terribile della fame e del freddo, della fatica estrema e della morte quotidiana. Per scrivere questo libro Herta Müller ha raccolto le testimonianze e i ricordi dei sopravvissuti e in primo luogo quelli del poeta rumeno tedesco Oskar Pastior. Avrebbe dovuto essere un'opera scritta a quattro mani, che Herta Müller decise di proseguire e concludere da sola dopo la morte di Pastior nel 2006. È infatti attraverso gli occhi di quest'ultimo, e cioè quelli del ragazzo Leo nel libro, che la realtà del lager si mostra al lettore. Gli occhi e la memoria parlano con lingua poetica e dura, metaforica e scarna, reale e nello stesso tempo surreale - come la condizione stessa della mente quando il corpo è piagato dal freddo e dalla fame. Fondato sulla realtà del lager, intessuto dei suoi oggetti e della passione, quasi dell'ossessione per il dettaglio quale essenza della memoria e della percezione, questo romanzo è un potente testo narrativo.

