
Non si è mai soli a Kaikurussi, piccolo villaggio del Kerala. C’è sempre un vicino che dispensa consigli, che vuole sapere, che ficca il naso nella vita degli altri, pronto a giudicare e a commentare quello che ha scoperto. Una rete di chiacchiere che potrebbero portare anche il migliore degli uomini a comportarsi male. Ma esiste un uomo migliore di altri a Kaikurussi? È forse Mukundan che, pensionato, torna al paese dei genitori e si trova a combattere con i fantasmi del passato e con gli incubi del presente? O magari è Bhasi il pittore, laureato con il massimo dei voti, ma rassegnato a passare il resto della vita appollaiato su una scala di bambù a dipingere pareti, ascoltare le lamentele dei clienti e curare a modo suo chi ne ha bisogno? Di sicuro non è Achuthan, il padre tiranno di Mukundan, che il figlio, nonostante non sia più un ragazzo e abbia una sua vita, ancora teme, né il ricchissimo Ramakrishnan, intenzionato, nonostante i moltissimi soldi vinti alla lotteria, ad arricchirsi ancora di più calpestando chiunque osi mettersi sulla sua strada.
Toccherà a Mukundan scoprirlo sulla propria pelle, imparando per la prima volta nella vita ad avere fiducia in se stesso, a non lasciarsi condizionare dal giudizio di nessuno, ad aprirsi alle emozioni curandosi solo di chi gli è veramente vicino.
Jak è uno studioso di cicloni che porta i capelli a spazzola, vestiti comodi e un orecchino di diamante; Mira una perfetta padrona di casa che scrive galatei per mogli di manager e vive in una vecchia casa lilla piena di ricordi. Da un giorno all’altro Mira si ritrova senza punti di riferimento: il marito se n’è andato, i conti non tornano, e tutto, improvvisamente, dipende da lei: i figli, la madre e la nonna arroccate nelle loro abitudini, la casa amatissima e ingombrante. È l’inizio traumatico di una nuova vita, che la obbliga a riconsiderare il proprio ruolo e il proprio passato, a riscoprire in sé risorse e ambizioni sepolte. Anche la vita di Jak deve ripartire: rientrato in India dagli Stati Uniti, assiste disperato la figlia diciannovenne, vittima di un terribile incidente, e non riesce a darsi pace, tra il bisogno di appurare la verità su quanto le è accaduto, e il senso di colpa per non averla saputa proteggere.
Il cuore della storia è l’incontro sommesso eppur decisivo tra Mira e Jak in un paese in cui convivono con qualche stridore il peso delle tradizioni e la complessità del presente, e insieme la loro capacità di «accettare l’inevitabile» e guadagnarsi nuove prospettive... Una storia che è una riflessione sulla famiglia, sull’essere moglie, marito, genitori e figli, ma anche una rivisitazione delicata e sorprendente del tema amoroso.
È il primo di agosto, a Bangalore, quando viene rinvenuto il cadavere di un farmacista. Sembra un caso destinato a essere archiviato in fretta, ma la settimana successiva il ritrovamento di un'altra vittima segna l'inizio di una serie di misteriosi omicidi, all'apparenza non legati tra loro. Solo l'ispettore Borei Gowda, uomo dall'indole ribelle e dal fiuto eccezionale, riesce a cogliere uno schema dietro i delitti, dove nessuno vede niente. Insieme al sottoispettore Santosh, novellino zelante e maldestro, si invischia in un'indagine complessa, ostacolato dai superiori corrotti. Né trova pace nella vita privata: una moglie assente e un rapporto da ricostruire col figlio, Gowda, abituato ormai a una vita solitaria e disordinata, ha paura di rimettersi in gioco con Urmila, un amore del passato che ha bussato alla sua porta dopo ventisette anni. L'assassino intanto continua a uccidere: la chiave per risolvere il caso si nasconde nei bassifondi della città, ma gli indizi sono fragili e mutevoli, appesi a un filo per aquiloni agitato dal vento, sottile e tagliente come una lama... Nella metropoli dell'Information Technology, dove modernità e tradizione si scontrano ogni giorno, dove gli slum fatiscenti convivono con le sontuose dimore dei politici, tra i vicoli bui e il verde placido dei quartieri residenziali, tra mercati di spezie e ammassi di rifiuti, prende vita il nuovo romanzo di Anita Nair, che sceglie la via del noir per raccontare l'India di oggi vista dal suo ventre oscuro.
Più volte nel corso della sua esistenza Naipaul è tornato con la memoria a quando, ancora bambino a Trinidad, sognava di diventare un grande scrittore. Ma non ci aveva mai raccontato come si accostò alla scrittura e, prima ancora, alla lettura; come riuscì a crearsi, in una colonia alla periferia dell'impero britannico, un mondo soltanto suo, affatto estraneo alla letteratura della madrepatria sulla quale si era formato. Né ci aveva mai confessato in che misura il legame con l'India abbia agito in profondità nella sua vita. A poco a poco, Naipaul si è reso conto che compito della sua opera letteraria sarebbe stata una tenace esplorazione di quelle "aree di tenebra" che gli erano apparse sin dall'infanzia.
Nessuno sa quale potrà essere l'aspetto finale della strana creatura architettonica concepita dal presidente della Costa d'Avorio su istigazione di un misterioso progettista, non estraneo alle pratiche magiche tribali. E quando Naipaul riesce a raggiungere l'area, si trova davanti ad un paesaggio che agisce su di lui come un'allucinazione: un paio di alberghi internazionali, una moschea, un troncone di autostrada che finisce nel nulla e sullo sfondo il verde di un campo da golf. Su tutto domina il palazzo del presidente circondato da mura altissime e da un lago popolato da coccodrilli. Solo alla fine di questi due racconti capiremo quale nero incantesimo colleghi l'atroce sorriso dei coccodrilli alla smorfia folle del padre di Naipaul.
«Il mio intento in questo libro non è la critica letteraria né la biografia ... Voglio soltanto, e in maniera del tutto personale, passare in rassegna i tipi di scrittura che mi hanno influenzato nel corso del mio lavoro. Ho detto scrittura, ma intendo più precisamente visione, modo di guardare e di sentire». Con questo intento Naipaul ci fa da guida in un viaggio illuminante, il suo viaggio: dalla natia Trinidad («un puntino sul mappamondo») agli ambienti letterari della Londra anni Cinquanta, dall'India (ancestrale «terra del mito» e desolante paradigma di modernità incompiuta) alla Cartagine di Polibio e di Flaubert, e alla Roma di Cicerone e di Virgilio. In questo modo la scrittura, che è sempre «prodotto di una specifica visione storica e culturale », permette di esplorare il tempo oltre che lo spazio - e di affiancare Derek Walcott a un materassaio analfabeta, Nirad Chaudhuri e Anthony Powell a un politicante con velleità letterarie (« lo Stalin di Trinidad»), Gandhi a Giulio Cesare. E durante il viaggio ogni incontro si rivela decisivo: per una inesausta ricerca di precisione, per il nitore dell'espressione, e soprattutto per una percezione originale del mondo.
V.S. Naipaul viaggia sempre alla ricerca di qualcosa. In Fedeli a oltranza aveva esplorato quel groviglio rovente di pulsioni e ideologie che non tutti, ancora, chiamavano fondamentalismo islamico: in questo suo ultimo libro tenta invece di afferrare qualcosa di più sfuggente, la sopravvivenza delle credenze arcaiche in ciò che nel continente africano - e spesso non altrove - si intende per «modernità». È un itinerario lungo e tortuoso, che porta Naipaul dal Ghana alla Nigeria, dalla Costa d'Avorio e dal Gabon fino al Sudafrica, e che attraverso una scansione di incontri, fatti nudi e storie individuali gli fa trovare subito qualcosa di imprevisto: «Ero convinto che nell'immensa vastità dell'Africa le pratiche magiche non fossero diffuse in maniera uniforme. Ho dovuto ricredermi. Ovunque ho incontrato indovini che "gettavano le ossa" per leggere il futuro, e ovunque ho ritrovato la stessa idea di un'"energia" da imbrigliare attraverso il sacrificio rituale. In Sudafrica la "medicina da battaglia" è un composto fatto con parti del corpo soprattutto animali, ma anche umane. Vederlo con i miei occhi, sentirne il potere, mi ha riportato molto vicino all'inizio di tutto». Inizia così un altro viaggio, che non era semplice osare, verso quell'inizio, verso il big bang di un intero continente. Un viaggio di cui questo libro immediato, quasi orale, è un fedele resoconto: che appassiona, irretisce, e non di rado illumina.
Singh, giovane coloniale di origine indiana, lascia alla fine della seconda guerra mondiale la nativa Isabella, isola incastonata nello smalto turchese dei Caraibi, per andare a studiare a Londra, da cui, al termine dei corsi universitari, ripartirà con una moglie bianca e una valigia piena delle schegge dei suoi sogni. Tornato a casa, e diventato un imprenditore di successo, Singh decide di entrare in politica in un momento cruciale per la sua piccola patria, da poco avviata verso l'indipendenza. Ma, mentre è di nuovo a Londra per chiedere sussidi finanziari e aiuto politico alla ex potenza coloniale, i compagni di partito approfitteranno della sua assenza per escluderlo dal potere. A Singh, condannato a un duplice fallimento, non resta che fuggire i miasmi della sua terra, contaminata fin nell'essenza, per ritirarsi in un piccolo albergo alla periferia della metropoli inglese, dove si dedicherà alla stesura delle sue memorie, riflettendo sull'ominoso destino cui il cittadino coloniale pare votato. E giungerà all'inquietante quanto amara conclusione che il coloniale può soltanto rassegnarsi a essere una copia sfocata del colonizzatore: i mimi del Terzo Mondo sono condannati a perpetuare, in una tragica parodia, gesti non loro e a patire fino in fondo i tormenti di un morbo immedicabile - quello della marginalità.
Crescere in un mondo "senza passato" può segnare una vita intera. Non stupisce dunque che Naipaul, da ragazzo, a Trinidad, si sentisse "tagliato fuori dalla storia": nessuno, intorno a lui, sapeva che Chaguanas, la sua città d'origine, trae il nome dai nativi che Colombo aveva chiamato "indiani" e che ora non esistono più; a nessuno interessava che l'isola fosse servita agli spagnoli solo come base per la corsa all'oro nella giungla sudamericana; e su quanto rimaneva delle piantagioni di canna da zucchero nessuno si interrogava. La storia era stata sostituita dai favoleggiamenti, che depuravano i fatti dalle loro scorie livide, e soffondeva di un'aura fantastica i tumultuosi eventi delle Indie Occidentali. Ma alla fine degli anni Sessanta, attraverso lo studio rigoroso dei documenti conservati al British Museum, Naipaul intraprende un viaggio che lo sprofonda "in un orrore al quale non era preparato": ma lo spinge anche a scrivere questa lucida, scabra cronaca, dove il fiabesco Eldorado si tinge di barbarie e lascia affiorare schiavitù, massacri e torture divenuti e rimasti per secoli agghiacciante normalità. Visitando sotto la sua guida i grandi momenti in cui Trinidad è stata "toccata dalla storia", vedremo così gli europei "civilizzatori" in una sinistra quotidianità, e l'epopea della Conquista trasfigurarsi in catastrofe. E verificheremo che Naipaul sa diagnosticare e curare una malattia tipicamente coloniale: la perdita della memoria.
Attratto da un richiamo fatale nel cuore dell'Africa, il giovane Salim, indiano di fede musulmana, lascia la costa orientale del continente per rilevare da un amico di famiglia un eccentrico bazar in riva a un fiume punteggiato dalle "isole scure" dei giacinti e circondato da un paesaggio primordiale di foreste, torrenti nascosti e impervi, canali infestati da zanzare e solcati da chiatte, buganvillee rigogliose, tramonti velati di nuvole lungo le rapide. Qui cercherà di contribuire, con pochi sodali, all'evoluzione di una società travolta da recenti tumulti. E in un primo momento la comunità dell'"ansa del fiume" - così come l'intero paese sembrerà avviarsi a un promettente progresso. Ma quello slancio innovatore, fagocitato dal Grande Uomo (nel quale non è difficile riconoscere il dittatore Mobutu), si convertirà presto in un futurismo grottesco (il "radioso avvenire"); e, unito alla feroce rabbia accumulata nel periodo coloniale e a un equivoco ritorno alla 'nazione autentica', susciterà un sistema di controllo paranoico e una catena di cieche rappresaglie - consegnando Salim a un destino di apolide senza patria e senza vera identità.
L’enigma dell'arrivo è nello stesso tempo un'intensa meditazione autobiografica e una delle più ipnotiche narrazioni della maturità di Naipaul. Tutto ruota intorno al luogo in cui lo scrittore si insedia al suo ennesimo ritorno in Inghilterra: un cottage nella valle del Wiltshire che solo un breve viottolo separa dall’incanto arcano di Stonehenge, i cui antichi tumuli «profilati contro il cielo» si intravedono dal varco di una siepe.
Da qui – da questo osservatorio opaco e metafisico, dove cupi parchi secolari convivono con autostrade solcate da camion colorati come giocattoli – lo scrittore scruta e ricorda, in un unico flusso. Scruta la comunità circostante (mungitori, contadini, piccoli imprenditori e giardinieri in tweed) come un microcosmo ibernato in una «rete di risentimenti reciproci», di gente infelice che per sopravvivere deve restare «cieca alla propria condizione». E ricorda le tante sequenze del suo passato di nomade e apolide, dalla Trinidad romantica e perduta della sua infanzia (un universo «di campi di canna da zucchero e di capanne e di bambini scalzi») a una Londra «estranea e sconosciuta», che gli porterà – tra i doni taumaturgici – una passione febbrile per Charles Dickens. L’esito è un percorso umano e intellettuale di disillusione radicale, in cui Naipaul – immettendo nella propria cadenza un inconsueto timbro malinconico – trova il solo appiglio e la sola vera patria in una tortuosa vocazione di scrittore.
Per Naipaul, nato a Trinidad da famiglia indiana, l'India è una ferita profonda, mai rimarginata, un luogo che rimescola tutto il suo essere. E nessuno dei vari libri che all'India ha dedicato lo testimonia come questo, vero itinerario nella caligine dove le sensazioni, gli incontri, le riflessioni si mescolano in un amalgama di cui Naipaul sembra possedere il segreto. E' un viaggio dolorante, ma qui, come ha scritto John Wain, "la sofferenza è diventata creativa invece che ottundente".