
Le basta vederlo una volta sola, quel bambino ricco, ben vestito, dai riccioli bruni, dai grandi occhi splendenti, che abita nella meravigliosa villa sulla collina e di cui dicono sia un suo lontano cugino, per essere certa che lo amerà per sempre, di un amore assoluto e immedicabile. A Kiev, la famiglia di Ada abita nella città bassa, quella degli ebrei poveri, e suo padre appartiene alla congrega dei maklers, gli intermediari, quegli umili e tenaci individui che si guadagnano da vivere comprando e vendendo di tutto, la seta come il carbone, il tè come le barbabietole. Fra le due città sembra non esserci nessun rapporto, se non il disprezzo degli uni e l'invidia degli altri. Eppure, quando il ragazzine Harry si troverà di fronte la bambina Ada, ne sarà al tempo stesso inorridito e attratto: "come un cagnolino ben nutrito e curato che senta nella foresta l'ululato famelico dei lupi, i suoi fratelli selvaggi". Molti anni dopo il destino li farà rincontrare a Parigi: e Harry cederà a quella misteriosa attrazione del sangue che Ada esercita su di lui.
"'David Golder' è un libro che gronda odio, soprattutto verso il denaro e tutto ciò che può essere trasformato in denaro, oggetti e sentimenti, e verso le forme infinite che il denaro può assumere. Oggi, non ci rendiamo conto di cosa sia stato il denaro nel diciannovesimo secolo, o nella prima parte del ventesimo: una fiamma ardentissima, una colata di sangue disseccata, sbarre d'oro sciolte e di nuovo pietrificate. Diventava eros, pensiero, sensazioni, sentimenti, fango, abisso, potere, violenza, furore, come nella Comèdie humaine ... 'David Golder' è un libro durissimo e secchissimo, che incide di continuo terribili ritratti, che in parte ricordano la memorialistica e la tradizione aforistica francese." (Pietro Citati)
Pierre Hardelot, erede delle omonime cartiere, ha una fidanzata rosea e grassoccia che la famiglia ha scelto per lui, ma è innamorato di un’altra: una che non gli consentiranno mai di sposare, perché appartiene alla piccola borghesia, e non ha dote. Eppure, alla vigilia del matrimonio, Pierre decide di infrangere quella invisibile ma solida barriera «fatta di buon sangue, di carni robuste e sane e di risparmi investiti in titoli di Stato, una barriera destinata a proteggere per sempre i giovani dalle insidie della sorte e dalle loro stesse passioni», e la legge non scritta per la quale di generazione in generazione accoppiamenti giudiziosi stringono sempre di più i legami tra le poche famiglie che contano della ricca borghesia di provincia – e sposa la donna che ama. Comincia così «il grande romanzo classico» di Irène Némirovsky: trenta capitoli in cui, attraverso la storia degli Hardelot, si percorrono trent’anni di storia francese, da quelli che precedettero la prima guerra mondiale a quelli che vedono (nel momento stesso in cui Irène racconta gli eventi mentre stanno accadendo) l’occupazione della Francia da parte dei tedeschi. E qui – nelle pagine conclusive del romanzo, allorché si compiono i destini dei personaggi che ha seguito con il suo sguardo affettuoso e ironico – Irène Némirovsky ci stupisce ancora una volta, dimostrando (esattamente come in Suite francese, la cui stesura portava avanti in parallelo, e di cui I doni della vita si può considerare una sorta di prova generale) una lucidità quasi profetica su quelli che saranno i destini dell’uma nità tutta.
Non è un caso che il Comitato rivoluzionario affidi la missione di «liquidare» Valerian Aleksandrovič Kurilov, l'odiato ministro della Pubblica Istruzione del regime zarista, proprio a Léon M.: orfano di due rivoluzionari russi, allevato in Svizzera a spese del «partito», questi non ha avuto altra famiglia che i «compagni», ed è cresciuto con l'idea «che una rivoluzione sociale fosse inevitabile, necessaria». Nel gennaio del 1903 Léon, non ancora ventenne, assume dunque la falsa identità del dottor Marcel Legrand e riesce a entrare nella casa di colui che gli studenti universitari hanno soprannominato il Pescecane. Perché oltre che un avido uomo di potere, Kurilov è anche feroce: non esita infatti a far sparare sugli studenti, né a farli arrestare, processare e giustiziare. Eppure, vivendo costantemente al suo fianco, il falso dottor Legrand scopre un uomo diverso: già al primo sguardo gli sembra «più flaccido, più sgretolato, più vulnerabile», e presto apprenderà che è gravemente malato. Inoltre, Kurilov è molto innamorato della seconda moglie, un'ex cocotte francese che i sovrani si rifiutano di ricevere, e a causa di questa donna, che tutti giudicano «sconveniente», affronterà perfino la disgrazia politica. E per finire è anche molto più scettico e pieno di dubbi di quanto le sue posizioni pubbliche lascino credere.
In questo romanzo acido e nichilista Irène Némirovsky non solo si conferma un'eccellente narratrice ma dà prova di una inconsolabile lucidità sui destini del genere umano, e sulla sua derisoria pretesa di cambiare il corso della storia.
«Chi meglio della signora Némirovsky, e con un’arma più affilata, ha saputo scrutare l’anima passionale della gioventù del 1920, quel suo frenetico impulso a vivere, quel desiderio ardente e sensuale di bruciarsi nel piacere|» scrisse, all’uscita di questo libro, il critico Pierre Loewel. Le giovani coppie che vediamo amoreggiare in una notte primaverile (la Grande Guerra è finita da pochi mesi, e loro sono i fortunati, quelli che alla carneficina delle trincee sono riusciti a sopravvivere) hanno, apparentemente, un solo desiderio: godere, in una immediatezza senza domani, ignorando «il lato sordido della vita», soffocando quella «parte d’ombra» che ciascuno si porta dentro. Eppure, quasi sulla soglia del romanzo, uno dei protagonisti si pone una domanda che ne costituirà il filo conduttore: «Come avveniva, nell’unione coniugale, il passaggio dall’amore all’amicizia? Quando si cessava di tormentarsi l’un l’altro per volersi finalmente bene?». Con mano ferma, e con uno sguardo ironicamente compassionevole, Irène Némirovsky accompagna i suoi personaggi, attraverso le intermittenze e le devastazioni della passione, fino alla quieta sicurezza dell’amore coniugale. A volte, certo, alcuni di loro rimpiangeranno «l’ebbrezza triste e folle dell’amore», e a quasi tutti accadrà di inoltrarsi, almeno per un po’, nelle vie perigliose dell’adulterio; ma il tempo riserverà loro una sorprendente rivelazione: che quell’«essere due» che del matrimonio costituisce l’essenza e «il flusso discontinuo, lento e possente dell’amore coniugale» conferiscono alla coppia una sorta di invincibilità.
Quando entra nell’aula di tribunale in cui verrà giudicata per l’omicidio del suo giovanissimo amante, Gladys Eysenach viene accolta dai mormorii di un pubblico sovreccitato, impaziente di conoscere ogni sordido dettaglio di quella che promette di essere l’affaire più succulenta di quante il bel mondo parigino abbia visto da anni. Nel suo pallore spettrale, Gladys evoca davvero l’ombra di Jezabel, l’ombra che nell’Athalie di Racine compare in sogno alla figlia. La condanna sarà lieve, poiché la difesa invoca il movente passionale. Ma qual è la verità – quella verità che Gladys ha cercato in ogni modo di occultare limitandosi a chiedere ai giudici di infliggerle la pena che merita?
«Nella tragedia classica, è il peccato di tracotanza, commesso dai padri o dalle madri, a condannare i figli ... Ma Irène Némirovsky, che pure in questo come in altri suoi libri dà sfogo al dolore di un’infanzia rubata, riesce ad attuare il riscatto» (Gabriella Bosco).
"Il vino della solitudine" è il più autobiografico e il più personale dei romanzi di Irene Némirovsky: la quale, pochi giorni prima di essere arrestata, stilando l'elenco delle sue opere sul retro del quaderno di "Suite francese", accanto a questo titolo scriveva: "Di Irene Némirovsky per Irene Némirovsky". Non sarà difficile, in effetti, riconoscere nella piccola Hélène, che siede a tavola dritta e composta per evitare gli aspri rimproveri della madre, la stessa Irene; e nella bella donna che a cena sfoglia le riviste di moda appena arrivate da Parigi in quella noiosa cittadina dell'impero russo - e trascura una figlia poco amata per il giovane cugino, oggetto invece di una furente passione - quella Fanny Némirovsky che ha fatto dell'infanzia di Irene un deserto senza amore. Hélène detesta la madre con tutte le sue forze, al punto da sostituirne il nome, nelle preghiere serali, con quello dell'amata istitutrice, "con una vaga speranza omicida". Verrà un giorno, però, in cui la madre comincerà a invecchiare, e Hélène avrà diciott'anni: accadrà a Parigi, dove la famiglia si è stabilita dopo la guerra e la rivoluzione di ottobre e la fuga attraverso le vaste pianure gelate della Russia e della Finlandia, durante la quale l'adolescente ha avuto per la prima volta "la consapevolezza del suo potere di donna". Allora sembrerà giunto alfine per lei il momento della vendetta. Ma Hélène non è sua madre - e forse sceglierà una strada diversa: quella di una solitudine "aspra e inebriante".
"Appartengo a una razza levantina, oscura, c'è in me un miscuglio di sangue greco e italiano: sono uno di quelli che voi francesi chiamate metechi, immigrati" dice, a una donna in cui vede l'immagine stessa della purezza, Dario Asfar, giovane medico che negli anni successivi alla prima guerra mondiale conduce un'esistenza miserabile nel Sud della Francia. E con sorprendente chiaroveggenza conclude: "Io credo che esista una fatalità, una maledizione. Credo che il mio destino era di essere un mascalzone, un ciarlatano ... Non si sfugge al proprio destino". Anche quando, molti anni dopo, non sarà più il "medicastro" che con il suo aspetto "miserabile e selvatico" e il suo accento straniero ispira solo diffidenza, anche quando sarà diventato ricco e famoso, e l'alta società parigina andrà umilmente a chiedergli di guarirla da quelle malattie dell'anima, da quelle "turbe psichiche", da quelle "fobie inspiegabili" che solo lui, il Master of souls (come viene definito da chi lo accusa di sfruttare la credulità del prossimo), è in grado di curare - anche allora il dottor Asfar si porterà dietro il marchio indelebile del suo destino, delle sue origini, del suo sangue. E quegli angiporti dell'Oriente da cui proviene, e che ha cercato di lasciarsi alle spalle, gli rimarranno per sempre negli occhi.
Nei mesi che precedettero il suo arresto e la deportazione ad Auschwitz, Irène Némirovsky compose febbrilmente i primi due romanzi di una grande "sinfonia in cinque movimenti" che doveva narrare, quasi in presa diretta, il destino di una nazione, la Francia, sotto l'occupazione nazista: Tempesta in giugno (che racconta la fuga in massa dei parigini alla vigilia dell'arrivo dei tedeschi) e Dolce (il cui nucleo centrale è la passione, tanto più bruciante quanto più soffocata, che lega una "sposa di guerra" a un ufficiale tedesco). Pubblicato a sessant'anni di distanza, Suite francese è il volume che li riunisce.
"Vedi," dice la nonna alla nipote, immaginando di prenderla per mano e condurla attraverso vasti campi in cui vengono bruciate le stoppie "sono i falò dell'autunno, che purificano la terra e la preparano per nuove sementi". Ma Thérèse è giovane, non ha la saggezza della nonna: ancora non sa che prima di poter ritrovare Bernard, l'uomo che ama da sempre, a cui ha dedicato la vita intera, le toccherà attraversare con pena e con fatica quei vasti campi, e subire le dolorose devastazioni provocate da quegli incendi. Perché Bernard, l'adolescente intrepido, impaziente di dar prova del proprio coraggio, partito volontario nel 1914, è tornato dalla guerra cinico e disincantato: quattro anni al fronte l'hanno trasformato in uno sciacallo, uno che non crede più a niente, che aspira solo a diventare ricco, molto ricco - e che per farlo si rotolerà nel fango della Parigi cosmopolita del dopoguerra, in quella palude dove sguazza la canaglia dei politicanti, dei profittatori, degli speculatori. Alla dolce, alla fedele e innamorata Thérèse, e ai figli che ha avuto da lei, preferirà sempre il letto della sua amante e lo scintillio dei salotti parigini. Ci vorranno la fine delle grandiose illusioni della Belle Epoque, la rovina finanziaria, e poi un'altra guerra, la prigionia, la morte del primogenito, perché Bernard ritrovi la sua anima: la cenere degli anni perduti servirà a purificare il terreno per una vita diversa.
Pierre Hardelot, erede delle omonime cartiere, ha una fidanzata rosea e grassoccia che la famiglia ha scelto per lui, ma è innamorato di un'altra: una che non gli consentiranno mai di sposare, perché appartiene alla piccola borghesia, e non ha dote. Eppure, alla vigilia del matrimonio, Pierre decide di infrangere quella invisibile ma solida barriera "fatta di buon sangue, di carni robuste e sane e di risparmi investiti in titoli di Stato, una barriera destinata a proteggere per sempre i giovani dalle insidie della sorte e dalle loro stesse passioni", e la legge non scritta per la quale di generazione in generazione accoppiamenti giudiziosi stringono sempre di più i legami tra le poche famiglie che contano della ricca borghesia di provincia - e sposa la donna che ama. Comincia così il romanzo di Irène Némirovsky: trenta capitoli in cui, attraverso la storia degli Hardelot, si percorrono trent'anni di storia francese, da quelli che precedettero la prima guerra mondiale a quelli che vedono (nel momento stesso in cui Irène racconta gli eventi mentre stanno accadendo) l'occupazione della Francia da parte dei tedeschi.
All'era dei pirati della finanza e dell'industria, degli imperi economici costruiti sui campi di battaglia è succeduto lo scenario desolante degli anni Trenta: la borsa in caduta libera, la crisi, la disoccupazione, e "tutti quegli scandali ignobili, quei processi, quei tracolli privi di grandezza"... Come molti della sua generazione, Christophe Bohun non ha né ambizioni, né speranze, né desideri, né nostalgie. È un modesto impiegato nell'azienda che suo padre, il Bohun dell'acciaio, il Bohun del petrolio, è stato costretto, dopo un clamoroso fallimento, ad abbandonare nelle mani del socio. Si lascia svogliatamente amare da una moglie di irritante perfezione e da una cugina da sempre innamorata di lui. "È la pedina" annota la Némirovsky sulla minuta del romanzo "che viene manovrata sulla scacchiera, che per due o tremila franchi al mese sacrifica il suo tempo, la sua salute, la sua anima, la sua vita". Alla morte del padre, però, Christophe trova in un cassetto, bene in evidenza, una busta sigillata: dentro, un elenco di parlamentari, giornalisti, banchieri a cui, nel tentativo di evitare il crac, il vecchio Bohun aveva elargito somme ingenti affinché spingessero il governo ad accelerare i preparativi bellici. Riuscirà questo bruciante retaggio, questa potenziale arma di ricatto, e di riscatto, a scuotere Christophe dal suo "cupo torpore"? Difficile trovare un romanzo così puntualmente applicabile a temi e fatti di ottant'anni dopo.

