
"In questo libro racconto i primi tre mesi di vita con mio figlio, fra incubatrici, fili, sonde e luci artificiali. Un bimbo prematuro e inatteso. È lì che si è deciso cosa sarebbe stato della sua e della mia vita. Se una disgrazia o un'avventura. Francesco è nato con la sindrome di Down. Davanti al vetro della neonatologia ho cominciato un lungo, appassionato, rabbioso dialogo con lui, "colpevole" di non corrispondere alle mie aspettative. Prima di lui, ero un uomo di "velocità". Ottenevo successi facilmente. Consideravo il dolore l'espressione materiale della sconfitta e dell'infelicità. Attraverso di lui ho capito tante cose. Le sue iniziali difficoltà mi hanno aperto il cuore e insegnato la modestia e il rispetto per ogni creatura. Intendo dire che, se io ho messo al mondo mio figlio, lui per certo, attraverso la prova che ha accompagnato la sua nascita, mi ha rimesso nel mondo della vita. Una vita lenta ma senza paura. L'unica vita che ha un senso vivere, per quanto banale tutto questo possa apparire ai più. E grazie a lui ho capito forse la cosa fondamentale: che la sindrome di Down non è una malattia, ma una particolare condizione genetica. Diventare padre di una fragilità mi ha obbligato a un cambiamento. Sono stato costretto ad appropriarmi di una ricchezza d'umanità che non mi sarà mai più tolta".
Dal 25 gennaio al 24 marzo 2020, sessanta giorni, sessanta capitoli pubblicati online. Dai primi momenti di incertezza alla speranza, passando per le ore più difficili, Fang Fang ha messo nero su bianco la vita durante la prima quarantena mondiale, quando l'Occidente guardava ancora a Wuhan come a un caso eccezionale e lontano. Che non lo riguardava. Mentre l'autrice documenta l'inizio della crisi sanitaria globale in tempo reale, ci troviamo a riconoscere chiaramente, quasi fossimo di fronte a uno stupefacente ritorno al futuro, le fasi che tutti abbiamo vissuto, con poche settimane di scarto. Le difficoltà e le emozioni, potenti e impreviste. Fino al giorno in cui la libertà sembra spuntare in lontananza. Il giorno in cui, chiudendo il diario, Fang Fang cita San Paolo: "Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede". Postfazione di Michael Berry.
È la musica il filo che unisce i racconti di questo volume. Il sentimento di fondo è una smisurata passione per ciò che la musica significa e dà. I protagonisti sono, infatti, dei musicisti, realmente vissuti, o personaggi di fantasia legati, in qualche modo, al mondo musicale. E i racconti stessi possono essere considerati altrettanti capitoli di un romanzo, del quale i lettori devono intuire (e, volendo, ricreare) la trama complessiva. L'ultimo, il più lungo, quello da cui prende il titolo la raccolta, "Il ragazzo che lanciava messaggi nella bottiglia", ha per protagonista, invece, uno scultore, ma anch'esso è intriso della stessa atmosfera che circola negli altri racconti. Il Ragazzo riempie di sculture il bosco in cui vive, come se fossero elementi di una grande composizione musicale, mentre il gesto di lanciare, dall'alto di una scogliera, nel mare, bottiglie in cui racchiude messaggi che tornano ineluttabilmente indietro, è una parabola toccante del destino della maggior parte degli uomini.
David Copperfield incontra Gian Burrasca. Caustico e candido, esilarante e drammatico. Autobiografia e ritratto privato di un'Italia appena trascorsa, la nostra. Dai bagliori degli anni Settanta, attraverso le luci di plastica degli Ottanta, fino a oggi. Attraverso gli occhi di una bambina che si ritrova donna, figlia e madre, nel susseguirsi delle generazioni e dei sogni che hanno attraversato questo tempo. Un linguaggio asciutto e crudele, spietato e dolce, che commuove.
Berlino, 1940. Jablonskistrasse numero 55: la postina Kluge consegna ai Quangel, modesta famiglia operaia, la lettera che comunica la fine del loro unico figlio, “morto da eroe per il suo Führer e per il suo popolo”, mentre la Francia capitola. Oltre al dolore indicibile, la notizia scatena nel cuore di Otto e Anna Quangel, mai iscritti al partito ma che con il nazismo convivono come tanti, un sussulto di ribellione e il desiderio di fare qualcosa. Nasce l’idea di un’azione di controinformazione: scriveranno cartoline postali con appelli contro il Führer e il partito, da lasciare dove capita, per diffondere almeno il germe del dubbio. In due anni scrivono quasi 300 cartoline, che finiscono però quasi tutte nelle mani della polizia. La gente è spaventata, ci vuol poco per essere arrestati dalla Gestapo e finire nei guai. Mentre i Quangel agiscono in solitudine, seguiamo le vicende degli altri abitanti del condominio: i Persicke, fedelissimi del partito nazionalsocialista, la vecchia ebrea Rosenthal, la spia Borkhausen, il giudice Fromm, l’ispettore Escherich che indaga sulle cartoline. È il nazismo, il protagonista del romanzo, non quello dei gerarchi e delle grandi decisioni, ma il sottile strisciante nazismo di tutti i giorni, nelle fabbriche e per le strade, nelle prigioni e nei manicomi. Ognuno può essere il nemico, il delatore. Un romanzo di straordinaria forza, una storia che tiene con il fiato sospeso anche se già sappiamo che finirà male per tutti. La vicenda trae origine da una storia vera. Alla fine della guerra nella Berlino liberata dai sovietici, viene affidato a Fallada - sopravvissuto al nazismo e alla guerra - un dossier della Gestapo su due sconosciuti, Otto ed Elise Hampel, giustiziati nel 1942 per avere diffuso materiale anti-nazista per trarne un racconto. Fallada lo scrive in 24 giorni. In appendice al volume viene riproposto il dossier della Gestapo e alcune cartoline postali dei coniugi Hampel.
"La forza della ragione" voleva essere solo un post-scriptum intitolato "Due anni dopo", cioè una breve appendice a "La rabbia e l'orgoglio". Ma quando ebbe concluso il lavoro, Oriana Fallaci si rese conto di aver scritto un altro libro. L'autrice parte stavolta dalle minacce di morte ricevute per "La rabbia e l'orgoglio" e, identificandosi in tal Mastro Cecco che a causa di un libro venne bruciato vivo dall'Inquisizione, si presenta come una Mastra Cecca che, eretica irriducibile e recidiva, sette secoli dopo fa la stessa fine. Tra il primo e il secondo rogo, l'analisi di ciò che chiama l'Incendio di Troia, ossia di un'Europa che a suo giudizio non è più Europa, ma Eurabia, colonia dell'Islam.
"Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte: come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico." Così Oriana Fallaci nella premessa a "Il sesso mutile", il primo libro che pubblica con Rizzoli, nel 1961. L'anno precedente, inviata de "L'Europeo", è in Oriente insieme al fotografo Duilio Pallottelli per un'inchiesta sulla condizione delle donne. È partita alla ricerca di tracce di felicità e nel libro racconta la sua esperienza: a Karachi in Pakistan assiste al matrimonio di una sposa bambina e si ribella all'idea delle donne velate; a New Delhi incontra Rajkumari Amrit Kaur, figura di grande potere in India, e le sembra che assomigli a sua nonna; in Malesia conosce le matriarche che vivono nella giungla; a Singapore c'è la scrittrice Han Suyin, che sente subito amica; a Hong Kong le cinesi non hanno più i piedi fasciati ma le intoccabili abitano ancora sulle barche, senza mai scendere a terra; a Tokio è smarrita di fronte all'impenetrabilità delle giapponesi e a Kyoto affronta il mistero delle geishe; alle Hawaii cerca invano i segni di un'esistenza originaria intatta. Il viaggio si conclude a New York, dove il progresso ha reso più facile la vita delle donne a confrontarsi con "un mondo di uomini deboli, incatenati a una schiavitù che essi stessi alimentano e di cui non sanno liberarsi".
Il libro è il tragico monologo di una donna che aspetta un figlio guardando alla maternità non come a un dovere ma come a una scelta personale e responsabile. Una donna di cui non si conosce né il nome né il volto né l'età né l'indirizzo: l'unico riferimento che viene dato per immaginarla è che vive nel nostro tempo, sola, indipendente e lavora. Il monologo comincia nell'attimo in cui essa avverte d'essere incinta e si pone l'interrogativo angoscioso: basta volere un figlio per costringerlo alla vita? Piacerà nascere a lui? Nel tentativo di avere una risposta la donna spiega al bambino quali sono le realtà da subire entrando in un mondo dove la sopravvivenza è violenza, la libertà un sogno, l'amore una parola dal significato non chiaro. Con la prefazione di Lucia Annunziata.
Prefazione di Concita De Gregorio.
“La voce di Oriana conserva quel tono insieme ironico e rabbioso, altero, indomito. Come di chi veda oltre l’orizzonte che tutti gli altri vedono. Come di chi sappia esattamente quale sia la rotta, e se la rotta ci sia.”
‚àí Dalla Prefazione di Concita De Gregorio
Protagonista di Penelope alla guerra, primo romanzo di Oriana Fallaci, è Giovanna detta Giò, promettente autrice di sceneggiature, inviata a New York da un produttore cinematografico (il “commendatore”), alla fine degli anni Cinquanta. A chi le chiede quanto ci sia di autobiografico in questa storia, la Fallaci risponde: “I personaggi del mio libro sono tutti immaginari e va da sé che in ciascuno di loro vi sia un poco di me, che faccia loro dire cose che penso, che faccia loro vedere cose che ho visto”. Giò va alla scoperta dell’America, a trarre ispirazione per il soggetto di un film. Il caso le fa ritrovare Richard, conosciuto durante la guerra in Italia. Il rapporto con l’uomo si sviluppa in modo sfuggente, complice la magia della città: “Ci sono case che toccano il cielo. La sera, se allunghi una mano gratti la pancia alle stelle e, se non stai attenta, ti bruci le dita. La gente vola come le rondini tra i davanzali, i treni corrono sotto le strade e i fiumi sono così grandi che sembrano laghi”. I due si frequentano, si cercano, forse si amano (“Chissà perché amiamo sempre chi non lo merita, quasi che questo fosse l’unico modo per ristabilire l’equilibrio perduto del mondo”), anche se Richard sembra non poter fare a meno della madre, Florence, donna possessiva e feroce, e dell’amico Bill – più che un amico? – da cui Giò è inconsapevolmente attratta.
C’è spregiudicatezza nelle ambizioni di questa giovane donna, ma non nelle sue scelte: incapace di “dormire in un letto a tre piazze”, torna in Italia. E la Giò che lasciamo a chiusura di libro potrebbe essere la donna di Lettera a un bambino mai nato: gli stessi dubbi e interrogativi, la stessa disperata passione per la vita.
Concita De Gregorio, giornalista e scrittrice, è direttore de “l’Unità”.
"Ora che il futuro s'era fatto corto e mi sfuggiva di mano con l'inesorabilità della sabbia che cola dentro una clessidra, mi capitava spesso di pensare al passato della mia esistenza: cercare lì le risposte con le quali sarebbe giusto morire. Perché fossi nata, perché fossi vissuta, e chi o che cosa avesse plasmato il mosaico di persone che da un lontano giorno d'estate costituiva il mio Io." Così comincia questa straordinaria epopea della famiglia di Oriana Fallaci, una saga che copre gli anni dal 1773 al 1889, con incursioni nel passato e in un futuro che precipita verso il bombardamento di Firenze del 1944. È una storia dell'Italia rivoluzionaria di Napoleone, Mazzini, Garibaldi, attraverso le avventure di uomini come Carlo che voleva piantare viti e olivi nella Virginia di Thomas Jefferson, Francesco marinaio, negriero e padre disperato, e donne indomite come la Caterina che alla fiera di Rosìa indossa un cappello pieno di ciliege per farsi riconoscere dal futuro sposo Carlo Fallaci, o come una bisnonna paterna, Anastasìa, figlia illegittima, ragazza madre, pioniera nel Far West. Dopo anni di ricerche, l'autrice ha visto la cronaca familiare trasformarsi in "una fiaba da ricostruire con la fantasia": "la realtà prese a scivolare nell'immaginazione e il vero si unì all'inventabile poi all'inventato... E tutti quei nonni, nonne, bisnonni, bisnonne, trisnonni, trisnonne, arcavoli e arcavole, insomma tutti quei miei genitori, diventarono miei figli".
Stavolta non mi appello alla rabbia, all’orgoglio, alla passione. Mi appello alla Ragione.” La pubblicazione de La Rabbia e l’Orgoglio, dopo il crollo delle due Torri l’Undici Settembre 2001 a New York, genera un dibattito senza precedenti nel mondo intero. In risposta agli attacchi e alle minacce ricevuti per aver espresso il proprio punto di vista in assoluta libertà e senza condizionamenti, Oriana Fallaci decide di lavorare a un post-scriptum intitolato “Due anni dopo”. Pagine ricche di fatti, notizie, riferimenti, da cui nasce questo nuovo saggio, La Forza della Ragione, un’analisi rigorosa e serrata della storia dell’Europa in chiave filosofica, morale e politica, un approfondimento del rapporto tra Occidente e Islam. “Scriverlo era mio dovere.” Identificandosi in un tal Mastro Cecco che nel 1328 viene bruciato vivo dall’Inquisizione a causa di un libro, la Fallaci si presenta come una Mastra Cecca eretica, irriducibile e recidiva che sette secoli dopo fa la stessa fine. Ma non senza battersi per difendere i valori in cui crede e in cui è cresciuta. “Se un’ortica m’invade, se un’edera mi soffoca, se un insetto mi avvelena, se un leone mi morde, se un essere umano mi attacca, io combatto. Accetto la guerra, faccio la guerra. La faccio con l’arma che m’appartiene, che porto sempre con me, che uso senza riserve e senza timidezze, è vero. Ossia l’arma incruenta dei pensieri espressi attraverso la parola scritta, attraverso le idee e i principi che ci distinguono dagli animali e dai vegetali.” Nell’Appendice di questa nuova edizione BUR de La Forza della Ragione sono riprodotti documenti autografi inediti relativi alla versione americana del testo.
"La vita cos’è?” Alla vigilia della partenza per il Vietnam come inviata de “L’Europeo”, nell’autunno del 1967, Oriana Fallaci tenta di rispondere alla domanda della sorellina Elisabetta: “La vita è il tempo che passa tra il momento in cui si nasce e il momento in cui si muore”. Ma la risposta le sembra incompleta e l’interrogativo la accompagna durante il lungo viaggio. All’arrivo a Saigon l’atmosfera è sospesa, surreale. L’agenzia France Press diretta da François Pelou sembra l’unico tramite con il resto del Paese ed è da quella base che la Fallaci si muove per testimoniare l’insensatezza della guerra: dalla battaglia di Dak To all’offensiva del Tet e all’assedio di Saigon, gli orrori del conflitto sono annotati giorno dopo giorno nel suo diario. C’è il rifiuto: “Perché quasi niente quanto la guerra, e niente quanto una guerra ingiusta, frantuma la dignità dell’uomo”. La pietà: “Quel fiume di corpi silenziosi e atterriti che avanza spingendo carrette, biciclette, vacche, maiali, bambini… Dio che spettacolo infame”. La consapevolezza: “Ci ha dato troppo questo piccolo Paese: ci ha dato la coscienza d’essere uomini”. Ci sono le voci dei soldati degli opposti schieramenti e le pagine struggenti del quaderno di un vietcong. Quando, dopo un anno, la Fallaci torna nella sua Toscana e ritrova la piccola Elisabetta, una risposta per lei ce l’ha. “La vita è una condanna a morte. E proprio perché siamo condannati a morte bisogna attraversarla bene, riempirla senza sprecare un passo, senza addormentarci un secondo, senza temer di sbagliare, di romperci, noi che siamo uomini, né angeli né bestie, ma uomini.” Pubblicato nel 1969, Niente e così sia è considerato un classico della letteratura, un romanzo di guerra che è un inno alla vita.