
"È il paese dove non si muore mai. Fortificati da interminabili ore passate a tavola, annaffiati dal raki, disinfettati dal peperoncino delle immancabili olive untuose, qui i corpi raggiungono una robustezza che sfida tutte le prove. Siamo in Albania, qui non si scherza". Una bambina intelligente e curiosa, la sua scoperta del mondo in un paese che ha spento l'utopia nella barbarie e che non tollera dubbi né domande. Il racconto tagliente e irresistibile delle sue diatribe con Madre-Partito, delle sue esercitazioni militari, dei suoi giochi innocenti e sinistri; l'impertinenza del corpo che cambia sotto gli sguardi avidi dei maschi, il desiderio di fuggire come amara morale di un'acuminata "favola della dittatura".
«A sedici anni, nei versi di Majakovskij, lessi una storia che mi segnò per sempre. La ditta Van Houten, che produceva dell'eccellente cacao, ebbe una trovata macabra e geniale: comprare l'ultimo desiderio di un condannato a morte per pubblicizzare la sua polvere scura. L'uomo davanti alla folla curiosa avrebbe dovuto gridare come ultimo desiderio lo slogan: Bevete cacao Van Houten! In compenso, la sua famiglia avrebbe ricevuto una somma di denaro sufficiente a vivere con tranquillità almeno per un paio d'anni.
L'uomo gridò. La mia anima di sedicenne anche».
Quando si nasce nella «prigione chiamata Albania», esistono solo due modi di orientare lo sguardo. C¿è quello del pittore Petraq, che cammina chino sull¿asfalto e sembra rimpicciolire ogni giorno di più: è lo sguardo basso della colpa, di chi si vergogna della propria vecchiaia, ma anche della propria bellezza, o di un marito che ha troppa voglia di fare l¿amore. E poi ci sono gli occhi puntati dritti verso formidabili orizzonti: è lo sguardo di Gazi che attraversa l¿Adriatico e sogna di portare la sua musica in Italia, in Francia, negli Stati Uniti. Sono gli occhi di Teuta mentre stropiccia il foglietto su cui è segnato l¿indirizzo che dovrebbe accoglierla a Roma, quelli di Sabrina inghiottita dal mare, e di Lumturi che si nutre delle pagine di Proust e Stendhal.
Complice un tempo che sembra eterno, l¿Albania smette di essere prigione per diventare limbo, uno stato transitorio nel quale si sopravvive coltivando «promesse d¿altrove», fino al giorno in cui si parte davvero. Ed eccolo, finalmente, «il paese dei miracoli», un luogo in cui la bellezza femminile non è più dannazione ma fortuna, il pesce non ha le lische e le scatole di tè racchiudono prodigi mai sentiti.
Ma l¿autrice di questi quattordici racconti, che ha lasciato Tirana a ventidue anni e ha scelto di scrivere in italiano, di sguardo ne ha inventato un altro: obliquo, che gioca a ribaltare le ovvietà della lingua e dell¿esistenza.
Coniugando crudeltà e tenerezza, Ornela Vorpsi riesce a ritrarre quell¿essere meraviglioso e fragile che è l¿umano, capace di vendersi al prezzo di un sogno, persino nel momento del respiro ultimo. Una scrittura spietata e intrisa di ironia, animata da una lingua unica, ricca di potenza simbolica, che fa dell¿assenza di radici la sua forza e trasforma lo spaesamento in strumento di conoscenza.
Esiste una lingua per raccontare lo spaesamento? Tutto parte da un viaggio a Sarajevo: un tuffo nel cuore dei Balcani, generoso e polveroso come nei ricordi d'infanzia. Qui la pioggia bagna la pelle più in profondità che altrove. La morte è più sorprendente e ha più sapore. Come un assedio, ad ogni passo risuona "l'esperanto balcanico", quel linguaggio inudibile e perentorio che non è possibile lasciarsi alle spalle. Un romanzo vivo, caustico, una scrittura apolide leggera e penetrante come le emozioni di cui si nutre. Ornela Vorpsi è nata a Tirana, dove ha vissuto fino a 22 anni. Ha studiato Belle Arti in Albania, poi, dal 1991, all'Accademia di Brera. Scrive in italiano. Il suo primo romanzo, "Il paese dove non si muore mai", ha vinto cinque premi ed è stato tradotto in dieci paesi.
Il sogno di Maya è di diventare una donna audace, coraggiosa, libera. Libera di viaggiare nel lontano Oriente di cui sin da bambina ha sentito raccontare dal padre, professore di storia a Oxford. Durante l'infanzia e l'adolescenza le lettere che il celebre esploratore Richard Francis Burton, il suo idolo incontrastato, le ha inviato da Bombay, dalle spiagge di Goa e dalle montagne azzurre di Nilgiri, da Hyderabad e da Alessandria l'hanno nutrita dell'atmosfera e degli aromi di quei luoghi magici. Ma nell'Inghilterra di fine Ottocento una donna non solo non può sperare di studiare, ma nemmeno di andare alla scoperta di posti così lontani. A meno che non sposi un ufficiale in partenza proprio per l'Arabia... Tuttavia, la vita in Oriente non è come l'aveva sognata. E mai, soprattutto, Maya si sarebbe immaginata che sarebbe stata rapita dai predoni del deserto per ordine del sultano locale. Un'avventura da incubo, in cui però conosce Rashad, il capo dei predoni, un uomo temibile e affascinante che segnerà il suo destino per sempre.
Dopo aver scritto tre romanzi in cui gli artisti sono i personaggi principali, Susan Vreeland ha costruito una raccolta di racconti che esplora l'arte attraverso gli occhi della gente comune. Conduce il lettore davanti ad alcuni momenti fondamentali dell'arte francese e italiana del XIX secolo, per svelare poi alcuni istanti cruciali dell'arte del XX secolo e, infine, tornare ai giorni nostri con una serie di storie contemporanee. Anziché soffermarsi sulle grandi vite e sui destini di artisti impressionisti e post-impressionisti, quali Manet, Monet, van Gogh e Modigliani, Susan Vreeland posa il suo sguardo sui personaggi che attorniavano questi geni, le persone da loro amate, i domestici, i figli, i vicini di casa.
È il 1880 a Parigi e Pierre-Auguste Renoir, i pennelli nella mano destra e l'astuccio ereditato da Claude Monet nella sinistra, è appena giunto sulla terrazza della Maison Fournaise, una locanda amata dagli artisti dove si può mangiare, dormire o affittare una barca. Alphonsine Fournaise, la figlia del padrone della locanda, l'ha condotto fin lì per mostrargli un tratto della Senna dove le due rive offrono un paesaggio incomparabile allo sguardo di un pittore. La blusa a righe e il costume da bagno aderente sulle sue curve procaci, Alphonsine allarga le braccia davanti alla meraviglia che si spalanca non appena scosta la tenda a righe grigie e rosso corallo. Le canoe affiancate lungo la riva spiccano sul verde scuro dell'acqua. Sulla riva orientale una locanda, con i muri bianchi e il tetto di tegole rosse, è illuminata dal sole pomeridiano. Più a valle, un cantiere si allunga sul fiume circondato di barche, e qua e là si vedono case di contadini accoccolate accanto ai loro orti. In che modo Renoir potrebbe ritrarre quel magnifico luogo in cui la città incontra la campagna? Dipingendo alla maniera degli impressionisti una scena da ballo su una delle rive? Oppure una gita in barca con poche, veloci pennellate? Così Susan Vreeland immagina, nelle pagine che seguono, la nascita di una delle opere fondamentali dell'impressionismo, Il pranzo dei canottieri, un quadro in cui Renoir celebra se stesso come il pittore per eccellenza della joie de vivre, del sentimento gioioso della vita.
Nel 1892, a Manhattan, un’elaborata insegna in bronzo fa bella mostra di sé. Tiffany Glass & Decorating Company declama la scritta che campeggia sopra una solida porta di vetro molato. Oltre quella porta, si schiude un grande salone con enormi vetrate appese al soffitto e imponenti mosaici poggiati alle pareti. E poi vasi dalle linee morbide, pendole, candelabri Art Nouveau, lampade con paralumi di vetro soffiato in mille splendidi colori.
È il regno di Louis Comfort Tiffany, pittore di quadri orientalisti raffiguranti minareti, moschee e beduini, secondo il gusto del tempo. Gardenia all’occhiello, baffi fluenti, Louis Comfort Tiffany ha creato il suo atelier coltivando un progetto ambizioso: estendere la sua idea dell’arte come «bellezza che non ha bisogno di spiegazioni perché basta a se stessa» alla decorazione del vetro.
La Tiffany Glass & Decorating Company è, tuttavia, anche il regno delle Tiffany girls, le ragazze di Tiffany, come sono chiamate a Manhattan le donne che l’artista ha riunito attorno a sé. Ogni giorno Louis le esorta ad abituarsi a riconoscere la bellezza in ogni momento, a «cogliere la grazia di una forma, l’eccitazione di un colore». Radunate nel laboratorio al quinto piano, le ragazze, però, non hanno bisogno di soverchie esortazioni per tagliare il vetro con estro, e disegnare e dipingere alacremente.
Vi è Wilhelmina, impertinente diciassettenne dall’alta statura, Mary diciottenne dai capelli rossi, Cornelia, riservata e taciturna, Agnes, l’altera, la prima donna cui Tiffany ha accordato l’onore di dipingere i soggetti delle sue vetrate. E, infine, Clara Wolcott Driscoll.
Giovane vedova in un laboratorio dove vige la regola, imposta dal padre di Louis, di impiegare solo fanciulle non maritate, Clara è l’artefice autentica delle creazioni Tiffany. È lei, infatti, a ideare quegli oggetti meravigliosi, i paralumi di vetro soffiato, decorati con uno stile che sembra celebrare la gioia e il mistero di un secolo che deve ancora iniziare.
Una ragazza da Tiffany è, soprattutto, la sua storia. Una storia in cui Susan Vreeland non celebra soltanto un talento misconosciuto, ma illumina anche gli slanci, i desideri e le ambizioni di una giovane donna nella metropoli americana pronta a tuffarsi nella grande avventura del Novecento.
Nella cantina di casa di un insegnante di matematica, Cornelius Engelbrecht, un signore sobriamente vestito, dal carattere chiuso e dall'atteggiamento sfuggente, giace un quadro prezioso che ritrae una ragazza vestita di blu. In un momento d'abbandono e di inconsueta familiarità, Engelbrecht confida a un amico che il quadro, palesemente risalente al XVII secolo, è una delle opere "ignote" di Vermeer, il grande pittore olandese. Suo padre, ufficiale nazista durante la guerra, l'aveva trafugato a una famiglia ebrea.
È il 1937 quando Lisette giunge a Roussillon, un villaggio della Provenza appollaiato in cima a una montagna, con le case dai colori armoniosi che si inerpicano fino in vetta e sembrano abitate da elfi, fate e cantastorie. Vent'anni, e nel cuore la speranza di un apprendistato alla galleria d'arte Laforgue di Parigi, Lisette approda nel villaggio con l'animo tutt'altro che incline all'idillio. André, il marito, ha deciso di abbandonare la capitale e trasferirsi in quel borgo sperduto perché il nonno, Pascal, gli ha chiesto aiuto a causa della sua cagionevole salute. Per andare in suo soccorso, André ha rinunciato al prestigioso ruolo di funzionario nella Corporazione degli Encadreurs, l'associazione dei corniciai parigini, e Lisette al suo anelito d'arte. A Roussillon, però, i due non si imbattono affatto in un anziano malandato e in fin di vita, ma in un aitante ottantenne in evidente buona salute. Ritrovarsi nella provincia francese per soccorrere un vecchio che, all'apparenza, non ha alcun bisogno d'aiuto sembrerebbe un'autentica beffa per la giovane coppia e per Lisette, in particolare, la parisienne che considera Parigi la sua felicità e la sua anima. Ma nel chiuso della sua casa, Pascal mostra a Lisette e André la ragione vera del loro arrivo a Roussillon: sette quadri che lasciano Lisette a bocca aperta...
Nel 1892, a Manhattan, un’elaborata insegna in bronzo fa bella mostra di sé. Tiffany Glass & Decorating Company declama la scritta che campeggia sopra una porta di vetro. Oltre quella porta, si schiude un grande salone con enormi vetrate appese al soffitto e imponenti mosaici poggiati alle pareti. E poi pendole, candelabri, lampade con paralumi di vetro soffiato in mille splendidi colori.
È il regno di Louis Comfort Tiffany, maestro della decorazione del vetro, e delle Tiffany girls, le ragazze di Tiffany, come sono chiamate a Manhattan le donne che l’artista ha riunito attorno a sé. Vi è Wilhelmina, impertinente diciassettenne dall’alta statura, Mary diciottenne dai capelli rossi, Cornelia, riservata e taciturna, Agnes, l’altera, la prima donna cui Tiffany ha accordato l’onore di dipingere i soggetti delle sue vetrate. E, infine, Clara Wolcott Driscoll, l’artefice autentica delle creazioni Tiffany.
Una ragazza da Tiffany è, soprattutto, la sua storia. Una storia che non celebra soltanto un talento misconosciuto, ma illumina anche gli slanci, i desideri e le ambizioni di una giovane donna nella metropoli americana pronta a tuffarsi nella grande avventura del Novecento.
"La passione di Artemisia" narra dell'incessante lotta della prima grande pittrice celebrata e riconosciuta nella storia dell'arte: Artemisia Gentileschi, la donna che, in un mondo ostile alle donne, riuscì a imporre la sua arte e a difendere strenuamente la sua visione dell'amore e dell'esistenza. Violentata dal suo maestro, Artemisia subì, nel corso della sua vita, non soltanto l'onta di un processo pubblico nella Roma papalina, e l'umiliazione di un matrimonio riparatore con Pietro Stiattesi, artista mediocre, ma anche un duro, terribile confronto con il suo avversario più temibile: il grande pittore Orazio Gentileschi, suo padre.
Nella cantina di casa di un insegnante di matematica, Cornelius Engelbrecht, un signore sobriamente vestito, dal carattere chiuso e dall'atteggiamento sfuggente, giace un quadro prezioso che ritrae una ragazza vestita di blu. In un momento d'abbandono e di inconsueta familiarità, Engelbrecht confida a un amico che il quadro, palesemente risalente al XVII secolo, è una delle opere "ignote" di Vermeer, il grande pittore olandese. Suo padre, ufficiale nazista durante la guerra, l'aveva trafugato a una famiglia ebrea.