
Nel 1962 Ermanno Olmi rilascia un'intervista in cui dichiara: "Nel mio prossimo film, tratto dai ricordi di Russia di Mario Rigoni Stern, "Il sergente nella neve", non ho nessuna intenzione di fare della critica storica. La verità totale della guerra (perché la guerra è verità, la guerra è morte, e nessuno fa il mistificatore di fronte alla morte) mi servirà per fare il bilancio dei valori umani che considero essenziali. Ogni soldato, ogni alpino, vedrà le cose che contano veramente nella vita e quelle che sono soltanto epidermiche, marginali". Quando pronuncia quelle parole, il giovane regista sta lottando da tre anni per riuscire a realizzare il film che ha in mente da quando ha letto il libro di Rigoni Stern: ha terminato di scrivere insieme a lui la sceneggiatura, ha fatto dei sopralluoghi in Slovenia e in altre località in cerca di ambientazioni e di attori non professionisti, ha provato ad aggirare tutti gli ostacoli creati dalle case di produzione. Quel film non nascerà mai, per molte ragioni di cui dà conto Gian Piero Brunetta nel saggio che chiude questo volume, ma "a distanza di poco meno di cinquant'anni questo manoscritto si presenta ancora, così com'è, come esempio di sceneggiatura perfetta, capace di sfidare il tempo". Una sceneggiatura che può essere letta come un libro a sé stante: che diventa ancora più preziosa se accostata al testo de "Il sergente nella neve".
"Chi ha detto che il tempo è denaro? Un filosofo, un banchiere o un orologiaio?" Se ne vanno a rotta di collo le giornate di Marinella e Salvatore, di Nicola e della signorina Patrizia. Le giornate di chi fa dieci lavori tutti precari e ha l'impressione di vivere a mezz'aria, "pisciando in corsa come i ciclisti al Giro d'Italia". Perché se è vero che il tempo è denaro, il loro tempo dev'essere denaro di qualcun altro. Vivono tutti in un condominio fuori dal Raccordo Anulare, cinque piani di vite arrangiate fra il centro commerciale e il gigantesco call center. Dietro alle spalle ci stanno i padri, con i loro ricordi di guerra e le loro sicurezze appiccicate alla poltrona, "la perseveranza del mondo contadino dentro allo stupro urbanistico palazzinaro". E nel presente c'è l'insensatezza di un tempo bloccato, apparecchiato e inutile come la casetta di Barbie. Nelle quattro storie che s'intersecano dentro questo libro se ne raccolgono un'infinità di altre, per raccontare l'energia, la delusione e la rabbia di una generazione, ma anche la fantasia e la passione, la voglia di cambiare. Di ribellarsi. Di riposarsi. Di ricominciare. "Mi spogliavo e mi sentivo leggera. Avrei continuato a spogliarmi, se fosse stato possibile. Mi sarei sfilata la pelle come un cappotto e l'avrei appesa a una stampella."
Scendendo a capofitto per i rami delle generazioni, Clelia riesce a trovare il suo posto sull'asse del tempo: ha una data d'inizio, il 1914, e persino una capostipite, la nonna Franca, giunta dalla Russia a Napoli. Innamorata della vita, ricca di passione e di ideali, Clelia cresce con i piedi piantati nella provincia e lo sguardo rivolto alla città. Quando Clelia incontra Gianni non ha dubbi su cosa fare: insieme trovano quarantadue metri quadri in cui sostenersi "l'un l'altra come due carte da gioco poggiate in piedi". Per mantenersi lavora come maschera in un teatro, e proprio in teatro farà presto carriera. Appagata dal successo, Clelia sembra non accorgersi di scegliere sistematicamente il "male minore". Il nuovo romanzo di Valeria Parrella ha l'energia e il coraggio delle storie necessarie. La storia di Clelia procede di pari passo con quella dell'Italia, e ci restituisce il ritratto di un Paese che ha progressivamente rinunciato al pubblico per il privato, all'etica per il guadagno, ma che con ostinazione ciascuno di noi continua ad amare "come si amano solo le cose che vengono prima di noi e dopo di noi resteranno". Senza dismettere la voce intima e sensuale che le è propria, Valeria Parrella narra la perdita di contatto tra ciò in cui si crede e il modo in cui si agisce, fino alla consapevolezza che "le cose non si compiono all'improvviso, ma all'improvviso le vedi nel loro intero".
C'è un rivoluzionario in bicicletta, che quando arriva al parlamento per buttare la bomba si accorge di non essere il primo: gli tocca mettersi in coda, come alle poste. C'è l'uomo di governo che «quando faccio politica, non ne faccio una questione politica». C'è chi cammina in fila indiana ed è contento di considerarsi solo un numero, tanto da non tollerare che qualcun altro - di certo un sovversivo - gli si affianchi sostenendo di essere semplicemente Mario... Ogni personaggio procede «sulla superficie sconnessa di un pianeta che pare fermo e invece si muove, perché quando ti muovi piano è quasi come se non ti muovi per niente», consapevole dell'equilibrio precario nel quale si trova, ma consapevole soprattutto che «precipitare è tutto un altro discorso». Sottratta al monologare fluviale degli altri suoi testi, la prosa di Ascanio Celestini si fa in questo libro quintessenziale: i racconti di Io cammino in fila indiana scavano nel cuore minerale di un'instancabile arte affabulatrice, che indaga il mondo con passione e curiosità. Con un andamento narrativo capace di accordarsi agli scarti improvvisi del pensiero - tanto da assumere di volta in volta la forma della poesia civile, o della preghiera laica -, le storie ambientate nel «piccolo paese» mostrano quello che siamo diventati.
Grazie al guizzo dell'intelligenza e all'impegno militante di una fantasia sempre ribelle, Ascanio Celestini costruisce così il suo libro più personale. Distribuendosi in tanti «Io» che giocano con lo specchio deformante - eppure fedelissimo - dell'apologo o della fiaba, l'autore prende per mano il lettore e lo guida attraverso la cronaca e le assurdità dei nostri anni recenti. Si ride molto, ma amaramente. E poi si riflette, cercando una medicina per questo mondo pieno di storture. Senza mai dimenticare che «l'ansia è una faccenda che ti si gonfia nella testa. È come l'aria per il pallone: di concreto c'è solo un sottilissimo strato di gomma elastica, tutto il resto è aria».
Quando Eleonora e Chirú s'incontrano, lui ha diciotto anni e lei venti di più. Le loro vite sembrano non avere niente in comune. Eppure è con naturalezza che lei diventa la sua guida, e ogni esperienza che condividono dall'arte alla cucina, dai riti affettivi al gusto estetico - li rende più complici. Eleonora non è nuova a quell'insolito tipo di istruzione. Nel suo passato ci sono tre allievi, due dei quali hanno ora vite brillanti e grandi successi. Che ne sia stato del terzo, lei non lo racconta volentieri. Eleonora offre a Chirú tutto ciò che ha imparato e che sa, cercando in cambio la meraviglia del suo sguardo nuovo, l'energia di tutte le prime volte. È così che salgono a galla anche i ricordi e le scorie della sua vita, dall'infanzia all'ombra di un padre violento fino a un presente che sembra riconciliato e invece è dominato dall'ansia del controllo, proprio e altrui. Chirú, detentore di una giovinezza senza più innocenza, farà suo ogni insegnamento in modo spietato, regalando a Eleonora una lezione difficile da dimenticare.
La storia di tre generazioni della famiglia Hinner, che dalla Germania di Hitler arriva all'Italia dei giorni nostri. A parlare è Hilde, testimone della sua stessa esistenza, ribelle inerte nel mondo progettato dal padre, dai padri. La sua voce, ora laconica ora straripante, narra ottant'anni di vicende private intimamente intrecciate al Novecento, "all'alba dei grandi magazzini", al turismo di massa, all'ossessione del corpo. Fino a innescare un cortocircuito che fa esplodere il nostro presente, denudandolo come mai prima era stato fatto. Se "I Buddenbrock" ripercorreva la decadenza di una famiglia tedesca dell'Ottocento, "La gemella H" non può che registrare il giornaliero "assecondare il flusso di eventi travestiti da soldi" di una famiglia ossessionata dai beni e compromessa con il Male. Decisa a dimenticare, pur di salvarsi.
Si raccoglie qui tutto ciò che per Del Giudice fa mania. Intendendo per mania una parola doppia, una parola male-bene: nel mondo greco mania indica infatti non soltanto il demone che sconvolge la mente, ma anche una particolare forma di concentrazione, una forma estrema del conoscere e del coincidere con il proprio destino. È mania la mezzanotte, ventiquattresima ora del giorno, istante ultimo e anche primo, valico del giorno passato e incipit del nuovo, ora ventiquattro e ora zero; è mania il proprio lavoro, scrivere e narrare, in cui secondo Del Giudice sarebbe meglio possedere un doppio passo, essere ambidestri, con una mano tracciare delle mappe, costruire dei progetti e con l'altra operare perché questi progetti vengano invalidati dalla narrazione, perché ciò che vale nel racconto è proprio tutto quanto eccede e vanifica il progetto. Sono mania la luce, le macchine, le città, lo spazio, le fortezze reali e quelle immaginarie, le carte geografiche, il cinema e la fotografia. I protagonisti dei libri più famosi di Daniele Del Giudice. Si ritrovano in queste pagine le riflessioni sul tempo e quelle sul volo ("Come quando l'aereo si stacca da terra, una sospensione nebulosa e via, la scrittura spinge su, dentro i carrelli"). Si parla, con estrema e acuta intelligenza, del leggere, degli autori e dei libri più amati, del tradurre, delle storie e dei personaggi, del trovarsi davanti al foglio bianco e del "levare ad ogni frase la terra sotto i piedi".
È un mattino di novembre. Nella sala di uno dei più prestigiosi college di Oxford, centinaia di persone aspettano l'inizio di una conferenza. Dopo qualche minuto entrano - nel silenzio generale - decine e decine di pecore. Bianche, lanose, ordinate, moderatamente belanti. Le guida Filippo Cantirami, giovane economista italiano, che come nulla fosse comincia il suo intervento sulla crisi dei mercati. Inizia così il nuovo romanzo di Paola Mastrocola. Quella incredibile invasione di pecore getterà nel caos i genitori Cantirami, convinti che il figlio modello sia a Stanford a finire un dottorato, e che si ritrovano all'improvviso spiazzati e in ansia. Cosa combina Fil, dov'è finito, chi è veramente? E chi è quel suo compagno Jeremy con il quale ha stretto un patto, che cosa si sono scambiati i due ragazzi, qual è il loro segreto? Fil sembra sparito nel nulla, perduto in un mistero. Imprendibile. E intanto, sullo sfondo, la crisi dei nostri giorni. Ma raccontata da lontano, come guardando il presente dal futuro, tra una cinquantina d'anni. Filippo Cantirami, il giovane rivoluzionario della Mastrocola, è un ragazzo privilegiato, un personaggio scomodo, di questi tempi: eppure è lui - in virtù dei suoi pensieri, dei suoi silenzi, dei suoi gesti e delle sue scelte - che pagina dopo pagina ci apre al sogno di una vita diversa. Un sogno che ci porta a riflettere sull'idea di tempo e sulla possibilità di metterla in discussione, di ripensarla.
Distaccato e sveglio, divertente e un po' cinico, sempre su di giri, Vittorio Vicenti - o Vic Vincent, come lo chiamano in America - è uno che si butta, nella vita e con le donne. "Tretrecinque" è la sua storia, cosí come ce la racconta lui: gli anni scintillanti e quelli piú scriteriati e difficili. L'esistenza avventurosa, e ordinaria, di un italiano che resta tale anche quando viene scagliato lontano nel mondo. Dall'età della scuola, nel Piemonte degli anni Cinquanta, agli Stati Uniti del XXI secolo. Quella di Vittorio Vicenti è un'esistenza segnata da un formidabile talento musicale e da una chitarra elettrica, la Gibson tretrecinque, di cui diventa, forse suo malgrado, un virtuoso. È la tretrecinque a strapazzarlo di città in città, di decennio in decennio, e lui è il tipo d'uomo che lascia succedere le cose. Che vive ai margini dei luoghi che contano, condannato alla provincia ovunque si trovi. Che non transita nel tempo perfetto in cui gli eventi memorabili accadono. La sua è una corsa senza respiro che non concede neanche un attimo per voltarsi indietro.
Nella notte del primo marzo 1843, rischiarata da una cometa che sembra minacciare sventura, viene al mondo una bambina. È un parto complicato, che potrebbe finire male se ad assistere non ci fosse Lucina, la "mammana" del paese, e forse sarebbe meglio così: la piccola è una "capa janca", albina, e dunque maledetta. Sarà Lucina, dopo averla salvata, a darle un nome, Stella, e farle da madre, portandola via da quel posto che rifiuta entrambe. Perché anche Lucina, malgrado la bellezza sfolgorante, nasconde una condanna, un segreto custodito troppo a lungo. Con l'aiuto di Bartolomeo, corteggiatore ostinato, Lucina si trasferisce a Napoli. Ma neppure nel brulichio della città, accogliente e minacciosa insieme, sembra trovare pace. Perché "così come è un azzardo giurare per sempre, è un peccato di superbia affermare mai più". Antonella Ossorio mescola romanzo storico e saga familiare. La storia di tutti quelli che con fierezza e coraggio, nello scontro quotidiano tra doveri e desideri, non rinunciano a ricercare la propria strada.
Un triplice, crudele omicidio rimasto irrisolto. Una scia di violenza e di morte che perseguita gli abitanti di Siebenhoch, una tranquilla, isolata comunità tra le montagne dell'Alto Adige. Un forestiero con la sua famiglia, sempre più invischiato nella vicenda. Al centro di tutto il Bletterbach, una gigantesca gola nei cui fossili si può leggere l'intera storia del mondo. È come se in quel luogo si fosse risvegliato qualcosa di spaventoso che si credeva scomparso, antico come la Terra stessa.
«Werner si lasciò sfuggire un verso di scherno. - Nessuno è mai uscito dalle grotte del Bletterbach. Laggiú c'è l'inferno».
Jeremiah Salinger è un giovane autore televisivo newyorkese che, insieme alla moglie Annelise, si è trasferito per un periodo a Siebenhoch, il piccolo centro del Sud Tirolo dove lei è cresciuta. Con loro c'è la precoce figlia Clara, di cinque anni. Affascinato dalla montagna e dalla gente che vi abita, Salinger comincia a realizzare un factual sul soccorso alpino, ma nel corso delle riprese viene coinvolto in un pauroso incidente. Mentre cerca in ogni modo di dimenticare la sua esperienza traumatica, viene a sapere per caso di un fatto sanguinoso risalente a molti anni prima: il massacro di tre giovani avvenuto durante un'escursione nella gola del Bletterbach. Il delitto non ha un colpevole, e in paese nessuno vuole parlarne: forse perché il solo pensarci potrebbe risuscitarne l'orrore, o forse perché sono in tanti ad avere qualcosa da nascondere. Nonostante l'ostilità crescente che lo circonda, e l'opposizione di Annelise, Salinger si mette a scavare nel passato, penetrando sempre piú a fondo nella vicenda. Fino a scoprire l'imprevedibile, terrificante verità.
Lorenzo è un geometra, ma ha imparato a proprie spese che di geometrico a questo mondo c'è veramente poco. Le rette parallele, nella realtà, finiscono spesso per incontrarsi, e il quadrato costruito sull'ipotenusa, probabilmente in modo abusivo, non equivale mai alla somma dei quadrati costruiti sui cateti. Vive con la madre, circondato da un piccolo gruppo di amici, tra cui Massimo, pervaso da un'insana passione per gli articoli da bagno, e Fabio, detto "Il Tranquillizzatore" per la sua capacità di confortare tutti con prevedibili ma graditissime frasi di rito. Lorenzo è serenamente disperato, perché gli manca una cosa fondamentale: il lavoro. Così si piega a fare di tutto, persino la statua vivente in una piccola piazza del centro. Trasformandosi da mite geometra a faraone immobile, dal suo angolo comincerà a vedere il mondo. Osserverà il microcosmo che gli sfila davanti: turisti euforici, connazionali annoiati e un cane bruttissimo, ad esempio. E s'innamorerà, molto, di una ragazza che non fa proprio per lui, d'altra parte "all'interno d'ogni amore deve esserci un circuito stampato, fragile e complicato, che lo rende unico e incomprensibile". Piloterà nell'ombra qualche vita che gli è cara, nel frattempo. Ma soprattutto, alla fine, lui, proprio lui, messo all'angolo e spalle al muro, farà un gesto imprevisto che ha la forza di un'esplosione: uno di quei gesti che possono inaugurare una nuova vita.

