
"Un omaggio a Roma". Così Sandro Veronesi definisce "Gli sfiorati", il romanzo da cui è tratto il film omonimo di Matteo Rovere. Un omaggio non solo alla città che lo ha accolto per molti anni ma anche e soprattutto un confronto aperto con un momento storico che ha cambiato profondamente il volto di gran parte del mondo da noi conosciuto fino ad allora e rappresentato da una generazione sfuggente, distratta, schiumevole. In una Roma splendida e sinistra si dipana la vita solitaria di Mète, appassionato studioso di grafologia, introverso e ombroso. Belinda, la sorellastra quindicenne di Mète, affidata a lui per due settimane, è il centro d'attrazione di tutto il romanzo, il desiderio proibito e continuamente rimandato, la trasgressione irresistibile. A lei lo scrittore affida il vero senso del romanzo, rendendola portatrice di valori e caratteristiche appartenenti a un'epoca, quella degli anni Ottanta, contraddittoria e ambigua. I giovanissimi eroi di questa storia non sembrano invecchiati dopo vent'anni. Gli stessi desideri, le stesse paure e l'incredibile capacità di maneggiare l'insensatezza senza venirne travolti si possono ritrovare in molti giovani uomini e giovani donne della generazione degli anni Duemila; Mète e Belinda, infatti, diventano protagonisti di un film ambientato vent'anni dopo la loro nascita letteraria
Eva Loi è la giovane doppiatrice di Lauren Armstrong, una delle più luminose star del cinema mondiale, a cui sente di essere legata da un vincolo impalpabile. Ama il suo lavoro, anche se è adombrata da malinconie e spettri di un passato mai del tutto rimosso. Le piace rinascere in sala di registrazione. Un giorno però Lauren Armstrong se ne va dalle scene e dal mondo, in un esilio volontario ma misterioso. Si può sparire del tutto senza lasciare conseguenze? La vita di Eva inevitabilmente ne viene travolta. È come se anche lei iniziasse a scomparire insieme all'attrice. Non lo saprebbe dire a parole, o confessare a qualcuno, ma ogni giorno scende di un gradino verso qualcosa di buio e indefinibile. In quel buio incrocia sua madre Ella. Una donna fuori dal comune, molto diversa da Eva, inquieta, enigmatica. Vent'anni prima di Lauren Armstrong, anche Ella ha tentato di sparire nel nulla. Nel 1989 è andata a Berlino, proprio nei giorni in cui cadeva il Muro. In quei momenti folli pieni di libertà e speranza, Ella ha nascosto per qualche tempo la sua profonda insoddisfazione. E ha lasciato dietro di sé una scia di relazioni che vent'anni dopo Eva proverà a ricostruire. Intanto di Lauren nessuna traccia. Un romanzo denso, sorretto da una scrittura che non smarrisce mai il controllo e conduce il lettore verso uno dei suoi più contraddittori tabù: è possibile fuggire dalla propria vita?
"Io so chi sei, Alessandro Veronesi, conosco l'animo tuo, e ti dico che ti adopererai e ti industrierai affinché tuo padre non muoia in un letto d'ospedale bensì, secondo le sue volontà, nel suo, nel cuore della sua dimora." Il primo racconto di questa raccolta, "Profezia" è la storia di un figlio che accompagna il proprio padre alla morte. Con uno stile incalzante e l'azione tutta profetizzata al futuro, la lettura porta a conoscere uno dei percorsi più antichi del mondo: un figlio che seppellisce il proprio genitore. Cambio di stile in un rapporto padre-figlio è "Quel che è stato sarà", dove il destino è immutato a se stesso, e le dinamiche imposte dai genitori di due diverse famiglie a due figli si riproporranno anni dopo, quando i ragazzini ormai adulti si troveranno di fronte alla tragedia che li coinvolgerà entrambi. La crudeltà senza ragione della "Furia dell'agnello", è una crudeltà che si mischia alla tenerezza di un rapporto con il presunto male, "Sotto il sole dei campi elisi" mette insieme tre letterati, e in particolare due scrittori come Hector e Svevo. Nell'omonimo racconto che dà il titolo alla raccolta, "Baci scagliati altrove", i percorsi tortuosi dell'io narrante sono ostacoli che si superano soltanto quando si riduce lo spazio tra pensiero e azione. Una raccolta di storie in cui gli uomini cercano risposte agli interrogativi mentre la vita, con le sue relazioni e dinamiche, si muove.
Come tramandare la Shoah? Esiste una forma d'espressione efficace per l'orrore? Alessandro Piperno decifra la retorica della memoria in voga nei nostri giorni che spesso con la celebrazione depotenzia il valore della tragedia. Indaga sui concetti di Memoria e Oblio e i rischi connessi utilizzando l'opera di Proust interpretata in chiave profetica. Proust fu il paladino di quei giovani letterati ebrei che alla fine del diciannovesimo secolo scelsero di ripudiare la propria origine. Ma dietro l'apparente antisemitismo si nascondeva una crudele ricerca di autenticità e verità. Ansia di piacere, di essere bene accolti, di promuoversi socialmente utilizzando tutti gli strumenti della seduzione costituiscono il marchio del vizio congenito che rende insopportabili gli ebrei agli occhi di Proust; vizio da cui egli stesso vuole emendarsi. Conformismo e mascheramento accomunano gli ebrei della "Recherche" agli omosessuali così come in essa appaiono: entrambe le "razze" (è così che Proust le considera) sviluppano impressionanti qualità mimetiche in modo da confondersi con l'habitat ostile in cui si trovano fatalmente a vivere. Dalle pagine di Alessandro Piperno scaturisce un'interpretazione nichilista della "Recherche" dove la memoria non è conforto, ma dannazione.
La faccia immersa nella neve, come ovatta soffice che gli toglie il fiato. È la vertigine dell'apnea. Pochi attimi prima Lorenzo stava sciando insieme a Johanna, la sua fidanzata. Un momento spensierato come tanti, ormai irrimediabilmente ricacciato indietro, in un passato lontano. Poi la corsa in ospedale in elicottero, il coma farmacologico e un'operazione di nove ore alla colonna vertebrale. Dai capezzoli in giù la perdita completa di sensibilità e movimenti. D'ora in avanti Lorenzo e il suo corpo vivranno da separati in casa. Ma l'unica cosa che conta, adesso, sono le mani. Poter riprendere a muoverle, poter ricominciare a suonare la chitarra, perché la musica è tutta la sua vita. Dalla terapia intensiva ai lunghi mesi di riabilitazione in una clinica di Zurigo, fino al momento di lasciare il nuovo grembo materno che lo ha tenuto recluso ma lo ha accudito e protetto durante la convalescenza. E il difficile reinserimento in un mondo dove all'improvviso tutto è irraggiungibile e tutti sono diventati più alti, giganti minacciosi dalle ombre imponenti. Con coraggio e determinazione Lorenzo Amurri racconta il suo ritorno alla vita. La voglia di vedere, di toccare, di sentire. Di riprendere a far tardi la notte insieme agli amici, di abbandonarsi all'amore della sua donna e riconquistare la libertà che gli è stata rubata. Ogni tappa è una lenta risalita verso la superficie, un'apnea profonda che precede un perfetto e interminabile respiro.
Immaginate una commedia romantica senza love story. Prendete la Santa Vergine Maria e trattatela come una di noi: jeans di H&M e scarpe da ginnastica. Poi lasciatevi stupire. Elisabetta, detta Betty, è una ragazza di venticinque anni senza particolari pretese né ambizioni. E di Milano, vive con la madre nel quartiere di Lambrate e fa la segretaria in uno studio dentistico con un contratto a tempo indeterminato, una vera fortuna se paragonata alle situazioni precarie in cui versano Vero, la sua migliore amica, e Luchino, il suo più stretto confidente. Si divide fra lavoro, fidanzato e serate in compagnia. Una normalità rasserenante. Ma una sera, dopo piccoli avvertimenti a cui non dà peso, le appare Maria, la Madonna, proprio in camera sua. È un'apparizione esclusiva, a carattere privato. Nessun segreto da rivelare, nessuna profezia di catastrofi imminenti. Maria ha bisogno di un'amica. Di una persona semplice, quasi banale, da frequentare e con la quale condividere esperienze quotidiane. Vuole essere una ragazza qualsiasi, ciò che non è potuta mai essere.
Jonathan ha 31 anni nel 2016, un giorno qualsiasi di gennaio gli viene la febbre e non va più via, una febbretta, costante, spossante, che lo ghiaccia quando esce, lo fa sudare di notte quasi nelle vene avesse acqua invece che sangue. Aspetta un mese, due, cerca di capire, fa analisi, ha pronta grazie alla rete un'infinità di autodiagnosi, pensa di avere una malattia incurabile, mortale, pensa di essere all'ultimo stadio. La sua paranoia continua fino al giorno in cui non arriva il test dell'HIV e la realtà si rivela: Jonathan è sieropositivo, non sta morendo, quasi è sollevato. A partire dal d-day che ha cambiato la sua vita con una diagnosi definitiva, l'autore ci accompagna indietro nel tempo, all'origine della sua storia, nella periferia in cui è cresciuto, Rozzano - o Rozzangeles il Bronx del Sud (di Milano), la terra di origine dei rapper, di Fedez e di Mahmood, il paese dei tossici, degli operai, delle famiglie venute dal Sud per lavori da poveri, dei tamarri, dei delinquenti, della gente seguita dagli assistenti sociali, dove le case sono alveari e gli affitti sono bassi, dove si parla un pidgin di milanese, siciliano e napoletano. Dai cui confini nessuno esce mai, nessuno studia, al massimo si fanno figli, si spaccia, si fa qualche furto e nel peggiore dei casi si muore. Figlio di genitori ragazzini che presto si separano, allevato da due coppie di nonni, cerca la sua personale via di salvezza e di riscatto, dalla predestinazione della periferia, dalla balbuzie, da tutte le cose sbagliate che incarna (colto, emotivo, omosessuale, ironico) e che lo rendono diverso.
L'undicenne Pietro Stefano Mele è un ragazzino qualsiasi, che ancora non sa come un piede messo in fallo possa cambiare tutta una vita. Quando la madre scivola sbatte la testa su uno scoglio, inizia una lunga battaglia con il proprio senso di colpa. Il padre, Seb, dall'esasperato egocentrismo, riversa su Pietro la responsabilità dell'accaduto e lo abbandona nel piccolo borgo sardo di San Leonardo de Siete Fuentes, da nonna Sircana, che fino a quel momento è stata, per il nipote, solo una sconosciuta. L'anziana vive in una casa ai confini del bosco e non pare avere alcuna intenzione di aprire il suo mondo a Pietro. Tuttavia, giorno dopo giorno, tra i due nasce un'intesa profonda. Il romanzo di una grande voce letteraria, la storia della formazione alla vita del ragazzo selvaggio che è in ognuno di noi.
L'ho detto ai carabinieri, l'ho detto al Procuratore, l'ho detto a tutti quelli che mi hanno chiesto "cosa avete visto?": l'albero, abbiamo visto, l'albero ghiacciato. È stata la prima cosa che abbiamo visto, appena arrivati al bosco - e anche dopo, quando abbiamo visto il resto, è rimasto l'unica cosa intera che abbiamo visto. L'albero. Era lì, al suo posto, all'imboccatura del bosco, cristallizzato come sempre nel suo cappotto di ghiaccio, la cui trasparenza era offuscata dalla neve fresca - ma era rosso. Era rosso, sì, come se Beppe Formento, nell'atto di ghiacciarlo, avesse messo dello sciroppo di amarena nel cannone. In quel bianco fatale era l'unica cosa che mantenesse una forma, e sembrava - non esagero - acceso, pulsante di quell'intima luce aurorale che ancora oggi mi ritrovo a sognare. Sogno quella trasparenza rossa, sì, ancora oggi, e la sogno senza più l'albero, ormai, senza nemmeno più la forma dell'albero: sogno quel colore e nient'altro. Un tramonto imprigionato in un cielo di gelatina, un sipario di quarzo rosso che cala sul mio sonno, un'immensa caramella Charms che si mangia il mondo, ho continuato a sognare quella trasparenza rossa e continuo a farlo, perché è ciò che abbiamo visto, quando siamo arrivati al bosco. Cosa avete visto? Abbiamo visto l'albero ghiacciato intriso di sangue.
Hayat, diciotto anni, araba. Daniel, venticinque anni, americano. Ruth, diciannove anni, ebrea. lshi, trent'anni, indiano. Quattro ragazzi, quattro mondi. Sconosciuti in treno, da Milano a Roma: poche ore che possono durare un'eternità. Il tempo di un viaggio, l'occasione per conoscersi, piacersi, litigare, odiarsi, scoprirsi. Una storia di confronti e possibilità.
Venticinque nomi di donna. Venticinque storie. Rapidi “bozzetti” ognuno dei quali racconta di una donna, della sua vita, di esperienze particolari descritte soprattutto per le emozioni che lasciano intuire, senza mai svelare pienamente, in uno stile il più possibile asciutto, senza compiacimenti. Si presta a una lettura agile che lascia però tempo alla riflessione su temi di interesse comune al mondo femminile, e non solo.
Siamo alla fine del 1500. Il vescovo di Catania convoca don Filippo La Ferla in un giorno di pioggia e di freddo, era marzo e c'era vento. Il nobile prelato aveva deciso: lo avrebbe condannato a vivere su un'isola deserta. Forse a Salina. Sta per cancellare dalla faccia della terra conosciuta un diabolico prete. Là dove lo mando, che oserà ordire? Che potrà fare? Chi ascolterà la sua voce? Di lui nessuno saprà più nulla. In un anno senza data, sul finire del Cinquecento, disteso sulla schiena all'ombra di un canneto, il mare davanti, don Filippo La Ferla sonnecchia nell'ora della siesta, al tepore della primavera avanzata. Anche questa volta, il nostro caro prete ci coinvolgerà in una vicenda che non mancherà di stupirci.